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 2013  marzo 13 Mercoledì calendario

CONTRORDINE, L’ALGORITMO NON BASTA ORA È L’UOMO CHE CORREGGE IL COMPUTER


Scambiano titoli, prendono di mira pubblicità, orientano campagne politiche, fissano appuntamenti, vincono al gioco a quiz “Jeopardy” e scelgono perfino la misura giusta del reggiseno: sono gli algoritmi informatici. Sempre più spesso, però, dietro le quinte c’è qualcuno di decisamente più retro: un essere umano. Anche se gli algoritmi stanno diventando sempre più potenti, rapidi e precisi, i computer di per sé sono senza fantasia, e il contesto e le sfumature spesso riescono a confonderli. Per quanto capaci siano queste macchine, non sempre arrivano a decifrare i misteriosi ragionamenti del nostro cervello. Eppure, si chiede loro di essere sempre più simili agli uomini nel modo di pensare.
Ci sono dunque persone incaricate di analizzare, curare o correggere il lavoro di un algoritmo. Oppure assemblano online database di informazioni, creando un promemoria al quale il computer può accedere. Le tecnologie di risposta alle domande, come Siri della Apple e Watson dell’Ibm, si affidano in modo particolare alla collaborazione tra uomo e macchina. Twitter ricorre a un ampio esercito di lavoratori a contratto, che chiama “giudici”, incaricati di interpretare il significato e il contesto di ogni termine di ricerca la cui frequenza aumenti all’improvviso nel servizio. Gli esseri umani possono capire queste allusioni con più accuratezza e più rapidità di quanto può fare un software e i loro giudizi sono immessi nell’algoritmo di ricerca di Twitter. «Il personale umano è il cuore di questo sistema» hanno scritto a gennaio in un post su un blog due ingegneri di Twitter.
Perfino da Google, dove gli algoritmi e gli informatici regnano incontrastati nella cultura e nel lavoro aziendale, il contributo umano ai risultati del motore di ricerca è in costante espansione. Google usa i suoi collaboratori in carne e ossa in due modi: alcuni mesi fa ha iniziato a far comparire sul lato destro della pagina di ricerca una sintesi delle informazioni disponibili, che appaiono non appena un utente digita il nome di una persona molto nota o di un posto, per esempio “Barack Obama” o “New York City”. Queste sintesi attingono a database di informazione come Wikipedia, il C. I. A. World Factbook e Freebase, la cui azienda madre Metaweb è stata rilevata da Google nel 2010. Tutti questi database sono curati da esseri umani. «C’è stato un cambiamento nel nostro modo di ragionare» dice Scott Huffman, direttore della qualità delle ricerche su Google. «Ormai una parte sempre più grande delle nostre risorse è curata dallo staff».
Altri collaboratori in carne e ossa, detti “analisti” o “valutatori”, aiutano Google a mettere a punto quei cambiamenti che si rendono necessari al suo algoritmo di ricerca. «I nostri ingegneri informatici sviluppano l’algoritmo e il personale controlla se un cambiamento costituisce un miglioramento effettivo» dice Huffman.
Watson, dell’Ibm, è un potente computer di risposta alle domande che due anni fa ha sconfitto i campioni del programma a quiz “Jeopardy”, e in questo periodo sta imparando ad aiutare i medici a formulare le diagnosi. Ma anche questo sistema si rivolge agli esseri umani in cerca di aiuto. Per prepararsi al ruolo di assistenza ai medici, Watson riceve analisi mediche, documenti scientifici, record digitali di pazienti senza i dati sensibili. Invece di rispondere alle domande, però, Watson le rivolge a clinici della Cleveland Clinic e a studenti della facoltà di medicina. Quando riceve da loro le risposte, corregge gli errori del computer utilizzando la funzione “Teach Watson”.
Ben Taylor, 25 anni, è un product manager di FindTheBest, una startup in rapida espansione a Santa Barbara in California. L’azienda si definisce un “motore di paragone”, in grado di reperire e mettere a confronto tra loro oltre cento argomenti e prodotti, dalle università alle case di cura, dagli smartphone alle razze canine. Il suo sito web è nato nel 2010 e oggi l’azienda ha 60 dipendenti a tempo pieno. Tra i suoi metodi di ricerca è previsto che parli e scriva messaggi di posta elettronica ai docenti. Gli algoritmi, insomma, stanno migliorando, ma non possono farlo da soli. «Occorre avere discernimento, ed essere in grado di riconoscere intuitivamente l’insieme più piccolo di informazioni importanti» ha detto Taylor. «E per farlo ci deve essere un apporto a livello umano ».

Traduzione di Anna Bissanti
Ny Times-La Repubblica