Vittorio Zucconi, la Repubblica 13/3/2013, 13 marzo 2013
QUEI CENTO PASSI VERSO IL TRONO DI PIETRO
L’UOMO che camminerà in eterno comincia il proprio viaggio dai piccoli cento passi che lo porteranno dalla Sistina alla loggia sopra la piazza. Ho percorso il sentiero che il nuovo Papa dovrà seguire.
DAL momento della elezione fino ai tre gradini che scendono al balcone sopra la Basilica. E non ci può essere cammino più lungo, più vertiginoso né più solitario di quei pochi metri che il Papa dovrà seguire per diventare il Papa della propria Chiesa e non soltanto dei cardinali elettori.
È una strada scavata nei secoli dai sublimi scenografi di una Chiesa Cattolica che possiede, come nessun’altra confessione religiosa nel mondo, la capacità di esaltare e di intimidire contemporaneamente l’uomo che essa promette di venerare e di ubbidire. Nella sedimentazione secolare di liturgie e di luoghi che si sovrappongono e si intrecciano, si passa dalla umiltà monacale della celletta delle lacrime dietro l’altare della Sistina fino alla magniloquenza della piazza, perché l’uomo divenuto Pontefice e successore di Pietro deve conoscere tutto l’arco della esaltazione e dell’umiliazione.
I suoi primi passi, dopo l’annuncio della sua vittoria, possono essere pochissimi se la sua sedia è, come furono quelle di Wojtyla e di Ratzinger, accanto alla porticina sotto lo sguardo della Morte nella Cappella che conduce alla stanzetta della vestizione. Avrà, in quel momento, già completate le formalità della propria elevazione, l’accettazione, il nome da assumere, quello che ogni cardinale fra quei 115 sicuramente, e segretamente, ha già pensato, la notarizzazione della nomina. Poi, piante le lacrime — se ne ha — in quella celletta arredata con un divanetto di velluto e i manichini per le tre vesti bianche e indossato l’abito bianco che nessun altro può vestire, anche se ora un altro Papa non più Papa ancora lo porta nel rifugio tra i Castelli Romani, comincia la lunga strada verso l’apoteosi e la realizzazione di quanto gli è accaduto.
Deve percorrere alla rovescia tutti i 40 metri di lunghezza della Cappella Sistina, dove poche ore, o pochi giorni prima, era entrato invocando l’avvento di uno Spirito che, con qualche sostanzioso aiuto umano, ha deciso di scegliere proprio lui. Sa che gli saranno risparmiate almeno le oscene procedure che la intronizzazione dei Papi nel tardo medioevo imponevano agli incerti personaggi che salivano sul trono di Pietro. Non ci saranno esami corporali per accertare la sua mascolinità, nel dubbio che sotto quelle tonache e sottane e mantelli, mille anni or sono, potesse nascondersi una femmina. Non sarà bruciata stoppa per rammentagli che “sic transit gloria mundi”, quanto sia effimera la gloria terrena e nessun popolano famelico metterà a sacco la sua stanza nel convento di Santa Marta, come fu per l’elezione di Niccolò V nel XV secolo, quando le case dei nobili romani furono devastate.
Ma dopo essere uscito dalla Cappella Sistina e entrato nella Sala Regia, davanti ai piedi si spalancherà quell’abisso di solitudine che tutto il trambusto dell’elezione, dell’omaggio dei confratelli in porpora che magari lo hanno combattuto fino all’ultima scheda versata nel calice dell’Elevazione che le raccoglieva, gli aveva risparmiato. Per la prima volta nella propria vita di Sommo Pontefice della Chiesa Romana da non più di un’ora, il Papa sarà solo.
Si girerà a sinistra, per entrare nella Cappella Paolina. Come aveva disposto con mistica crudeltà quel suo predecessore tedesco che ha seguito in televisione le giornate del Conclave, primo Papa a poter guardare eleggere un Papa, dovrà pregare in assoluta solitudine. Nessuno potrà affiancarlo nell’isolamento sotto gli sguardi terrificanti dei giganti michelangioleschi che lo scruteranno dai due lati senza misericordia, nella pienezza della loro furia barocca. Alla sua destra, Pietro, crocefisso a testa in giù, agonizzante, ma con occhio spalancato e feroce. Di fronte Paolo, l’apostolo della 13esima ora, il Saulo fulminato sulla via di Damasco da quello stesso Dio che il nuovo Papa ha giurato di servire fino alla morte. O alla possibilità della rinuncia, che d’ora in poi lo seguirà come le ombre dei santi affrescati.
È un luogo grande, la Paolina, che avete visto nella diretta pre-Conclave per l’ultima riunione di cardinali, elettori ed esclusi per età, eppure soffocante nella sua incombente magnificenza. «È come se Pietro, nell’ora della prova suprema, cercasse quella luce che ha donato la vera fede a Paolo, nel dramma del Mistero pasquale: Croce e Risurrezione, morte e vita, peccato e grazia», disse proprio Benedetto XVI nel 2009 quando riaprì la Paolina dopo i restauri e dovette avere lì, in quella occasione, l’idea di costringere il successore alla maestosità della solitudine. Morte e vita, peccato e grazia, il mistero da risolvere secondo Ratzinger, prima di ogni altro, nell’abbandono alla preghiera, in questo momento senza precedenti nella storia del Papi. Almeno fino alla notte, la lunga teoria dei pontefici poteva contare sulla presenza di qualcuno al proprio fianco, senza arrivare alle orge di 52 mila e 559 pagnotte, 325 agnelli, 100 capretti, 16 maiali, 50 bovini consumati, più adeguati contorni che festeggiarono l’elezione di Innocenzo VI nel 1352. Ma se non c’erano limiti di decenza per i Papi del Medioevo o del Rinascimento, non ci sono limiti di tempo per il nuovo Pontefice in questa sosta obbligata nel cammino verso l’ultima tappa del trionfo-calvario che deve percorrere.
Soltanto quando avrà sciolto nel raccoglimento e nella preghiera tutte le proprie angosce, i tre cardinali, uno per i Vescovi, uno per i Presbiteri, uno per i Diaconi, potranno raggiungerlo insieme con il cardinale protodiacono e il chierico che con la croce astile, il crocefisso fissato sopra un’asta, che reggerà davanti alla folla nella piazza, rivolto verso l’esterno, come vuole il rito romano. Sarà con loro che l’eletto percorrerà gli ultimi passi del proprio viaggio verso il mondo, nella loggia sopra la basilica di San Pietro.
Nell’ultima stazione del suo trionfo-calvario l’uomo Papa troverà pareti assai poco tronfie e spoglie di sensazionali capolavori, soltanto opere di valorosi manieristi del Seicento che ho visto freneticamente restaurare a fine febbraio da esperte della Scuola del Restauro arrampicate sui tralicci. L’ultima sala è soltanto un lungo corridoio, cieco sul fondo e sul lato destro, per lui che vi entrerà, illuminato dalle cinque grandi finestre sopra la piazza. Quando l’ho vista, era naturalmente vuota, come la stanza che era ancora svestita degli addobbi che sono stati predisposti nelle ultime ore, soltanto divisa dai corrimano d’ottone che la percorrono come binari. Arrivato alla terza finestra, quella centrale, il Papa avrà completato i sentieri dei cento passi verso la speranza e il supplizio del suo regno. Le finestre saranno già state spalancate e il protodiacono, il cardinale francese Jean Louis Tauran, avrà già annunciato il “gaudium magnum” e latinizzato il suo nome.
Si scendono tre gradini di travertino, per raggiungere dalla sala il livello della Loggia della Benedizione e non so dire se quei tre scalini abbiano, nel numero, significati mistici o richiami evangelici, o semplici necessità architettoniche, perché tutto, qui, sussurra segnali o tentazioni simboliche. Forse non servirà quella stufetta che vedo seminascosta accanto alla seconda finestra, quella senza loggia, e che il clima gelido potrebbe suggerire. Ma è irresistibile pensare che, finito il proprio primo viaggio da Papa, il Pontefice debba scendere, e non salire, per affacciarsi sul mondo e incontrare il proprio popolo, mai come ora confuso e ansioso. Tre gradini per non sentirsi troppo alti sul mondo, per sfuggire alla vertigine della piazza sotto i piedi. Dovrà, come ormai è divenuto inevitabile dopo Wojtyla, e come Ratzinger dovette subire soffrendo, aggiungere qualche parola alla formula della benedizione Urbi et Orbi, che proprio Benedetto XVI stava dimenticando di impartire. Poi, lo attendono la suite papale nel convitto di Santa Marta, la notte e il sonno, se l’angelo del riposo avrà pietà di lui.