Daniele Martini, Il Fatto Quotidiano 12/3/2013, 12 marzo 2013
A RISCHIO AFFARI PER 3 MILIARDI
Dalla Piaggio alla Fiat, dall’Eni alla Merloni elettrodomestici, dal gruppo Luxottica degli occhiali alla Perfetti, quelli delle caramelle e dei chewing gum, dalla Chicco dei prodotti per i bambini alla Zegna degli abiti e dei tessuti, sarà più difficile da oggi, è facile immaginarlo, la vita per tutte le circa 400 aziende italiane presenti in India. E non solo per la Fin-meccanica, che nel grande paese asiatico si era già compromessa la reputazione per via della brutta storia dei 12 elicotteri Agusta con tangenti incorporate. Un affare da oltre 500 milioni, di fatto saltato per l’irritazione del governo indiano.
PERCHÉ se è vero che gli affari sono affari, è anche vero che è impresa assai ardua mantenerli su binari rodati quando a guastarli sopraggiungono fatti destabilizzanti. E questo dei marò italiani sottratti alla giustizia indiana è proprio uno di quegli sgarbi internazionali da manuale, gravidi di conseguenze imprevedibili e potenzialmente sgradevoli, capaci di raffreddare rapporti a prova di bomba. La presenza italiana in India è ormai un dato storico, costruita in oltre mezzo secolo di relazioni cordiali, corroborata da circa 3 miliardi di euro di esportazioni e 4 di importazioni (dati Ice relativi ai primi 10 mesi del 2012). Fiat e Piaggio sono le antesignane della presenza italiana in quel mondo e vogliono dire soprattutto motorizzazione di massa a buon mercato, con prodotti affidabili, a cominciare dalla Vespa e dai suoi derivati, tipo Ape e simili.
DA QUEL primo nucleo è partito un fiume di iniziative commerciali e industriali che si estrinsecano in imprese sussidiarie possedute dalla casa madre italiana, joint ventures, uffici di rappresentanza, società di diritto indiano fondate da italiani. Le nostre imprese in India si addensano intorno ai poli di Delhi-Gurgaon-Noida e di Mumbai-Pune; altri due poli importanti si trovano a Chennai e Bangalore, mentre meno importante è quello di Calcutta nello stato del Bengala occidentale. Le società apripista sono ancora molto presenti nell’economia indiana. La Fiat auto ha intrecciato una joint venture con il colosso indiano del magnate Tata. La Piaggio continua a produrre veicoli a tre ruote nello stabilimento di Pune e ha inaugurato da poco una nuova fabbrica a Baramati per la Vespa. La Magneti Marelli (componenti auto) ha stabilimenti a Pune e New Dehli e avviato sei joint venture con altrettanti partner indiani.
Nel settore degli alimenti, la Perfetti ha conquistato addirittura il 40 per cento del mercato indiano, la Lavazza ha comprato la catena di coffee shop Barista e aperto di recente uno stabilimento per la tostatura del caffè a Porur-Chennai. La Ferrero ha 1.500 dipendenti a Pune mentre Bauli ha una fabbrica nel Bengala occidentale. L’Eni è attiva nell’ambito dell’esplorazione, Chicco sta aprendo negozi in tutta l’India, Luxottica ha uno stabilimento in Rajasthan. Merloni è diventato il maggior produttore indiano di scaldabagni elettrici e in India produce anche articoli sanitari con il marchio Ariston e piccoli elettrodomestici Racold, esportati nel mondo. Molte le imprese italiane che stavano cominciando ad entrare nel mercato indiano o avevano in animo di allargarsi. A cominciare da Zegna, che aveva programmato di aprire entro il 2015 punti vendita in sei o sette città indiane. Per proseguire con società delle costruzioni e delle infrastrutture come Astaldi, Impregilo, Ferrovie, Autostrade. Che fine faranno i loro piani dopo il voltafaccia sui marò?