Gillo Dorfles, Corriere della Sera 12/03/2013, 12 marzo 2013
IL BUON GUSTO NON SI VEDE A TAVOLA
Si è discusso molto (anche troppo) negli ultimi tempi del concetto di cattivo gusto; si è persino organizzata una grande esposizione dedicata ai problemi e agli oggetti kitsch. Quello invece che non è stato sinora trattato è il «buon gusto»; eppure non si può negare che molte delle azioni e delle produzioni umane possano rientrare in questa categoria piuttosto che in quella del cattivo gusto.
Effettivamente bisogna riconoscere che l’aspetto assiologico di solito rivolto alla condanna del kitsch viene di rado impiegato per quello che appartiene al suo contrario. In effetti, il valore assiologico rivolto al problema del buon gusto esula da quello che è il semplice tenore della dichiarazione del gusto. È proprio a questo proposito che mi sembra opportuno tener conto di una distinzione netta tra quello che è un giudizio cognitivamente impostato e quello che è per contro legato soprattutto all’emotività e al sentimento, come accade di solito nelle opinioni del pubblico.
Il problema del buon gusto «allora» dovrebbe essere quanto più è possibile legato a quello del senso comune (forse dicendo common sense avremmo specificato meglio il valore di questa espressione, che in fondo si riferisce a tutto quel vasto panorama di azioni, considerazioni e precisazioni che appartengono al comune senso dell’uomo della strada, ossia a un livello assiologico esclusivamente legato al patrimonio comune di cui l’uomo è partecipe). Il fatto di legare il concetto di buon gusto a quello di senso comune offre il vantaggio di non pretendere dal nostro giudizio nessuna specializzazione né peculiarità critica. In questo modo il buon gusto viene a essere affrancato da ogni schermo ideologico, culturale, scientifico e rimane come qualità innata nel giudizio libero, e senza pregiudizi dell’uomo della strada e anche di quello che appartiene all’ambiente culturale.
Una precisazione molto attenta e particolareggiata di questo problema è stata affrontata di recente in un volumetto esile ma molto denso e circostanziato di Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo (Mimesis edizioni), nel quale l’autore riesce con molta precisione a dare una visione netta della analogia tra i problemi del gusto e del senso comune. Basterebbero infatti alcune sue frasi per precisare meglio la sua posizione, quando afferma ad esempio: «Il giudizio di gusto somiglia a un giudizio dell’intelletto, ma non lo è», «solo se presupponiamo il senso comune può essere dato il giudizio di gusto. Ovvero, il gusto può sottrarsi a quella forma strana di un sapere che non sa di se stesso». «Ma c’è giudizio di gusto — Geschmacksurteil — solo se c’è Gemeinsinn, cioè se il "noi" si qualifica con la forma dell’universalità e non è un semplice "qualcuno" o "molti" (anche se si tratta degli esperti o, diremmo oggi, dell’istituzione)». Come si vede, secondo questa accezione il comune senso di sentire — soprattutto sensorialmente più che cognitivamente — dell’umanità fa sì che si crei quella condizione particolare che permette di distinguere quello che voglio definire come «buon gusto».
Naturalmente bisognerà fare attenzione a non prendere l’abbaglio di confondere quello che è e deve restare una situazione critica e specialistica rivolta all’arte e agli artefatti piuttosto che a un insieme di azioni e reazioni rivolte alla moda, al costume e in genere alle attività vitali e creative dell’uomo. A questo punto una discussione che non può essere posta e che ovviamente risale già alle grandi impostazioni date al problema dagli empiristi inglesi (Locke, Hume, Priestley), è quella di una distinzione netta tra quello che è il gusto palatale e quello che è il gusto intellettuale e culturale.
È ovvio che non bisogna confondere i due aspetti del gusto, perché sarebbe troppo facile affermare che il buon gusto appartiene soltanto a una categoria di leccornie, ma d’altronde basta osservare la diversità connotativa tra la parola tedesca geschmack e quella inglese taste (per non fare che l’esempio di due lingue, ma se ne potrebbero scegliere ben altre) per rendersi conto di quello che viene considerato il buon gusto a prescindere dall’area palatale. A questo punto non possiamo che augurarci che il buon gusto non alimentare prevalga nella maggior parte delle popolazioni civilizzate, anche se non vogliamo adombrarci se da parte degli uomini esiste ed esisterà sempre una netta preferenza per quello che è il gusto alimentare.
Gillo Dorfles