Filippo Ceccarelli, la Repubblica 12/3/2013, 12 marzo 2013
IL GIRONE DEL POTERE
Un divertimento, un’ossessione, un colpo di genio, una botta di follia, una visione, un’indigestione, una passione perfino civile, uno sfogo e insieme uno sfoggio di talento ritmico e versificatore, una scommessa vinta o persa, una fuga, un equivoco, un omaggio alla vecchia prof di lettere del liceo...È difficile, anzi è impossibile capire cosa abbia mosso Tommaso Cerno, che di mestiere fa il giornalista dell’Espresso, a scrivere l’Inferno, sottotitolo La Commedia del potere (Rizzoli, nella nuova collana Controtempo appena inaugurata, in libreria da domani), tutto in terzine ovviamente dantesche, pure nello stile, 14 canti fitti di note e con ampio repertorio biografico dei personaggi di questa Italia sottosopra, adeguatamente dannati e rappresentati.
Sennonché la composizione poetica, e a tratti qui anche la poesia, tende a sfuggire di mano e finisce per scorrere via sulla pagina con esiti imprevedibili, a beneficio del paziente lettore. Senza farla troppo lunga: Cerno scende nell’inferno del potere inoltrandosi in un imbutone posto sotto Montecitorio, edificio che pure nella realtà offre diverse vie sotterranee ricche di fogne, cimeli, sorci e gattacci. Gli fa da guida un Andreotti depuratosi dal cinismo, e incontra un sacco di gente nota alle cronache degli ultimi vent’anni, più o meno. Bolge e gironi paiono adeguati, nella loro disposizione, agli standard dell’odierna moralità, come del resto i tormenti assecondano l’ordine di un contrappasso che la sadica fantasia dell’autore ha sagomato in base ai vizi, ai reati, agli sgarri e più in generale all’immagine dei personaggi. Tremonti, per dire, inghiotte libri di economia imboccato da Monti; Formigoni deve vedersela con don Giussani; Scajola costruisce una casa che si smonta da sola; Vespa in forma di toro affronta un torero con le teste di Santoro e Travaglio; Prodi è costretto a fissare una celeste costellazione che ricalca il tabellone dei voti che decretarono la fine del suo governo; e così via. Le quattordici tavole di Makkox trascinano il tutto in un universo al tempo stesso vistoso e irreale.
Vero è anche in tempi di tecno-riemersioni, tra giuramenti, investiture, troni, cortigiani, servi, buffoni, predicatori, Dante era nell’aria. Ma l’aspetto meno scontato dell’opera di Cerno, o meglio il sorprendente effetto dell’impresa sta proprio nella sua lucida e intransigente serietà. Non si tratta cioè di satira, né di parodia, né mai si cerca di strappare nemmeno l’ombra di un sorriso, ma in definitiva il testo si prende sul serio e la sua lettura va necessariamente accompagnata a quella delle note.
Queste orientano e convalidano interpretazioni, preannunciano invettive e similitudini, segnalano perifrasi, anafore, poliptoti, riferimenti mitologici o numerologici, ma soprattutto denunciano una impressionante conoscenza della recente storia italiana, fino a giostrare con le più illuminanti minuzie, dal ruolo della Banca Rasini nell’avventura berlusconiana, per dire, al cognome della mamma di D’Alema, Modesti, ovviamente vanificato dalla superbia filiale. Con il che, superata l’obiettiva fatica di saltabeccare continuamente a piè di pagina, vengono fuori storie levigate e drammatiche che il rincorrersi degli endecasillabi, sotto la pressione della sintesi, addirittura nobilita e umanizza.
Per cui Craxi e Di Pietro, al dunque, sono davvero loro. E l’orgogliosa resistenza di Bossi acquista qualcosa di titanico, l’auto-presentazione di Grillo si fa strada come un trasognato frammento di verità, la storia della D’Addario appare assai ragionevole e lo stesso Berlusconi, nudo su un trono di pietra, non trascura di accennare al fatto che da bimbo tifava per l’Inter e che da quando è morta Mamma Rosa è decisamente sbroccato.
Insomma, proprio la forma trasmette una singolare autenticità. Inatteso risultato per un lavoro certo complesso e per tanti versi maniacale, che ha diversi precedenti, tra i quali piace qui ricordare le cantiche del dottor Pietro Lollobrigida, da Subiaco, forse avo dell’attrice, che ebbe breve e spassosa popolarità nella Roma di fine ottocento.
Qui il gioco sembra piuttosto freddo che caldo, e ben più grave che leggiadro non solo perché proprio adesso quel ciclo di potere che per pigra comodità si designa come Seconda Repubblica sta venendosene giù con effetti a suo modo miserevoli e pagliacceschi. Il punto delicato è che attraverso i personaggi davvero il potere si rivela un inferno, e nei loro riguardi Cerno si guarda bene dall’assumere un intento moraleggiante o giustizialista, scegliendo semmai di calarsi nell’animo di chi incontra, Vanna Marchi, il comandante Schettino, Marrazzo, Emilio Fede. Corrotti e corruttori, lungo un sintomatico arco di tempo che dal craxiano Cusani arriva al dipietrista Maruccio, si giustificano mettendosi a nudo da soli; altri tipi di “peccatori”, da Versace a Pasolini, raccontano le loro vite e le loro morti con malinconico rimpianto; alcuni di loro – se è consentito provare sentimenti – fanno anche pena, sentimento quanto mai raro e prezioso al giorno d’oggi.
Verità e giustizia, avverte infatti il saggio Andreotti, non sono di questo mondo, mentre sulla stessa vita pubblica incombe una sorta di maledizione, come spiega Nichi Vendola: «Politica sì bella e sì dannata!/ Senza di te può mai cambiar lo mondo/ ma il germe tuo ti fa malata».
Vero è che questo inferno post-moderno e post- ideologico difetta di picchiatori, sequestratori, assassini, stragisti. E certo la lingua di Dante ne risente. Ma forse è proprio lo sforzo di evitare lo spargimento di sangue ad aver innescato quella costante torsione che imprime il suo codice a barre su quest’epoca “sudicia e sfarzosa” e la consegna al disastro buffo che si dispiega sotto i nostri occhi.