Raffaella De Santis, la Repubblica 12/3/2013, 12 marzo 2013
TREVI: VIA DALLO STREGA DECIDONO TUTTO GLI EDITORI
[Emanuele Trevi]
«BASTA, così non può andare avanti, mi autosospendo». Emanuele Trevi lascia in polemica la giuria del Premio Strega e accusa meccanismi, criteri e metodi con cui vengono selezionati ogni anno prima la cinquina dei finalisti e poi il vincitore. L’anno scorso con il saggio Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) Trevi era arrivato a due passi, anzi a due voti, dalla vittoria.
Lo superò, al termine di una serata combattutissima Inseparabili, il romanzo di Alessandro Piperno edito da Mondadori. Oggi, nei giorni in cui si vanno definendo le candidature ufficiali, lo scrittore, che dal 1994 fa parte della giuria dei 400 Amici della Domenica, decide di prendere le distanze.
Come mai una decisione del genere proprio adesso, dopo tanti anni nella giuria?
«Mi sembra il momento migliore. Non mi piace un premio in cui il candidato è stabilito dalle case editrici, che scelgono da sole i loro cavalli di battaglia, e in cui molti giurati sono stipendiati dagli stessi editori che poi gli chiedono il voto. Il criterio va ribaltato: sono i giurati che debbono battersi per i libri in cui credono».
Lei però l’anno scorso ha partecipato con un suo libro. Non le sembra un po’ strano criticare solo adesso il premio?
«No, queste cose le ho sempre dette, anche in passato. Vorrei un premio in cui possa finalmente vincere una casa editrice piccola come Quodlibet e un libro come quello di Paolo Albani, I mattoidi italiani. Allo Strega lavorano persone di grande intelligenza come Tullio De Mauro, Nora Alberti e Stefano Petrocchi, dunque mi rivolgo anche a loro: se non ora quando? È questa la fase giusta per attuare una rivoluzione».
Cosa vorrebbe cambiare?
«Prima di tutto ci vorrebbe una riqualificazione della giuria. Debbono essere i giurati a scegliere i libri e non le case editrici, che si muovono seguendo esclusivamente i principi del marketing. Lo Strega dovrebbe seguire l’esempio delle classifiche di Pordenonelegge, guidate da criteri di qualità e non di mercato. Inoltre bisognerebbe rinunciare al voto segreto, per escludere qualsiasi sospetto di pacchetti di voti già assegnati. Infine, come già ho anticipato, dovrebbero essere tagliati fuori dalla giuria gli stipendiati dagli editori. A quel punto le stesse case editrici potrebbero forse finalmente iniziare a lavorare alla luce del sole».
Perché sfilarsi alla vigilia delle candidature?
«L’anno scorso essendo in gara non ho votato, dunque la continuità si era già interrotta. Sono tra gli Amici della Domenica dal 1994, ero il più giovane giurato d’Italia. Durante tutti questi anni ho cercato di assolvere il mio compito con onestà, premiando i libri migliori. In realtà non mi sono mai sentito completamente a mio agio. Già in passato avrei voluto uscirne. Ero però molto legato a Anna Maria Rimoaldi, che riusciva ogni volta a trattenermi. Anche Cesare Garboli ha avuto su di me una grande influenza nello spingermi a rimanere. Ma adesso il fastidio è diventato non più tollerabile».
Si riferisce alle telefonate per chiedere i voti?
«Le telefonate sono pietose. Si arriva perfino alla maldicenza. Diciamo che le più innocenti sono quelle in cui ti dicono che il tuo voto è sprecato. Mi dà fastidio la maleducazione, nelle chiamate trapelano velate minacce».
La scorsa edizione anche il suo editore avrà telefonato per chiedere voti in suo favore, non crede?
«Sì, e ora ci si aspetta un risarcimento, perché chi ha partecipato in prima persona è naturale che abbia accumulato dei debiti. Per questo come ulteriore regola vieterei a chi ha concorso alla gara di far parte della giuria. E poi, mi creda, è umiliante anche per lo scrittore vincere con i voti che l’editore ha racimolato telefonando».
Può dirci però per chi avrebbe votato?
«Avrei scelto il romanzo di Walter Siti, Resistere non serve a niente. Tifo Siti, ma non lo voterò. Non prendo parte a un premio malato, che non risponde a un criterio culturale di qualità. Lo Strega va sottratto alla logica del mercato e al mondo del potere, dal quale finché possibile voglio vivere al riparo. Desidero che le cose che faccio mi assomiglino. E poi le cose belle sono disinteressate».