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 2013  marzo 02 Sabato calendario

DIMMI COME TIENI L’IPHONE E TI DIRÒ CHI SEI

Racconta lo scrittore Jonathan Lethem che suo figlio «ogni volta che vede una testa parlante alla tv pensa che sia in collegamento su Skype e che si stia rivolgendo proprio a lui. Per cui lo imbarazza tantissimo stare nudo davanti allo schermo». E c’è una vignetta del New Yorker con una bambina di tre anni che divarica le ditine sulla finestra per zoomare sul panorama: «Ha di nuovo scambiato un vetro per un touchscreen», dicono i genitori. In giro è pieno di ragazzini che lo fanno, il video di quelli che scansano le riviste come fossero iPad rotti è un classico su YouTube. La blogger di tecnologie dell’HuffPost giura d’averlo visto fare a un’ amica sovrappensiero, sullo specchio del bagno di un hotel.
Più usiamo le tecnologie digitali, più ci chiamano “utenti passivi”. Eppure si muovono molto quelli che cozzano con gli Ipad camminando per strada, trafficano sui telefonini in ascensore tanto che nessuno ha mai un dito libero per schiacciare il pulsante, danno il colpo d’anca o la borsettata ai tornelli d’entrata di uffici e metrò per avvicinare il badge. «Non siamo mai stati così attivi», dice Nicolas Nova, ricercatore del Near Future Laboratory di Ginevra che con due colleghi dell’Art Center College di Pasadena si è messo a catalogare i gesti e le pose digitali del XXI secolo: tutto in un pdf intitolato Curious Rituals, che circola liberamente per la rete. Nova divide i gesti in “classici” (dare di pollici sui Blackberry, tipico dei manager pre-crisi, la giocoleria digitale di quanti si ostinano a non usare l’auricolare in auto), “gesti brevettati dalle aziende” (striscia e sblocca, divarica e zooma), “nervosismi e tic”, “tattiche personali” (sbracciarsi davanti ai sensori del bagno, usare l’iPad come abatjour), “interazioni sociali” (se il vicino controlla le email sarete spinti a farlo anche voi), “manovalanza digitale assurda” (come tentare di zoomare su un vetro).
La tesi è che tutto questo microagitarsi dell’umanità è «la manifestazione fisica di un mondo che ci ostiniamo a chiamare “virtuale”, ma non lo è così tanto. Con tutti questi gesti stiamo delineando i confini della Rete», teorizza il predicatore tecnologico Mitchell Whitelaw, «la rendiamo umana, a volte goffa, o sexy, come Jimi Hendrix dava forma al suono della sua chitarra contorcendosi». Il catalogo è dedicato agli scrittori William Gibson «e Georges Perec, il sostenitore dell’Infra-ordinario per cui le cose a cui facciamo meno caso, i gesti che ci sembrano banali, sono quelli che rivelano di più».
Per esempio, non è vero che i supporti digitali appiattiscono tutto e con l’e-book non saprai mai chi legge Dostoevskij e chi Fabio Volo. Una delle pose catalogate è quella del “prayer book reader”: impugnare il tablet come un libriccino di preghiera, sul palmo aperto o entrambe le mani a leggio e sguardo contemplativo: denota un momento emozionale solenne (Dostoevskij, o la pratica di divorzio arrivata via email). «Se è per questo - interviene Marco Belpoliti, scrittore e critico di fenomeni sociali - vedendo maneggiare i tablet ho pensato spesso ai gesti del prete con il messale, quando si appoggia solennemente come un oggetto in qualche modo sacro. L’iPad è uno specchio ma anche un pozzo da cui ci si aspetta che affiorino rivelazioni e verità».
Alla parola rivelazioni viene in mente un’altra posa del catalogo, la “baboon Face”, faccia da babbuino: mani davanti a telefonino e bocca durante la conversazione. Pare che i designer stiano studiando cabine telefoniche “mandibolari”. Per Belpoliti la “faccia da babbuino” è «diffusissima tra i politici. Perché sanno che come il computer Hal di 2001 Odissea nello spazio, potremmo leggere il labiale».
I politici sanno bene anche di un rituale digitale sociale che pare l’apertura di un romanzo di Edith Warthon 3.0: al ristorante o in riunione, un membro del gruppo (o il capo) riceve una chiamata al cellulare e, comunicando con una smorfia la necessità di doverlo fare, risponde: il gruppo lo segue a grappolo controllando i rispettivi Twitter updates e le notifiche Facebook, in una ricreazione digitale di massa che è quello che l’antropologa Sherry Turkle definisce Insieme ma soli (il titolo del suo saggio pubblicato per Codice).
Bianca Bosker dell’HuffPost aggiunge «l’uso di Siri a tavola come convitato deficiente cui fare domande cretine. Google è l’onnisciente, prima ce n’era sempre uno in carne e ossa, nei gruppi». Sia lei che gli altri intervistati partecipano rassegnati all’abitudine di tenere le proprie tecnologie sotto il tavolo, sguardo e pensiero spesso lì, «come se soffrissimo di un misterioso prurito alle parti intime» (Lethem).
Tom Chatfield, l’autore di Come sopravvivere nell’era digitale (Guanda), racconta di essere stato «colpito dalla “sindrome della vibrazione fantasma”, per cui anche se hai dimenticato il cellulare a casa senti in tasca la vibrazione di quando ricevi qualcosa. Per difendermi ho sviluppato un mio rituale da tavola: spegnere il telefono e tenerlo accanto al tovagliolo, inerte, simbolo dell’attenzione totale che ho intenzione di riservare a chi è lì con me». È un gesto digitale anche l’unplugging, in effetti. Come quello che nel catalogo si chiama “half-Courtesy”, mezza cortesia: togliersi un auricolare per ascoltare cosa deve dirci qualcuno per strada. I progettisti osservano e studiano cuffie con opzione “cortesia” integrata.
«È affascinante vedere come le compagnie abbiano introdotto un linguaggio gestuale completamente inventato. Ma lo facciano anche spiando i nostri comportamenti naïf con le tecnologie. A quali poi mettono il copyright», dice Nicolas Nova. A chi appartengono i nuovi gesti? La Samsung ha pagato un miliardo di dollari alla Apple per avere violato tre brevetti: il bounce-back che ricatapulta a inizio schermo, il tap per zoomare e il pinch per allargare. Bosker ha postato su Twitter una pubblicità datata 30 marzo 1980: «Stiamo cercando l’uso più originale di un Apple dai tempi di Adamo (che è un biondino nudo con un computerone a nascondere i genitali)”. Un concorso invitava a descrivere in 2000 parole il modo più insolito di trafficare su un computer. L’utente finale è il più creativo, Steve Jobs lo ha capito presto e deve avere spiato meglio di tutti gli altri, se i suoi iTouch sono diventati la nostra seconda natura.
In compenso c’è una specie di darwinismo nell’uso delle dita. Come dimostra la parabola raccontata da Riccardo Staglianò (autore tra l’altro di Toglietevelo dalla testa, nel senso del telefonino, per i danni letali di cui i produttori non dicono, Chiarelettere): «C’era in Giappone la oyayubisoku, la tribù del pollice, giovani che il cellulare lo tenevano più in mano che all’orecchio, e non era la prima volta che un’evoluzione partiva dal dito più tozzo e decisivo. Oggi però il gesto nuovo che registra lo Zeitgeist è quello dell’indice che silenzia le chiamate in arrivo. È uno scatto nervoso, con scuotimento della testa come a dire: “No, questo no. Non ora”. E se nelle intenzioni di chi lo compie c’è un sottotesto di rispetto per l’interlocutore che è lì in quel momento, resta un po’ di imbarazzo se ci si mette nei panni del rifiutato. Chissà quante volte, quando il numero non risponde, l’analisi costi-benefici è stata a discapito nostro».
I gesti digitali sono diventati così pervasivi, conclude lo scrittore Geoff Dyer, che finiamo per vederli perfino nel passato. «C’è una famosa foto di Ruth Parkin presa nel giorno dei Veterani ’45, con una donna che giurerei stesse parlando al cellulare. Come l’orologio lasciato da un costumista distratto al polso d’un romano nel film Ben Hur».
Solo l’adorabile brontolone tecnologico che è Jonathan Franzen riesce a fornire l’interpretazione perfetta per la posa più banale dell’umanità, il cellulare all’orecchio: «Improvvisamente li guardo e mi sembra che abbiano tutti un ascesso ai denti», risponde dal suo.