Marco Ferrari, Focus 22/2/2013, 22 febbraio 2013
PERCHÉ IO NO?
Non è solo questione di fortuna. O di essere carini, simpatici o noti. Se il rinoceronte di Sonda si è estinto in Vietnam nel 2011, mentre quello bianco e quello nero vivono (quasi) al sicuro in Africa, se la saiga della foto accanto sta rischiando grosso, si deve a una serie di complicati fattori che nell’insieme potrebbero essere definiti “geopolitica della conservazione della natura”.
La conta. «Sembra banale dirlo, ma per attuare una politica di conservazione prima di tutto è necessario conoscere che cosa vorremmo proteggere» spiega Marco Valentini della Direzione protezione della natura del ministero dell’Ambiente. «Neanche in Italia abbiamo una lista completa di tutte le specie presenti sul territorio». Sappiamo per esempio che le sole specie animali sono almeno 56.000, ma non abbiamo nessuna idea per molti altri gruppi (vegetali, funghi ecc.) e non conosciamo il numero esatto degli esemplari di ogni specie. Figuriamoci cosa può accadere nei Paesi del Terzo Mondo dove sono in discussione i bisogni primari della popolazione. Solo se la specie o l’ambiente sono particolarmente noti o minacciati, come potrebbero essere il panda in Cina o una foresta montana in Europa, la scienza può decretare con assoluta certezza che per quell’animale o quell’ecosistema è necessario istituire una zona protetta e sensibilizzare i governi locali.
I finanziamenti. Ci vogliono poi le risorse economiche: per stabilire i confini dell’area da proteggere, creare una struttura di gestione (dalla dirigenza alle guardie), e continuare a monitorare lo stato delle cose. Nei Paesi avanzati spesso i fondi ci sono; per proteggere il condor della California, una specie nordamericana di cui rimanevano solo 22 esemplari, sono stati spesi circa 35 milioni di dollari negli ultimi vent’anni.
Non sempre però è possibile giustificare spese per la natura nei Paesi poveri, dal Pil estremamente basso, spesso anche coinvolti in conflitti armati. E in alcune occasioni, persino quello che si potrebbe pensare un elemento indispensabile, la pace, può diventare un aspetto negativo. Quando per esempio la Cina invase la Mongolia, l’Urss si precipitò in aiuto alla nazione vicina. Scacciati i cinesi, l’esercito sovietico rimase a presidiare la zona. I soldati iniziarono però un vero e proprio sterminio delle antilopi locali (Procapra gutturosa) che ridusse la popolazione da oltre 4 milioni a circa 400.000. Solo l’intervento in extremis del governo della Mongolia ne ha evitato l’estinzione completa. Una sorte che potrebbe toccare a un’altra specie asiatica, la saiga (Saiga tatarica): il bracconaggio da parte di russi e cinesi per il corno (usato nella medicina tradizionale) ha quasi spazzato via la specie, che, da 1.250.000 esemplari nei primi anni Settanta, è arrivata a circa 50.000 ai giorni nostri.
Paese che vai... Secondo Valentini, è difficile arrivare a regole che possano essere applicate ovunque: «Ci sono habitat, animali e popoli che impongono approcci completamente diversi». Un progetto di conservazione del lupo in Bielorussia non si può replicare per una specie africana, perché le condizioni politiche, sociali e il livello di scolarizzazione delle comunità residenti sono differenti. Uno dei fattori più importanti per il successo di un progetto ha infatti a che fare con le popolazioni locali; si potrebbe definire il “fattore coinvolgimento” nella protezione.
È anche la tesi di Caterina Carugati, zoologa ed esperta di conservazione della natura che attualmente collabora con Platypus, una società che si occupa di museografia e gestione della fauna. «Una decina d’anni di lavoro nei Paesi africani occupandomi di cooperazione allo sviluppo sostenibile mi ha convinto che, se la popolazione locale non viene motivata a gestire le risorse, gli sforzi fatti per la conservazione ambientale e faunistica non sono efficaci». Le persone che vivono nelle zone in cui è stata istituita una zona protetta, insemina, la possono accettare solo se ne hanno in cambio un beneficio, generalmente economico. Carugati porta l’esempio di Paesi apparentemente simili, quelli dell’Africa Orientale (Kenya e Tanzania in particolare) e quelli dell’Africa Meridionale (Botswana, Namibia e Sudafrica). Nei primi, gli alti livelli di corruzione e la volontà politica di non cedere potere e autonomia decisionale alle popolazioni locali rendono quasi impossibile alle comunità rurali che vivono ai margini delle zone protette gestire direttamente le cosiddette wildlife management area (tranne rari recenti casi). A questo si aggiunge l’eccessiva burocrazia. «Tutto ciò che viene definito per legge “attività di conservazione” dell’ambiente è spesso così difficile da interpretare e applicare che spesso e volentieri viene semplicemente ignorato» afferma Carugati. «Sembrerebbe addirittura che la burocrazia necessaria per avviare le aree di gestione della fauna con la partecipazione degli abitanti sia destinata a ottenere il risultato contrario, spingendo alcuni fino al bracconaggio» commenta.
Un affare. Al contrario, in Namibia e Botswana le aree protette sono affidate anche alle comunità locali, che ricavano così maggiore e diretto beneficio dal turismo e dalle attività connesse, come la caccia (controllata!) di trofei. Le comunità sono incentivate a diventare guardiane del loro ambiente e perciò considerano elefanti, leoni e antilopi come risorse da preservare e non più solo come fattori di disturbo e perdita economica per le loro attività agricole e pastorali.
In Etiopia si verificano entrambi i casi; alcuni parchi sono quasi privi di fauna, perché i pastori portano le greggi al loro interno riducendo ulteriormente il cibo per gli animali erbivori e i loro predatori. In un parco invece, il santuario di Senkelle, i branchi del rarissimo alcelafo di Swayne sono ancora relativamente in salute. Qui sono stati fatti accordi di compensazione per la popolazione, che ha ricevuto territori ad hoc per i pascoli.
Beato isolamento. In altre regioni, gli animali sono ancora più fortunati perché nella zona da proteggere non abita nessuno e le esigenze di conservazione prevalgono. Come nel parco del Serengeti, in Tanzania, dove non ci sono le greggi delle popolazioni Masai perché lì la mosca tzè tzè colpisce le mandrie.
Fuori dall’Africa le politiche di conservazione sono spesso più facili. Per le popolazioni dell’Artico canadese e della Groenlandia, per esempio, la gestione locale del territorio protetto è quasi automatica: gli abitanti sfruttano infatti da secoli le risorse naturali, ed è molto più semplice gestire con loro il numero di orsi polari, trichechi o narvali da cacciare piuttosto che imporre un divieto totale che sarebbe quasi impossibile far rispettare.
Tuttavia, conclude Valentini, «come possiamo noi insegnare alle nazioni più povere a proteggere la natura, se persino i nostri politici non hanno la minima sensibilità ambientale?».