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 2013  febbraio 22 Venerdì calendario

SOUVENIR DALLA PREISTORIA

All’inizio del 1800 si sapeva poco dei grandi rettili che popolavano i continenti e i mari del Mesozoico, tra 251 e 65,5 milioni di anni fa. Ancor meno si sapeva dei loro escrementi e di quanto questi sarebbero diventati utili per la ricerca scientifica. Il ritrovamento dei primi fossili completi dei dinosauri risale proprio all’inizio del XIX secolo. Anche una giovane illetterata di nome Mary Anning (1799-1847), che viveva nella località costiera di Lyme Regis, in Inghilterra, contribuì a svelarne i segreti dissotterrando gli scheletri quasi interi di un ittiosauro e di un plesiosauro. L’anatomia di entrambi gli “antichi mostri”, come venivano chiamati, fu presentata alla Società Geologica di Londra nel 1821 da William Conybeare e Henry Thomas De la Beche: i due scienziati dimostrarono che gli oceani del Mesozoico erano popolati di grandi rettili adattati all’ambiente marino.
William Buckiand, uno dei principali geologi britannici dell’epoca, voleva saperne di più: come vivevano? Di che cosa si nutrivano? Perché erano scomparsi?
Pietre sospette. Alcune delle risposte a queste domande giunsero in una maniera insperata. Insieme ai resti degli ittiosauri e dei plesiosauri si trovavano spesso forme pietrificate dall’aspetto striato, allungato e a volte sinuoso. Al principio questi reperti furono chiamati pietre bezoarie, per via della somiglianza con i corpi minerali che si formano nell’apparato digestivo di ungulati come le capre. Tuttavia Buckiand non impiegò molto a capire che in realtà si trattava di escrementi fossili, che battezzò coproliti. Osservò che al loro interno si trovavano delle squame e, a volte, denti e lische di pesce. Un’analisi chimica rivelò poi che erano molto ricchi di fosfato di calcio, il che suggeriva la presenza di una grande quantità di ossa nella dieta dei loro “produttori”: si trattava di animali carnivori.
Imbarazzo. Al nuovo settore di ricerca, finalizzato all’analisi degli escrementi, venne dato il nome coprologia (il prefisso “copro” deriva dal greco e significa feci). All’inizio la disciplina non riscosse grande successo: disquisire di cacche appariva indelicato agli occhi della società inglese, ossessionata dalle buone maniere e dal decoro. Tuttavia Buckiand si curava ben poco delle opinioni altrui, pertanto decise di dedicarsi appieno alla disciplina appena nata. Insieme a Mary Anning passò diverse settimane facendo ricognizioni tra le scogliere di Lyme e poi per tutta l’Inghilterra alla ricerca di escrementi pietrificati, suscitando il sarcasmo dei colleghi. Gli fu perfino dedicata una poesia, che terminava così: “La nobile scienza della geologia è saldamente basata sulla coprologia”.
La ricerca, presentata alla Società Geologica nel febbraio del 1829, attirò tuttavia l’interesse di molti. Alcune “paleocacche” contenevano le vertebre e i denti di piccoli ittiosauri, a dimostrazione del fatto che, per dirla con le parole dello stesso Buckiand, i “mostri del passato” che le avevano espulse “potevano divorare i più piccoli e deboli della propria specie”. Questi risultati rivelavano un’immagine inquietante, e forse per questo più affascinante, degli antichi oceani mesozoici, popolati da feroci rettili impegnati in una lotta perenne.
Grazie a quei primi studi oggi la coprologia è una specialità ben sviluppata. Gli esperti hanno localizzato escrementi fossili in tutti i continenti e in tutte le epoche, fin dall’apparizione dei vertebrati più avanzati nel periodo Siluriano, oltre 400 milioni di anni fa.
Morbida e rara. Non si tratta però di un campo di studi semplice. Dato che la materia fecale è per lo più morbida, la possibilità che si fossilizzi è molto remota. Sono diversi i fattori che impediscono alle feci di conservarsi: possono venire ingerite da un altro animale, decomporsi per azione dei processi microbici, dissolversi nell’acqua o, semplicemente, disgregarsi. La maggior parte dei coproliti giunti fino a noi è riconoscibile dalla caratteristica forma allungata, determinata dai movimenti di spinta. Una volta identificatone l’aspetto generale, il coprolite può presentarsi in molti modi a seconda delle condizioni di fossilizzazione, della specie che l’ha prodotto e della sua dieta.
All’analisi microscopica compaiono spesso semi, foglie, legno, conchiglie di molluschi, squame di pesce, ossa o denti. Un primo dato certo, infatti, è che la maggior parte dei coproliti rinvenuti appartiene a carnivori. Questo perché le feci dei predatori contengono sostanze che ne favoriscono la conservazione. La carne e le ossa posseggono alte concentrazioni di calcio e fosforo, che si uniscono formando il fosfato di calcio. Grazie a un processo di permineralizzazione, questo composto chimico trasforma gli escrementi morbidi in pietre.
Chi l’ha fatta? Identificare l’animale che ha deposto le feci è il compito più difficile. Karen Chin, esperta mondiale dell’Università del Colorado, afferma che è molto difficile determinare con certezza l’origine del fossile; si possono però fare ipotesi basate sul contesto, la dimensione e i componenti biologici del reperto. Partendo da questi indizi, Chin nel 1999 ha attribuito un coprolite enorme scoperto nei sedimenti fluviali della provincia del Saskatchewan, in Canada, a un Tyrannosaurus rex, giungendo tra l’altro a una nuova scoperta riguardo la sua fisiologia. Si credeva infatti che i grandi dinosauri carnivori fossero in grado di digerire gran parte delle ossa che ingerivano, come i coccodrilli di oggi. La "paleocacca" canadese lascia invece intendere che i Tyrannosaurus rex avessero processi digestivi meno intensi e che polverizzassero le ossa delle loro vittime a forza di morsi. Ma i segreti contenuti nei coproliti sono ancora molti; feci relativamente recenti, infatti, possono conservare anche del materiale genetico.
Nuove frontiere. Il primo a verificare questa possibilità, nel 2003, fu Hendrik Poinar, oggi direttore dell’Ancient Dna Centre dell’Università di Hamilton, nell’Ontario (Canada). Nel seminterrato del suo laboratorio erano custoditi diversi coproliti disseccati che provenivano dalla grotta Gypsum, situata circa 30 km a est di Las Vegas. Con ogni probabilità erano stati espulsi dai cavalli che circa 20.000 anni fa avevano abitato nei pressi della grotta. Alcuni ricercatori avevano tentato di estrarre il Dna da queste feci, ma non vi erano riusciti, sebbene sembrassero quasi fresche. Poinar ne capì il motivo: quando le feci si erano seccate nell’ambiente freddo della grotta, la grande quantità di zuccheri che proveniva dall’alimentazione vegetariana aveva reagito con gli aminoacidi circostanti. Le lunghe catene di glucosio che si erano così formate avevano imprigionato il Dna. Per riuscire a estrapolarlo, era necessario utilizzare un agente chimico che aprisse il “sandwich molecolare” che lo intrappolava. Poinar lo trovò in un farmaco per i diabetici chiamato Ptb.
Clima preistorico. Grazie a questo fu possibile, finalmente, liberare il Dna contenuto e scoprire che le feci non erano state prodotte da cavalli, bensì da esemplari di Nothrotheriops shastensis, un mammifero simile a un grosso bradipo oggi estinto. Inoltre, l’amplificazione di un gene specifico implicato nella fotosintesi delle piante servì a determinare la sua dieta, che a sua volta permise di ricostruire più in dettaglio il clima prevalente nella zona 20.000 anni fa.
Dalle prese in giro ai pionieri della coprologia a oggi, quindi, molto è cambiato. I progressi nel campo della biologia molecolare hanno dimostrato che, per quanto buffo sembri, le “paleocacche” hanno ancora parecchio da dire.