Chiara Pasetti, il Sole 24 Ore 10/3/2013, 10 marzo 2013
UNA STUPIDITÀ EDIFICANTE
«È come con certe idee con le quali abbiamo vissuto troppo a lungo; vorremmo sbarazzarcene per sempre, e tuttavia esse scorrono in noi come la vita stessa, il cuore vi respira come nella sua atmosfera naturale», scriveva Flaubert a ventun’anni nel racconto Novembre. E, decisamente, egli aveva vissuto a lungo con l’idea di occuparsi della bêtise, che è riduttivo tradurre con "stupidità" in quanto per lo scrittore era qualcosa di molto profondo e connaturato all’uomo (la sua radice etimologica è bête, bestia), tanto a lungo che essa percorre come un fil rouge amato e odiato tutte le sue opere e la sua vita.
L’ultimo romanzo incompiuto e pubblicato postumo nel 1881, Bouvard et Pécuchet, almeno a livello di inclinazione e desiderio egli lo portava con sé fin dall’infanzia. La storia è quella di due impiegati copisti che si incontrano, si affezionano l’uno all’altro al punto da diventare inseparabili, si trasferiscono in campagna grazie all’eredità inaspettata ricevuta da Bouvard, e lì iniziano una serie interminabile di studi e sperimentazioni, passando dall’agronomia al giardinaggio, dall’anatomia all’archeologia, dalla storia alla letteratura, dall’idroterapia allo spiritismo, dalla ginnastica alla pedagogia, per finire con la filosofia e la religione; ognuna di queste discipline e "saperi" (che comprendono sia le scienze vere e proprie sia le pseudo-scienze, così come dei semplici sistemi di opinioni) si rivela fallimentare, e dopo un arco temporale di circa venti o trent’anni i copisti decidono di commissionare al falegname uno scrittoio doppio, per tornare a copiare. La genesi di questo testo al contempo esilarante e tristissimo, che Flaubert definì il suo testamento e che profeticamente temeva di non riuscire a concludere prima della morte, va rintracciata molto indietro nel tempo, addirittura è necessario risalire alle origini; per una sorta di circolarità, che del resto permea tutta l’opera, si deve andare a cercare nelle più remote intenzioni dell’autore. Sorprende infatti leggere, in una letterina di un bambino di soli nove anni, che egli coltivasse già a quell’epoca il sogno di mettere sulla carta le "bêtises" che una signora raccontava al padre.
In quegli anni, inoltre, per una straordinaria facoltà di imitare gli altri e una propensione alle recite, inventa il personaggio del "Garçon", satira e al contempo incarnazione della borghesia, che aveva come tratto distintivo il riso acuto e potente; a questa creazione si affiancherà all’epoca della maturità un altro personaggio fortemente comico, lo "Sceicco", emblema dei luoghi comuni. Questi personaggi divertivano moltissimo prima di tutti lui stesso, che dai parenti e dagli amici non era considerato, come l’ha dipinto Sartre, "l’idiot de la famille" (anche se i Goncourt ricordano nel loro diario le performance in cui recitava "l’idiota dei salotti", trasformandosi nella "caricatura della bêtise"), quanto piuttosto "le gros diseur de bêtises"!
Il solo dei suoi racconti giovanili (insieme a Bibliomanie) pubblicato in vita, aveva come protagonista un "commis", nella fattispecie un impiegatuccio dedito alla copia, le cui caratteristiche sia fisiche che psicologiche ricordano molto da vicino quelle dei suoi copisti più celebri, i signori Bouvard e Pécuchet. Ed è nel 1850, prima di iniziare la composizione di Madame Bovary, che si affaccia nel l’epistolario di Flaubert il progetto di un libro sulla bêtise, di cui sono già delineati sia il titolo che il programma: si tratta del Dictionnaire des idées reçues, una raccolta, in ordine alfabetico, di «tutti gli argomenti possibili, tutto ciò che bisogna dire in società per essere un uomo rispettabile». Nella prima ideazione il Dictionnaire avrebbe dovuto essere preceduto da una prefazione, una sorta di «apologia della canaglieria umana in tutte le sue facce, ironica e urlante da un capo al l’altro, piena di citazioni, di prove (che proverebbero il contrario) e di testi spaventosi». In realtà, sia il Dictionnaire sia la raccolta di citazioni, che la critica ha posto sotto il nome di Sottisier, così come il Catalogue des idées chic, nelle intenzioni successive dell’autore confluiranno in un secondo volume, di cui la morte impedì il compimento, e rappresentano ciò che Bouvard e Pécuchet, al termine della loro odissea in tutti i campi dello scibile umano, decidono di copiare. Il romanzo così come lo conosciamo, il cui titolo iniziale era Les Deux Cloportes (ossia I Due Onischi, interessante riferimento al mondo animale, in questo caso a un minuscolo crostaceo terrestre che si appallottola su se stesso quando viene sfiorato…), si impone prepotentemente nello spirito dello scrittore nel 1872. Subito si configura come un monumento alla bêtise, e un libro di vendetta. Dal momento che non può più trattenere «il disgusto» che i suoi contemporanei gli ispirano, decide che «l’immensa bêtise moderna» va gettata sulla carta; lo scopo è quello di «esalare il mio risentimento, vomitare il mio odio, espettorare il mio fiele, eiaculare la mia collera, detergere la mia indignazione», creando «un’enciclopedia critica in farsa» che dovrebbe avere, come sottotitolo, «enciclopedia della bêtise umana».
È qui il cuore del romanzo, la sua originalità e anche la sua complessità. È vero che per scrivere Bouvard et Pécuchet Flaubert lesse per due anni interi, dal 1872 al 1874, una quantità infinita di testi, prendendo appunti e annotando tutto; il lavoro di documentazione per questa impresa enciclopedica è sterminato e le letture "spaventose", egli ci vede delle difficoltà di esecuzione che gli danno "la vertigine", e in molte lettere si lamenta con gli amici per la sua decisione di intraprendere un simile libro, "diabolico". Ogni anno il numero delle letture cresce in modo esponenziale. È vero che si dava del folle quando comunicava il programma titanico che si era imposto: «chimica, medicina, agricoltura, tutte cose che ignoro», «anatomia, fisiologia, medicina pratica, igiene e geologia», e ancora «metafisica e politica»: è famosa la lettera, scritta pochi mesi prima di morire, nella quale confida a un’amica che il numero di volumi che gli è toccato "assorbire" per i suoi due bonshommes ammonta a più di 1.500 e il suo dossier di note è arrivato a otto pollici di altezza.
Come notò Calvino in una delle sue Lezioni americane, è Flaubert che, insieme ai suoi protagonisti, si trasforma «in un’enciclopedia universale, assimilando con una passione non minore a quella dei suoi eroi tutto il sapere che essi cercano di far proprio». Ma la genialità, l’assoluta modernità e ambiguità del testo, che infatti da molti contemporanei non venne capito, sta esattamente nella volontà, espressa fin dal progetto iniziale, di farne un’opera comica, ma non di un «comico ordinario», bensì di quel «comico arrivato estremo», che non fa più ridere ma «fantasticare a lungo», e che risiede «nei bisogni più intimi» della sua natura «buffonescamente amara». I suoi protagonisti, ridicoli e idioti all’inizio, leggendo e studiando diventano alla fine due esseri intelligenti, e pertanto sofferenti. Arrivati a quel punto «qualcosa di irrevocabile era accaduto»: come si legge nel capitolo chiave del romanzo, l’ottavo, dedicato alla filosofia, hanno sviluppato «una facoltà degna di compassione, quella di riconoscere la stupidità e di non poterla più tollerare». Se all’inizio egli temeva di essere diventato come loro («la loro stupidità è la mia, e ne muoio»), alla fine sono i due bonshommes a essere diventati come Flaubert, perché hanno, loro malgrado, acquisito una capacità critica, una "nettezza metafisica", la stessa che secondo l’autore gli era necessaria per raccontarne la storia, che li porta a vedere il grottesco insito in ogni azione e in ogni situazione umana; hanno compreso che anche l’ultima delle tentazioni, quella del sapere assoluto, che vorrebbe dare risposta al mistero del mondo, contiene in sé il suo germe di distruzione e di scacco. Per questo, sono diventati sublimi. È in fondo il libro più autobiografico e intimo di Flaubert, poiché svela la parentela segreta e atroce fra tragico e comico, sublime e grottesco.
Gli stupidi, diventati intelligenti e pertanto "grottescamente tristi", illuminano l’altro lato della derisione, che non è più il riso ma la malinconia. Qui più che in tutte le altre opere di Flaubert gli estremi si toccano, e l’ironia, che a lui sembra «dominare la vita», mutandosi in tragica fa sì che la malinconia assuma il riso, e il grottesco la tristezza. Verso la fine della sua vita l’autore era «sempre meno gaio», e tuttavia, e proprio per questo, si sentiva sempre più incline al «sentimento del comico»: se è vero che è lì «l’ultima delle tristezze», è pur vero, come scrive, che è «un buon sostegno nei fanghi della vita», e che se non l’avesse posseduto sarebbe morto «furioso, pieno di rabbia». Invece è morto mentre stava terminando l’ultimo capitolo, il decimo, di Bouvard et Pécuchet.
Nel piano conclusivo dell’opera, rimasto allo stato di bozza, fa dire ai due amici: «copiamo! Bisogna che la pagina si riempia, che il "monumento" si compia». Il monumento alla bêtise, «eterna quanto l’umanità stessa», che non ha potuto concludere come avrebbe voluto e che, forse, conclusione non ha, data la sua estensione e «l’impossibilità di distruggerla». Anche in questo senso Bouvard et Pécuchet è il testamento di Flaubert, perché sempre sostenne che la (vera) bêtise «consiste nel voler concludere». Questo testamento resta e vive nel Regno dell’Idea, la sola patria a cui fu sempre devoto.
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metamorfosi di un’idea imbecille
Nel percorso per immagini si mostra un significativo esempio del metodo di lavoro di Flaubert, ricostruito a partire dal sito dei manoscritti di Bouvard et Pécuchet appena inaugurato. Dalla lettura alla nota, dalla nota all’idea, dall’idea alla bozza, dalla bozza alla versione definitiva. Per la redazione del II capitolo (Agriculture) di Bouvard et Pécuchet Flaubert lesse il Cours d’agriculture di Gasparin, e annotò la pagina 379 del secondo volume (immagine 1), dove si parla di un "barometro animale" ottenuto con l’impiego di una sanguisuga in un boccale, che a seconda delle condizioni atmosferiche avrebbe dovuto mettersi sul fondo, in superficie, o agitarsi. Nella nota di lettura (immagine 2 e relativa trascrizione, immagine 3) egli riportò praticamente lo stesso passo del libro, sottolineando il punto in cui un certo Bosc, il quale mise quattro sanguisughe nello stesso boccale, constatò che «ciascuna di loro presentava un’indicazione diversa». Idea: prestare l’esperimento ai poveri Bouvard e Pécuchet! Una pagina delle bozze del romanzo (immagine 4 e relativa trascrizione, immagine 5) rivela l’episodio delle sanguisughe e come Flaubert l’abbia rielaborato a partire dalla fonte. I due ne mettono una in un boccale, si accorgono che contraddice il metodo "scientifico" che volevano mettere in pratica, decidono di metterne altre tre... e come il Bosc di Gasparin, scoprono con delusione che «tutte e quattro si comportarono in maniera diversa». La versione definitiva (immagine 6), in questo caso, differisce di poco dalla bozza. L’ironia e il genio di Flaubert hanno trasformato una curiosa invenzione dei tempi di Luigi XV in un grottesco esperimento compiuto dai suoi due protagonisti e, ça va sans dire... fallito!