Marco Onado, il Sole 24 Ore 10/3/2013, 10 marzo 2013
UN OCEANO SEPARA BANCHE AMERICANE E BANCHE DELL’UE
L’oceano che separa le banche americane da quelle europee si allarga. Le prime, nonostante siano la causa iniziale della crisi e abbiano dovuto assorbirne immediatamente l’impatto, sembrano tornate a una condizione tranquilla. Lo stress test condotto dalla Fed ha dato risultati lusinghieri per tutti. La pecora nera (Ally) è ciò che rimane della disastrosa esperienza di GM nel campo della finanza e non fa testo: è ancora posseduta per tre quarti dal Tesoro. È comunque significativo che i risultati migliori siano stati conseguiti non da grandi banche di investimento, ma da quelle regionali, più vicine all’economia produttiva, che sta tornando ai livelli pre-crisi come dimostrano i dati sui redditi delle famiglia e sull’occupazione.
Per il sistema bancario europeo non si può dire altrettanto. La situazione oggi è più tranquilla, ma solo grazie all’eccezionale intervento della Bce, che ha calmato i mercati e risolto i problemi più urgenti, a cominciare da quello della liquidità. Ma molte questioni rimangono irrisolte, come dimostra il fatto che le valutazioni di mercato sono ancora più basse dei valori di libro. Nella media, il rapporto fra prezzi di Borsa e valori contabili è salito, con la recente ripresa dei corsi, da 0,5 a 0,73. I casi di valori superiori all’unità si contano sulle dita di una mano (mutilata) e nella fascia più bassa della classifica troviamo le banche italiane. E’ il segno più evidente che il morso della crisi non ha abbandonato le banche europee. C’è un motivo quantitativo. Al momento in cui la crisi è scoppiata, l’Europa si è trovata con un sistema bancario ipertrofico (a livello dell’Unione, le attività delle banche erano il 350 per cento del pil, contro il 78 degli Usa) e quindi con un problema cinque volte più grosso. Per di più, le banche erano più fragili patrimonialmente perché avevano meno capitale sia secondo i criteri di Basilea sia come rapporto fra capitale capace di assorbire le perdite e totale delle passività.
Ma le banche europee scontano le conseguenze di un quadro macroeconomico negativo, che si traduce in risultati di produzione, reddito e occupazione sempre peggiori rispetto alle previsioni, costringendo a spostare sempre più in là l’orizzonte della ripresa. In queste condizioni, le banche italiane, che all’inizio della crisi stavano meglio, cominciano a incontrare problemi seri perché il deteriorarsi del quadro macroeconomico porta con sé aspettative di perdite su crediti e compromette la redditività. In prospettiva ciò riduce la disponibilità a concedere nuovi prestiti.
Non a caso, i dati diffusi ieri indicano che a gennaio i prestiti delle banche italiane si sono ulteriormente contratti dell’1,6 per cento su base annua, dopo la diminuzione netta di 38 miliardi nel 2012. Una riduzione così forte e prolungata del valore nominale dei prestiti all’economia non si era mai registrata e non dipende solo da fattori di domanda. Ma non si può imputare alle banche, che devono seguire logiche di impresa e rispondere agli azionisti, se aumenta la prudenza quando il rischio del credito continua a peggiorare. Nel sondaggio sul credito alle imprese condotto trimestralmente dalla Bce, le banche italiane hanno individuato il rischio prospettico del credito come un fattore che ha sempre agito negativamente sull’offerta dal momento in cui la crisi è scoppiata, mentre gli altri fattori, come la liquidità e i vincoli di capitale, hanno avuto andamento altalenante e oggi non sono visti come critici. Non è solo un problema di casa nostra. L’operazione della Bank of England che avrebbe dovuto legare la liquidità fornita alle banche a una maggiore offerta di credito ha prodotto meno di un quarto degli 80 miliardi di sterline previsti. Il problema è che, soprattutto in Eurolandia, solo la terapia d’urgenza della Bce è stata impiegata e certo in dosi massicce e coraggiose, che hanno evitato guai peggiori. Ma gli interventi sulle cause di fondo, dall’unione bancaria alle misure di rilancio capaci di compensare gli effetti depressivi del rigore, sono in fase di realizzazione (la prima) o ancora in discussione (le seconde) e dunque incapaci di spezzare la spirale negativa che pesa come piombo sui sistemi produttivi europei e soprattutto su quelli più fragili come il nostro.
E così il sistema bancario negli Stati Uniti è tornato a essere una parte della soluzione del problema, mentre nel Vecchio continente è ancora uno dei punti cruciali del problema. Nulla di definitivo, perché le incognite che gravano sul bilancio federale americano e che possono portare a una restrizione fiscale capace di gelare la ripresa in corso, unite al possibile utilizzo dei risultati degli stress test per una generosa distribuzione di dividendi anche straordinari, possono compromettere la posizione di vantaggio che le banche americane hanno raggiunto. Ma, come insegnano le elezioni italiane, i sorpassi in discesa non sono mai da festeggiare.