Guido Gentili, il Sole 24 Ore 10/3/2013, 10 marzo 2013
CONTRO LO STALLO
2009. Nel pieno della prima ondata della restrizione del credito, il Fondo Monetario Internazionale notava che, in genere, le recessioni che si accompagnano ad una crisi finanziaria si approfondiscono e diventano più longeve. È quello che sta accadendo all’economia italiana all’inizio del 2013: abbiamo chiuso il 2012 con un Pil a -2,4% e i previsti spiragli di effettiva ripresa per quest’anno si stanno di nuovo chiudendo (l’agenzia Fitch, che ha appena declassato l’Italia, ipotizza per fine 2013 un -1,8% di Pil, e circolano anche report più pessimistici). Di ripresa degna di questo nome si riparlerà forse nel 2014, se non nel 2015. E tutto questo al netto delle incertezze politiche che permangono fortissime anche dopo il voto e che profilano addirittura la possibilità di un ritorno alle urne in tempi brevi. La prospettiva di una perdurante recessione associata ad una persistente crisi finanziaria e a nuove turbolenze politiche non necessita di analisi sofisticate. L’Italia, che è già in ginocchio, finirebbe a terra. Se non prende di petto (anche in sede europea) il problema della crescita, questo Paese va dunque incontro a un destino segnato. Sì, è fondamentale che abbia ritrovato il controllo dei suoi conti pubblici e che l’Europa e i mercati glielo riconoscano. Ma uno stallo, ancorché "virtuoso", sempre uno stallo resta, e non c’è (necessario) rispetto degli impegni presi a Bruxelles che possa da solo tirarci fuori dai guai. I numeri su occupazione, reddito, investimenti, consumi, credito, fisco, spesa e debito pubblico traducono in cifre una sfiducia sociale diffusa, che anche con il voto politico ha bocciato l’idea di una strategia attendista. Nelle urne, famiglie e imprese – che in tantissimi casi coincidono, date le caratteristiche del modello italiano di sviluppo – hanno chiesto una svolta, non una pausa di riflessione o tatticismi pasticciati. La politica per prima dovrebbe far tesoro di ciò che le suggerisce l’economia reale, sapendo che se questa non si rialza presto ogni altro discorso galleggerà nel vuoto. Per iniziare a far ripartire un sistema che resta la seconda potenza manifatturiera d’Europa e che ha retto fin qui grazie alle eccezionali performance delle sue imprese esportatrici, occorre che anche i soldi ricomincino a girare. La crescita non si fa a debito e "per decreto", ma bisogna pur prendere atto che questa è la recessione peggiore della nostra storia e che il suo avvitarsi nel contesto di un sistema cosiddetto "bancocentrico" sta congelando insieme domanda e offerta di credito. Le difficoltà delle imprese e delle famiglie si ripercuotono sulle banche e viceversa, in un paralizzante gioco ad incastri tra debitori e creditori sotto il cielo del debito "sovrano" nazionale e degli spread che si scaricano sull’intero sistema dei tassi d’interesse. Non vince nessuno, alla fine: con questa recessione perdono tutti, anche se ciascuno (banche e imprese) per la parte che gli compete dovrebbe impegnarsi a fondo per cambiare marcia, e modelli di business, in un rapporto fondamentale che va ricostruito e modernizzato. Ma intanto è emergenza-credito. La proposta che i professori Luigi Guiso e Guido Tabellini hanno avanzato sul Sole 24 Ore (liquidazione accelerata dei crediti commerciali vantati dalle imprese nei confronti della PA, contabilizzandoli come debito pubblico e liquidandoli in contante grazie ad emissione di debito ad hoc) sta riscuotendo molti consensi. Potrebbe infatti scongelare subito circa 50 miliardi dando una mano alle imprese e reinserendo nel circuito desertificato dell’economia una liquidità significativa. Certo, il debito pubblico in rapporto al Pil crescerebbe del 3,6%. Possiamo permettercelo, in Europa e sui mercati? Se è la miccia con cui riaccendere la ripresa la risposta e sì, perché i mercati (e le agenzie di rating) stanno guardando con sempre maggiore attenzione al problema della mancata crescita come variabile decisiva nelle loro valutazioni. Quanto all’Europa e ai profili contabili dell’operazione, non pare impossibile spiegare che un Paese che in vent’anni ha totalizzato un avanzo statale primario (al netto degli interessi) doppio rispetto alla Germania, e che oggi è secondo solo dopo la Norvegia, ha tutto il diritto di vedersi riconosciuta una credibilità conquistata sul campo. A maggior ragione se si tratta di una terapia shock pro-crescita per un’Italia che è la terza economia del Continente: un "contagio" salutare. Naturalmente, occorre un governo autorevole che decida a Roma e tratti a Bruxelles con fermezza, e questo vale per tutte le risposte di politica economica. Non è banale insistere perché i tempi della formazione del nuovo esecutivo siano i più rapidi possibili e la soluzione politica la più adeguata ad affrontare la recessione peggiore che l’Italia abbia conosciuto.