Giampiero Martinotti, la Repubblica, Affari & Finanza 11/3/2013, 11 marzo 2013
E’ LA FRANCIA IN AFFANNO IL NUOVO GRANDE MALATO NELLA CRISI DI EUROLANDIA
Parigi Lo spread, questo sconosciuto: chiedere cosa significhi questo termine a un francese è come domandare a un bambino di risolvere un’equazione a quattro incognite. Cosa sia lo spread non lo sa nessuno, tranne gli addetti ai lavori e qualche attento lettore della stampa economica. Nonostante la Francia venga indicata da tempo come il possibile, nuovo grande malato d’Europa, lo spread con i tassi tedeschi a dieci anni si aggira sui 73 punti base, una cifra che fa sognare i Piigs.
La fiducia dei mercati nella seconda economia dell’eurozona sembra a prova di bomba: la Germania non lascerà mai cadere il principale alleato, pensano gli operatori, e la solidità politica delle istituzioni garantisce il rimborso degli interessi, nonostante il debito pubblico abbia ormai raggiunto la soglia del 90 per cento. Il paese, insomma, sembra al riparo dalle tempeste che negli ultimi tre anni hanno scosso l’eurozona e il mercato dei debiti sovrani. Ma la calma non deve ingannare: la Francia è profondamente malata, i guai strutturali sono molti e le riforme, a patto che vengano fatte, daranno i loro risultati solo fra parecchi anni. “Wie Gott in Frankreich leben”, dicono i tedeschi adattando un vecchio proverbio yiddish, indicando così nella Francia il vero paese della dolce vita. Immagine lusinghiera, ma falsa: la Francia è un paese con tre milioni di disoccupati, scarsamente competitivo, afflitto da una desindustrializzazione senza precedenti e con un commercio estero in rosso da più di dieci anni. Certo, un welfare esteso come pochi altri consente di attutire i contraccolpi della crisi, ma il prezzo da pagare è una spesa pubblica al 56,3% del Pil, un livello superato solo dalla Danimarca. Lo spread basso e la fiducia dei mercati nascondono quindi una situazione ben più complessa. Due cifre danno un’idea della situazione disastrosa dell’industria transalpina: nel 2012, il deficit commerciale è stato di 67,2 miliardi, mentre la Germania ha registrato un’eccedenza di 188,1 miliardi. L’aeronautica, l’agro-alimentare e il lusso sono i tre settori che ancora tirano, gli altri faticano a cominciare dall’automobile. E il problema non è certo l’euro forte, come ogni tanto tentano di dire François Hollande e i suoi: 42 miliardi di deficit provengono dall’interscambio all’interno dell’eurozona, segno della perdita di competitività nei confronti della Germania, certo, ma anche rispetto a Italia e Spado gna. Hélène Baudchon, economista di Bnp-Paribas, ha riassunto con chiarezza i termini della questione: «Il problema è che le attività industriali sono quelle che esercitano il più forte effetto di leva sull’occupazione (tre o quattro posti di lavoro indotti nei servizi per ogni posto di lavoro creato nell’industria). Fra il 2000 e il 2012 l’industria ha distrutto un milione di impieghi, la sua quota nel valore aggiunto è crollata dal 18 al 12,5 per cento. Oggi è uno dei tassi più bassi d’Europa». Qui siamo al cuore dei guai francesi. C’è un problema di costo del lavoro, indubbiamente, poiché il finanziamento del Welfare riposa quasi esclusivamente sul lavoro: fra il 1997 e il 2010, ricorda ancora la Baudchon, il costo orario del lavoro nell’industria è aumentato in Francia del 50 per cento contro il 30 per cento registrato in Germania. Ma c’è altro: la produzione francese di beni non è in sintonia con le richieste dei mercati mondiali ed è forte soprattutto nei prodotti di gamma media, cioè proprio dove la differenza può essere fatta solo con i prezzi. E poiché gli oneri sociali a carico delle aziende restano fra i più alti d’Europa, la Francia perde terreno nel commercio internazionale: in tredici anni la sua quota di mercato è passata dal 6,5 al 3,2 per cento. E la pressione al ribasso sui prezzi riduce i margini delle imprese, quindi la loro capacità di investire e di modernizzarsi. Un circolo vizioso che molti economisti indicano come uno dei punti centrali della crisi strutturale dell’industria francese. A ciò si aggiunge il peso dello Stato e del prelievo fiscale. Anche molti degli economisti liberali francesi lodano il ruolo dei poteri pubblici, soprattutto tenendo conto della storia economica nazionale. Ma l’apparato pubblico è fonte di sprechi e inefficienze, nonostante a noi italiani sembri il prototipo di un buon servizio. Secondo Patrick Artus, responsabile degli studi economici alla banca d’investimento Natixis, il paese paga la mancata riforma dello Stato negli anni Novanta: secondo la sua analisi, la Francia potrebbe avere la stessa qualità di servizi pubblici con un costo inferiore di ben otto punti del Pil, il che consentirebbe di abbassare la pressione fiscale e in particolare gli oneri sociali. Ma con un debito pubblico al 90%, una soglia considerata come un punto di non ritorno, ridurre la pressione fiscale è quasi impossibile. Ciò nonostante, seguendo i consigli di alcuni industriali vicini alla sinistra, il governo Ayrault ha varato misure concrete per aiutare le aziende a recuperare la competitività attraverso un credito d’imposta di 20 miliardi, finanziato, tra l’altro, con un aumento moderato dell’Iva. Un passo nella buona direzione, ma che avrà effetto solo con il tempo. Logico che in questo contesto la disoccupazione continui a salire. Hollande ha promesso un’inversione di tendenza entro fine anno, ma con una crescita inesistente (+0,1% secondo la Commissione nel 2013, un po’ meglio la previsione dell’Ocse) l’obiettivo non potrà essere raggiunto. Del resto, il termometro rappresentanto dall’erogazione del credito mostra un paese fermo, sia sul fronte della domanda sia su quello dell’offerta: nel dicembre scorso, i crediti alle famiglie registravano un crollo del 23,1 per cento in dodici mesi, quelli alle imprese un calo del 3,7 per cento. Se si tiene conto che la domanda interna è generalmente il motore della crescita francese, c’è da stare poco allegri. Al tempo stesso, una spinta alla ripresa non verrà dalla spesa publica. La Finanziaria 2013 prevedeva un ritorno del deficit al 3 per cento, ma era basata su stime troppo ottimistiche di crescita (+0,8%). Bruxelles chiuderà un occhio per quest’anno, ma passare da un deficit del 3,7% al 3% l’anno prossimo significherà nuovi tagli e/o nuove imposte. In questo campo, la Francia paga lustri di lassismo: se negli anni Ottanta la politica mitterrandiana era stata dispendiosa, aveva tuttavia permesso una modernizzazione del paese. Negli ultimi vent’anni, invece, la Francia è rimasta ingessata: la spesa pubblica rappresenta il 56,3 per cento del prodotto interno lordo, ma è soprattutto la sua evoluzione a preoccupare: in vent’anni è salita dell’1,2 per cento, mentre negli altri paesi europei è scesa del 3 per cento. Poca crescita, deficit alto, debito pubblico al limite del livello di guardia, perdita di competitività e disoccupazione alle stelle: i mali della Francia sono sotto gli occhi di tutti. Mancano invece i rimedi: le cure da cavallo proposte dai liberali sono utopiche, quelle omeopatiche adottate da Hollande rischiano di non essere all’altezza della situazione.