Paolo Griseri, la Repubblica, Affari & Finanza 11/3/2013, 11 marzo 2013
MR BRIDGESTONE E L’INSOSTENIBILE PESANTEZZA DEL SISTEMA ITALIA
Un attacco a freddo, improvviso: per i 950 dipendenti dello stabilimento Bridgestone in provincia di Bari una vera e propria Pearl Harbur cui seguiranno inevitabilmente incontri, riunioni, trattative e tentativi, probabilmente vani, di convincere l’azienda nipponica a tornare sui suoi passi. La fabbrica di Modugno, vicino a Bari, se ne volerà via «non più tardi della prima metà del 2014». C’è un anno di tempo per trovare un’alternativa. Mister Masaaki Tsuya, uno di quei manager nipponici che hanno percorso tutti i gradini della carriera aziendale fino a raggiungere la cima del podio, aveva dato mandato nei mesi scorsi a tutte le unità operative del gruppo di riposizionarsi in modo da aumentare la redditività e far fronte in questo modo all’aria di crisi che, partita dall’America, è oggi in Europa e non ha risparmiato il Giappone post terremoto. L’ordine di Tsuya, partito dal quartier generale di Tokyo, è stato diligentemente eseguito da tutte le unità geografiche. Bridgestone Europa non ha fatto eccezione. E ha seguito la logica difensiva che molti costruttori, anche di automobili, stanno applicando in questi mesi: «Spostare la produzione verso l’alta gamma». Questo e non certo il risultato elettorale, dicono in Bridgestone, ha portato alla scelta di chiudere Bari, decisione presa prima dell’esito delle urne. Può darsi che sia così o può darsi invece che una prospettiva di instabilità politica
possa aver fatto traboccare il vaso inducendo, il 4 marzo scorso, l’azienda ad annunciare la chiusura. Ma la storia della Bridgestone di Modugno e della decisione presa da Masaaki Tsuya è un caso di scuola che potrebbe servire da esempio negativo per altre aziende. E’ la dimostrazione che le scelte aziendali sono frutto di un equilibrio sempre precario e che dunque, in assenza di vincoli imposti dalla politica, vanno dove le porta il business o dove incontrano meno resistenze. C’è infatti da chiedersi se mister Tsuya, supermanager con Mba a Chicago, avrebbe potuto pensare di chiudere uno stabilimento da mille posti di lavoro nel Sud della Francia o addirittura nel suo Giappone. Le ragioni della chiusura sono sempre presentate in modo oggettivo. E in parte certamente lo sono. E’ un fatto che nella fabbrica di Modugno si fa un prodotto povero. «Pneumatici di uso generico», sintetizza l’azienda nei comunicati ufficiali. In sostanza pneumatici destinati alle utilitarie, a un pubblico che ha poco denaro da spendere e che, di conseguenza, non guarda tanto per il sottile; per la piccola vettura delle famiglie colpite dalla crisi non è necessario avere il pneumatico doc. Vanno benissimo le centinaia di surrogati che le aziende cinesi sfornano quotidianamente a prezzi sensibilmente inferiori. Anche il ragionamento dei clienti in tema di sicurezza cambia. Non è politicamente corretta ma è abbastanza diffusa l’idea che l’affidabilità di un pneumatico debba aumentare con l’aumentare della velocità. Non solo per ragioni di portafoglio dunque, è più probabile che acquisti una Bridgestone il possessore di una Maserati mentre chi guida una Punto tende ad accontentarsi delle sottomarche. Questa tendenza si è accentuata con la crisi dell’eurozona. Nel 2012 il mercato mondiale degli pneumatici è calato del 13 per cento: da 300 milioni venduti nel 2011 a 261dell’anno appena concluso. A queste ragioni oggettive si aggiungono le scelte che le aziende compiono in ragione della maggiore o minore probabilità di incontrare opposizione da parte delle istituzioni politiche. Una di queste è la decisione di sistemare in Spagna, Belgio e Repubblica Ceka i centri logistici europei della Bridgestone. E’ evidente che rispetto a quelle sedi lo stabilimento pugliese è assolutamente decentrato. Ma questo non è un difetto del sistema Italia (che pure ne ha molti) ma del sistema Bridgestone che ha costruito una presenza geograficamente sbilanciata nel Vecchio Continente. Così si spiega la lamentela dell’azienda sul fatto che la fabbrica di Modugno sarebbe «penalizzata sotto il profilo logistico ». La struttura logistica pugliese, più efficiente di quelle di tante altre aree d’Europa, non è peggiorata da quando, nel 1962, la società nipponica scelse di insediarsi alla periferia di Bari. Anzi, è sensibilmente migliorata. Le gomme si trasportano sui camion o nei container via mare e la Puglia ha una rete autostradale e un sistema di porti in grado di rispondere a queste necessità. Se l’azienda avesse saputo che aveva dei vincoli con il territorio dove andava a insediarsi, probabilmente non avrebbe lasciato in un angolo lo stabilimento pugliese, pronto ad essere sganciato dal sistema quando se ne presentasse la necessità. Questo anche se non fossero fondate le denuncie sindacali che in questi giorni parlano di trasferimenti della produzione in Polonia, dove si guadagnano magri stipendi, improponibili in Europa Occidentale (e anche in Giappone). Infine il terzo elemento del caso di scuola Bridgestone è il problema dell’energia. Sono sempre di meno le aziende straniere disposte a pagare gli extra costi della bolletta italiana che arrivano a superare anche del trenta per cento la media europea. Un problema che nasce da una rete e da un sistema di tariffe che andrebbero radicalmente ristrutturati. La questione si era già posta in Sardegna per l’Alcoa: quando sono cessate le sovvenzioni regionali che compensavano lo svantaggio dei prezzi, la multinazionale statunitense ha deciso di chiudere. Non c’è dunque da stupirsi se Bridgestone inserisce la bolletta dell’elettricità tra i motivi della sua fuga da Bari. Ma la lezione che con la sua decisione Masaaki Tsuya ha dato all’Italia è quella che altri imprenditori più vicini, come Sergio Marchionne, provano a ripetere da tempo. Se la Penisola vuole mantenere un livello di vita elevato come l’attuale, non può sperare di vedersi pagato molto un prodotto di scarsa qualità. Quel prodotto va bene in Paesi dove la grande distribuzione alimentare è principalmente affidata ai discount e i prezzi sono mediamente più bassi. Estremizzando, se si vuole avere l’aceto balsamico in tavola non si possono produrre pneumatici di bassa qualità. Perché quel prodotto non giustifica salari tali da mantenere il nostro attuale livello di vita. E’ questa la ragione per cui, di fronte alla crisi, un’azienda finora basata sulla produzione di utilitarie, come la Fiat, ha invece scelto di puntare sui marchi di prestigio e sulle vetture di gamma medio alta. Quelle che, appunto, montano i pneumatici premium. Ed è questo l’ultimo paradosso della scelta compiuta dal signor Masaaki Tsuya. A poche decine di chilometri dalla periferia industriale di Bari, nella piana di San Nicola di Melfi, c’era, fino a pochi mesi fa, una fabbrica di automobili che montava sulle vetture nuove appena uscite dalle linee pneumatici generici di basso costo. Alla fine di dicembre, con una cerimonia che ha suscitato anche qualche polemica a cavallo tra la politica e l’economia, l’ad di quella fabbrica ha annunciato che nei prossimi anni la produzione sarà riconvertita e verranno realizzati minisuv di qualità. E’ altamente probabile che i nuovi prodotti di Melfi, con il marchio Jeep e Fiat, monteranno quegli pneumatici di qualità che nel frattempo la Bridgestone sarà andata a produrre a migliaia di chilometri di distanza, in qualche stabilimento polacco più vicino ai suoi centri logistici dislocati nell’Europa centro-occidentale. Un evidente paradosso che avrà, tra le vittime, i 950 dipendenti della fabbrica barese, le loro famiglie e un pezzo del sistema produttivo del Sud italiano.