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 2013  marzo 11 Lunedì calendario

COUNTDOWN COREA

SEUL – Sessant’anni dopo la sospensione della guerra tra la Corea del Nord e quella del Sud, il 38° parallelo non divide più solo il passato dell’ultima dinastia comunista della storia dal presente del resto del mondo. Da una parte del confine un popolo, in parte rinchiuso nei campi di prigionia e in parte alla fame, è costretto a sopravvivere in un costante e anacronistico stato di guerra, come se ogni istante potesse essere quello dell’attacco finale. Dall’altra parte lo stesso popolo, proiettato ai primi posti delle potenze economiche e all’avanguardia della tecnologia, vive nel consumismo più convinto, come se i soldi e lo shopping fossero la sorgente inesauribile di una pace senza fine. Queste ore di ansiosa attesa, lungo la frontiera estrema
che separa il pianeta dominato dalle armi da quello dominato dagli smart-phone, sono il simbolo di due galassie ben più lontane dei loro sistemi politici.
A Seul la vigilia della scadenza dell’ennesimo ultimatum del Nord, scorre nella sospensione tranquilla di una domenica apparentemente qualsiasi. Centri commerciali presi d’assalto, Imax 3D pieni, centro paralizzato dal traffico e folla impegnata a smaltire il brunch facendo jogging lungo le rive del fiume Han. L’icona del benessere che Occidente e Giappone sentono scappare tra le mani. Qualche decina di chilometri più a Nord, oltre le colline che dominano la “capitale libera”, si entra in una dimensione in cui il grottesco non riesce a nascondere la sua intima tragicità. Oltre il villaggio di Panmunjeom si ammassano truppe scelte di prima linea, unità anti- aeree e pezzi di artiglieria capaci di lanciare missili dotati di testate atomiche.
Se a Seul la vita esibisce l’ostinazione della ricchezza, a Pyongyang manifesta la prontezza del suo sacrificio. L’ultimatum di Kim Jong-un scade oggi e il dramma del “giovane leader” è che lui è anche l’unico che sembra prenderlo sul serio. La sua immagine in una trincea sull’isola di Ma, con il cappotto verde da generale, il binocolo attaccato agli occhi e un attendente-bambino alle spalle, ha fatto il giro del mondo. Pare impossibile che questa misteriosa caricatura di tondetto dittatore, con le tempie rasate e una cresta a metà tra Balotelli e Psy, sia sul punto di scatenare il primo conflitto nucleare globale.
Eppure la propaganda del Nord, che sabato aveva dato l’impressione di tentare di riaprire il dialogo, nelle ultime ore ha riadottato la retorica più minacciosa. «I preparativi dell’attacco definitivo contro i regimifantoccio di Stati Uniti e Corea del Sud — ha ammonito il quotidiano dei lavoratori
Rodong Sinmun—
sono nello stadio finale e in attesa dell’ordine supremo. La guerra a tutto campo, in un batter d’occhio, trasformerà i nemici in un mare di fuoco». Sono decenni che il regime di Pyongyang si mantiene in vita con la minaccia di un’apocalisse atomica, rinviata in cambio di aiuti umanitari e sostegno economico, ma questa volta la tensione diplomatica e militare ha
ragioni più ampie. Kim Jong-un ha fatto diffondere ieri poesie di propaganda, appelli all’«unità e alla coesione patriottica», inviti ai militari a «non arretrare di fronte alle prove generali di un’invasione in piena regola». I telegiornali del Sud avvertono
che «il rischio di incidenti è altissimo », che «la capitale può essere bersagliata da missili a corto raggio», ma che «Seul risponderà con una potenza dieci volte superiore». Le nuove sanzioni Onu contro Pyongyang, approvate giovedì con il via libera anche
di Pechino, rischiano dunque di far esplodere davvero il fragile equilibrio nella penisola e di precipitare il Pacifico in un conflitto assai più allargato. Il Nord, in risposta alle misure delle Nazioni Unite contro il terzo test atomico effettuato a metà
febbraio, ha rotto il trattato di non aggressione del 1991, tagliato la «linea rossa» dei contatti con Seul e sospeso l’armistizio del 1953. Ritorsioni più volte applicate dalle tre generazioni della dinastia Kim, ma in questo caso si aggiunge l’avvertimento della guerra imminente.
Usa e Corea del Sud, che ai primi di marzo hanno iniziato le annuali esercitazioni marittime congiunte, dovrebbero far entrare oggi le manovre nella fase “
Key-Resolve”,
simulazione al computer su scenari bellici, di difesa e di attacco, che imitano un’azione delle forze armate nordcoreane. Se questo accadrà, secondo la propaganda di Pyongyang, sarà il primo atto di «una guerra totale in stile coreano». Di qui l’alta tensione scattata in tutta l’Asia, negli Usa e in Europa, con le cancellerie mondiali che ammoniscono il Nord di «rinunciare ad ulteriori provocazioni e di pensare invece al benessere del suo popolo». Rispetto al passato c’è però qualcosa di più del semplice timore di una scintilla bellica tra le due Coree ed è la paura che una serie di fragilità e di coincidenze possa far esplodere un conflitto difficile poi da fermare. La prima è che in Asia tutte le potenze in campo hanno leadership agli esordi. A Pyongyang, Kim Jong-un è succeduto al padre da poco più di un anno e resta nelle mani dei vecchi generali. A Seul si è appena insediata la prima donna presidente, la conservatrice Park Geun-hye, figlia dell’ex dittatore Park Chung-hee, assassinato nel 1979 per ordine del Nord. A Pechino domenica prossima sarà nominato presidente Xi Jinping e la Cina completerà la designazione
della classe dirigente dei prossimi dieci anni. Anche a Tokyo è appena salito al potere il nuovo premier Shinzo Abe, mentre Mosca e Washington hanno da poco confermato le leadership di Putin e Barack Obama. Un’epoca muove dunque i primi passi, la crisi economica fa risorgere nazionalismi antichi e la dimenticata «questione coreana» si ritrova al centro di tensioni che la dottrina della crescita sembrava destinata a spegnare per sempre.
Per la Corea del Nord, dopo sessant’anni, si ripropone poi il “problema Onu”. Furono le truppe della Nazioni Unite, manovrate dagli Usa, a riconquistare Seul nel 1950. Fino ad oggi è stato sempre il Palazzo di Vetro a frenare la sua corsa atomica e in queste ore tocca proprio ad un segretario generale del Sud, Ban Ki-moon, additare il Nord quale «Stato canaglia». Ai “nuovi potenti” e alla “questione Onu” si sommano infine il “problema Asia” e il duello Cina-Usa per il dominio del secolo. Pechino ha superato Tokyo come potenza economica e la corsa per il controllo delle materie prime, celata dietro la cosiddetta contesa per l’arcipelago Diaoyu-Senkaku, sta infiammando il Pacifico. Gli Stati Uniti hanno riorientato basi militari e pressioni diplomatiche verso l’Oriente e cresce in Asia una pattuglia di Paesi emergenti decisi a sfuggire al controllo cinese. Pechino e Mosca, dopo lo shock del 1989, tornano nel frattempo alle vecchie alleanze, comprese quelle energetiche, ed ecco che Pyongyang si risveglia all’improvviso nell’epicentro delle nuove frizioni che riportano il
pianeta indietro di mezzo secolo: Cina e Russia contro Giappone e Usa, impegnati in una pericolosa riedizione della Guerra Fredda lungo la “zona demilitarizzata” del 38° parallelo che l’oblìo aveva intanto trasformato in un paradiso della natura. È
chiaro a tutti che se oggi la Corea del Nord attaccasse quella del Sud, attraverso il lancio di un missile, con un quarto test atomico, o con blitz come quello del 2010, vorrebbe dire che Cina e Stati Uniti si preparano a misurare le forze per stabilire il destino
globale della contemporaneità. Ed è proprio la prospettiva che infine qualcuno decida di cominciare a «vedere la carte altrui per sviare l’attenzione dalle proprie», come scrivono i quotidiani di Seul, a suscitare un timore nuovo nella comunità
internazionale.
I giornali Usa, nei giorni scorsi, sono arrivati ad augurarsi che «Pechino molli Pyongyang», puntando su una riunificazione coreana capace di generare un «potenziato alleato della Cina», e di «togliere alibi all’avanzata
Usa nel Pacifico». La risposta di Seul è stata semplice. «Sarebbe come se l’Unione Sovietica — ha osservato la nuova presidentessa — avesse scommesso sul crollo della Ddr per attirare la Germania Ovest nella propria orbita ed espellere Washington dall’Europa ». Ingenuità da propaganda. I nuovi leader cinesi, assecondati da Mosca, sanno bene quanto un «controllato cuneo coreano» li rafforzi in tutti i dossier internazionali e giustifichi al contrario la loro corsa al riarmo, non solo in chiave antigiapponese. Escalation verbali, minacce di guerra, sanzioni e ultimatum di queste ore sono generate da questo preoccupante e sempre più vasto intreccio di «situazioni particolari» e il fatto che l’Onu abbia irrigidito le sanzioni anti-Pyongyang nel pieno della transizione del potere a Pechino è l’elemento che può scatenare un imprevisto cortocircuito tra le due Coree. A Seul la domanda che tutti si pongono è se Kim Jong-un, in attesa che Xi Jinping diventi presidente della Cina e voli subito a Mosca, sia nelle condizioni di assorbire umiliazioni e isolamento senza cedere al martirio di un conflitto. «Una guerra esterna — ha detto ieri sera la tivù di Stato del Sud — per scongiurare una rivolta interna». Sull’Asia si è affacciato lo spettro del «contagio dei conflitti democratici» che infiammano il Mediterraneo. E oggi, nel Pacifico, si aspetta di vedere se Pyongyang, come l’agenzia
Yonhap
ha minacciato nella notte, ha davvero deciso di «scatenare la terza guerra
mondiale».