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 2013  marzo 11 Lunedì calendario

LA TRAGICOMMEDIA DEL FINANZIAMENTO

Tanto per infierire, ma un po’ anche per dare l’idea di qual è il paese che vent’anni orsono si pronunciò al 90,3 per cento contro il finanziamento pubblico, si ricorda qui con il dovuto sgomento il caso di Clemente Mastella.
Il quale Clemente Mastella nell’estate del 2002, vistosi rifiutare un certo rimborso o contributo per il suo partito, ebbe il coraggio, la sventatezza e l’improntitudine di ricorrere all’arma estrema della disobbedienza civile: lo sciopero della fame. Rivolto per giunta ai suoi compagni del centrosinistra.
Erano i giorni, oltretutto, in cui si era appena laureato uno dei figli del futuro Guardasigilli, e a Ceppaloni fervevano i festeggiamenti e si allestiva il consueto trionfo eno-gastronomico. Pallido, nervoso, rassegnato e perfino malinconico, Mastella si aggirava a Montecitorio sospirando: «Mi mancheranno le mozzarelle e il pane cafone». E, per quanto Pannella notasse che un po’ di dieta non avrebbe fatto male a Mastella, volle comunque salutare l’antico avversario con un solenne: «Ben arrivato!». Anche Pino Rauti, d’altra parte, acerrimo nemico della democrazia, ma non per questo tagliato fuori dalla spartizione della ricca torta partitocratica, si era messo a digiuno. Come sia finita con la povera Fiamma è dura da ricordare. Mentre invece è certo che dopo uno o due giorni Mastella venne rassicurato e poi felicemente saziato di pubblici contributi. Pare anche di rammentare che all’interno del centrosinistra l’accordo
fu stipulato alla presenza di un notaio. Chiedersi chi abbia pagato il professionista è forse pretendere troppo dagli archivi. E tuttavia, in un’ideale ricostruzione storica, al netto dei milioni spesi dai partiti per sondaggi, viaggi, hostess, catamarani e altre preziosissime baracconate, vale forse questo ricordo minimo e stralunato, lo sciopero della fame di Mastella come lo specchio di una follia ormai più che decennale. Di cui ora si pagano i disastri.
Al tempo di Renzi e dei grillini sembra archeologia babbiona, ma quando si dice che i partiti hanno tirato e ritirato e ancora ritirato la corda, s’intende che con questa stessa si stanno oggi impiccando, per giunta da soli. Da sempre ha lavorato sotto traccia un comitato informale, composto dai tesorieri dei vari partiti che in nome della democrazia – questo il guaio supplementare – hanno proceduto in realtà alla privatizzazione della politica. Se l’abbiano fatta in buonafede o meno, è purtroppo una faccenda a questo punto ormai del tutto secondaria.
E anche qui, come per la breve dieta mastelliana, la tentazione di cercare effetti di speciale intrattenimento diventa quasi irresistibile, ma il problema è che li si trova in un baleno, anzi nel suo contrario, ossia nella notte buia, di nascosto, alla chetichella, nel chiuso delle comissioni. Quando a ore antelucane, andati
a nanna i giornalisti e spenti i pur mansueti tg, detto comitato informale di cassieri unificati da comune smania di quattrini riusciva sistematicamente a far approvare leggi su leggi a beneficio dei partiti.
Per il resto, se si esclude una fantastica sparata di Fini che in aula fece finta di assegnare i soldi che toccavano ad An per iniziative benefiche – profughi e comunità di recupero, vedi la bontà; e tolte alcune fantastiche iniziative dei radicali, che al contrario i loro soldi pubblici si misero sul serio a distribuirli in piazza, banconote da 50mila lire con timbretto d’occasione, ecco, per il resto la storia del finanziamento ai partiti è triste e abbastanza noiosa da raccontare.
In estrema sintesi, dopo il referendum del 1993, si sperò dapprima in un illusorio meccanismo di detrazione fiscale: se un 15 o 20 per cento di contribuenti, al momento di pagare le tasse, avesse concesso il 4 per mille ai partiti, questi si sarebbero anche accontentati. Ma al momento accadde il solito caos e, a parte gli evasori fiscali, nessuno lo sapeva, mancavano i moduli e soprattutto quelli che accettarono di versare questo benedetto 4 per mille furono così pochi che ancora oggi non se ne conosce
il numero.
Così gli astuti tesorieri, fra un pranzetto e l’altro, ripiegarono sulla tattica dei rimborsi, convenientemente occulti e
opportunamente indecifrabili, che invece funzionò. Anche troppo, perché non erano rimborsi, ma regolari flussi. E allora, più che leggi, furono norme transitorie, proroghe, deroghe, misteriosi emendamenti che andavano a farcire questo o quel decreto all’insegna del camuffamento legislativo. Una volta il presidente della Repubblica, che era Scalfaro, piantò una grana e rinviò uno di questi provvedimenti alle Camere. I partiti, grosso modo, fecero finta di cambiarlo e poco dopo ricominciarono a rimborsarsi per spendere e spandere: a sprezzo del pericolo che, accecati dalla divinità, non vedevano.
Morale: ogni elettore, che in origine versava 0,5 euro al sostentamento della politica, nel 2011 era arrivato al 3,6. Cifra che saliva a 5 e oltre considerando i giornali di partito, i gruppi parlamentari, i gruppi nelle regioni, il fondo per i debiti. Senza ovviamente considerare le spesucce di cui nel frattempo si facevano protagonisti galantuomini tipo Belsito e Lusi.
Per cui quando prima delle elezioni i partiti si sono tagliati un bel po’ di soldi era ormai, come si dice in questi casi, troppo tardi. E così adesso sono disgrazie, sventure, e si preannunciano rivolgimenti tali che uno pensa al digiuno di Mastella e ancora una volta resta senza parole dinanzi alla tragicommedia all’italiana.