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 2013  marzo 11 Lunedì calendario

LA CITTA’ DEI BOSS BAMBINI. UN ARRESTO ALLA SETTIMANA PER REATI LEGATI ALLA MAFIA — A meno di 15 anni d’età, Mario ha una sfilza di capi d’accusa che spaziano dal furto aggravato al danneggiamento, passando per una falsa attestazione di generalità

LA CITTA’ DEI BOSS BAMBINI. UN ARRESTO ALLA SETTIMANA PER REATI LEGATI ALLA MAFIA — A meno di 15 anni d’età, Mario ha una sfilza di capi d’accusa che spaziano dal furto aggravato al danneggiamento, passando per una falsa attestazione di generalità. E quasi se ne mostra fiero. Come ti chiami? «Totò ’u curtu», risponde beffardo al magistrato e ai compagni del carcere minorile in cui è rinchiuso, paragonandosi a Totò Riina. Franco invece diventerà maggiorenne tra pochi giorni, e risponde di reati più gravi; al furto si sommano rapina, violazione di domicilio, percosse e lesioni procurate alla signora derubata nel novembre scorso. Lui è stato arrestato, i suoi complici riuscirono a scappare, e quando gli investigatori gli chiesero chi fossero rimase in silenzio, sibilando solo: «’Un sugnu infame», non sono un infame. Giuseppe compirà 17 anni in estate, ed è stato arrestato per omicidio e occultamento di cadavere. Ha confessato di aver sparato alla vittima, ma gli inquirenti sospettano che sia stato spinto a farlo dai coindagati maggiorenni (tra i quali il patrigno), nel tentativo di addossare al minorenne un reato che per loro significherebbe l’ergastolo. Sono alcune delle storie che alimentano la criminalità minorile nel distretto giudiziario di Caltanissetta, dove si giudicano i delitti commessi tra Mussomeli, Gela, Riesi, San Cataldo e altri centri in cui Cosa nostra si confronta con i «separatisti» della stidda. Delitti commessi da ragazzini che, anche quando non hanno direttamente a che fare con i traffici delle cosche, ne ereditano i metodi. Da Mario che vorrebbe essere Riina all’orgogliosa omertà di Franco (i nomi sono di fantasia per via della minore età, ma i fatti sono rigorosamente veri), passando per Massimo, che comunicava dal carcere attraverso pizzini, alla maniera di Bernardo Provenzano e altri boss. Accadde nel dicembre del 2010. Un appuntato della polizia penitenziaria vide un braccio sporgersi da una finestra al secondo piano del tribunale minorile e lanciare un biglietto, subito raccolto da un ragazzo che si aggirava nel cortile. L’appuntato lo seguì e si fece consegnare il pezzo di carta dov’era scritto, con calligrafia infantile e poco rispetto della grammatica: «Sono messe nella villetta del manachè entri sempre dritto alla fine della villetta a destra ci sono delle sbarre di sotto ce un sachetto sotto lerba». Dall’immediato sopralluogo nella località di Gela indicata saltarono fuori 72 dosi di hashish pronte per essere vendute. Una rapida indagine attribuì il manoscritto a Massimo che fu condannato, «concesse le attenuanti generiche e applicata la diminuente della minore età», a due anni di reclusione e 4.500 euro di multa. Al disagio di una fra le zone più depresse della Sicilia e del Paese, aggravato dalla crisi economica che da queste parti si sente più che altrove e costringe molti alla fame, si aggiunge il reclutamento dei clan, denunciato dal procuratore generale Roberto Scarpinato all’inaugurazione dell’anno giudiziario: «Arruolano tra le proprie file un numero sempre crescente di minorenni incaricati di eseguire atti di intimidazione violenta, estorsioni, omicidi, spaccio di stupefacenti e altri reati che presentano per i criminali maggiorenni un elevato rischio penale». Seguendo una trafila ben delineata: «Gli uomini della criminalità organizzata selezionano i minori più violenti e capaci, e li pongono sotto la protezione di un padrino, il quale viene incaricato del loro apprendistato. L’iniziazione viene in genere avviata con l’incarico di eseguire incendi e altri atti di intimidazione, e prosegue con il coinvolgimento nelle estorsioni». Quando si tratta di riscuotere il «pizzo» un ragazzino accompagna i mafiosi, e le volte successive sarà lui a presentarsi alla vittima per farsi consegnare il denaro. Così i boss realizzano lo sfruttamento minorile che si spinge fino all’ultimo gradino. Conclusione del pg Scarpinato: «Il distretto di Caltanissetta detiene il triste record nazionale di minorenni incriminati per reati di mafia, tra i quali anche decine di omicidi, numerose estorsioni aggravate e un numero elevatissimo di danneggiamenti a scopo intimidatorio». L’avamposto del contrasto a questo tipo di baby criminalità — dove la distinzione con ciò che avviene nelle metropoli del nord deriva proprio dal diverso contesto, strutturalmente legato alle tradizioni mafiose del territorio — è una Procura per i minorenni dov’è rimasto a lavorare un solo pubblico ministero. Il sostituto procuratore Simona Filoni, coadiuvata da un drappello di collaboratori e investigatori, corre dietro a indagini, processi e statistiche: 46 arresti nel 2011, 59 nel 2012 e 7 nel primo mese di quest’anno. La curva è in costante crescita, e la dottoressa Filoni lancia l’allarme: «Un tempo c’era un aumento graduale della gravità dei reati, le prime segnalazioni erano per scippo o un furtarello di poco conto; adesso invece scopriamo minorenni sconosciuti al casellario che compiono rapine gravi o addirittura uccidono». La stesso pm segue i procedimenti dove le storie dei piccoli malavitosi si mescolano con la «mafia dei grandi»: alla fine del 2012 c’erano 40 minorenni o neomaggiorenni accusati per fatti commessi quando non lo erano (divisi tra richieste di rinvio a giudizio, dibattimenti in corso o condanne già pronunciate), imputati per associazione a delinquere, appartenenza all’associazione mafiosa o favoreggiamento a una famiglia di Cosa nostra o della stidda. Due rispondono addirittura di strage, per l’incendio con sbarramento di porte dell’appartamento di una vittima del racket che non voleva pagare, avvenuto nel 2005. Altri delitti risalenti agli anni Novanta sono stati scoperti grazie agli stessi autori che hanno raccontato tutto agli inquirenti. Omicidi d’iniziazione compresi. Il «pentito» Francesco Vella ha svelato che quando lui era diciassettenne il suo padrino, Alessandro Emmanuello, dell’omonima cosca gelese, lo portò con sé a un’esecuzione: «La vittima si è messa a piangere, e allora Davide Emmanuello gli dice "va bene, non ti preoccupare, te ne vai a casa", ma poi gli ha messo una corda al collo e l’ha strangolato. Nel tempo che lo stava strangolando, Alessandro Emmanuello gli ha detto "fallo strangolare da mio figlioccio", ma quando sono arrivato là per tirare la corda quello era già morto». Di solito, però, le indagini procedono senza collaboratori. Come quella in cui il pm Filoni ha chiesto il processo per cinque imputati per spaccio di stupefacenti. Tra loro c’è una ragazza che ha appena compiuto vent’anni, ma non ne aveva ancora diciotto al tempo dei pomeriggi trascorsi al bar di San Cataldo dove — secondo l’accusa — vendeva hashish a chiunque. Anche a ragazzini come lei. Giovanni Bianconi