Gianluca Di Donfrancesco; Michele Pignatelli, il Sole 24 Ore 8/3/2013, 8 marzo 2013
LA CORSA DEI NORDICI AL TAGLIO DELLE TASSE
[due pezzi]
L’ultima a muoversi è stata la Danimarca. La prossima potrebbe essere la Finlandia. In tempi di crisi, anche economie che restano su un sentiero di crescita, che siano fuori o dentro l’euro, pensano al taglio delle imposte sui redditi delle società per dare fiato a imprese e occupazione. Se poi i conti pubblici sono sotto controllo e non richiedono austerity, tanto meglio.
A fine febbraio, la Danimarca, che con un’aliquota del 25% già aveva una delle tassazioni sulle imprese più basse nell’Unione europea, ha annunciato una riduzione progressiva che porterà il prelievo al 22% in tre anni (nel 2016). Il primo taglio, di un punto, scatterà l’anno prossimo. A spingere l’Esecutivo guidato da Helle Thoring-Schmidt ad abbassare un’aliquota che resisteva da anni ci sono le difficoltà attraversate dell’economia, il calo del consenso per lo stesso premier e la concorrenza dei vicini Paesi nordici. A cominciare dalla Svezia che, senza aspettare fasi recessive e con un’economia in crescita a ritmi superiori all’1% l’anno, dall’inizio del 2013 ha abbassato la sua imposta sulle imprese dal 26,3 al 22 per cento.
Il provvedimento annunciato dal Governo danese fa parte di un pacchetto di misure per rilanciare l’economia, con un obiettivo minimo di crescita del Pil del 2% l’anno e con la creazione di 150mila posti di lavoro nel settore privato entro il 2020. Le risorse per finanziare il taglio delle tasse sulle società arriveranno dalla riduzione degli aiuti agli studenti e dal freno alla spesa, compresa quella per gli stipendi dei dipendenti pubblici. Nel quarto trimestre del 2012, il Pil danese è sceso dell’1% su base annua e tra il 2005 e il 2011, la produttività è aumentata dell’1,5%, contro il 3,8% della Svezia e il 6,2% della Germania. La Danimarca può contare su un deficit in discesa dal 4% del 2012 al 2,7% previsto per quest’anno e su un debito pubblico di poco superiore al 45 per cento.
Finanze solide, come quelle della Finlandia, che a sua volta si prepara a un taglio della tassazione sulle imprese. Anche qui, si parte da un’aliquota piuttosto bassa, il 24,5%, ma le aziende chiedono di ridurla in modo drastico e di portarla al 15%. Ogni punto in meno costerebbe alla Finlandia 200 milioni di euro di gettito, eppure, malgrado la proverbiale attenzione per il rigore di bilancio, in Parlamento il consenso per una riduzione dell’imposta, magari più contenuta, cresce e aperture arrivano anche dal ministro delle Finanze Jutta Urpilainen. Da Helsinki si guarda con interesse al modello estone, dove l’aliquota è al 21%, ma l’imposta scatta solo se le imprese distribuiscono dividendi.
Ad aprire la corsa al taglio della corporate tax è stata però Londra, che già nel 2012 ha abbassato il prelievo sui redditi delle imprese dal 26 al 24%. Il Governo Cameron è andato però oltre e a dicembre ha annunciato nuovi tagli, che porteranno l’imposta al 21% già l’anno prossimo, «al livello più basso tra le grandi economie occidentali», come ha commentato lo stesso ministro delle Finanze George Osborne.
La riduzione del prelievo sulle imprese rende il Paese più attraente per gli investitori esteri, in una competizione fiscale che, come ha accennato di recente Berlino, rischia di esporre chi resta indietro a forme di "elusione" con le proprie società che migrano verso sistemi più convenienti, all’interno della stessa Ue e senza nemmeno tirare in ballo i paradisi fiscali.
L’idea, infatti, è che il minor gettito proveniente da ciascuna impresa possa essere in parte compensato da una più vasta platea di contribuenti, con benefici anche per l’occupazione. Su questo fronte, secondo una scuola di pensiero statunitense, oltre a creare lavoro, alleggerire la pressione sulle imprese porterebbe benifici diretti anche a chi il posto già ce l’ha, poiché le aziende tendono a scaricare sugli stipendi dei dipendenti fino al 60% delle tasse pagate. I tecnici del ministero del Tesoro Usa stimano una quota molto più bassa, ma che si attesta comunque al 18 per cento.
L’IRLANDA DIFENDE IL 12,5%: «COSÌ SI VINCE LA SFIDA GLOBALE»–
L’ultimo annuncio è di mercoledì: FireEye, azienda americana leader nella sicurezza informatica, ha deciso di stabilire a Cork il suo centro di assistenza tecnica europea, portando in dote 150 posti di lavoro all’Irlanda, che mai come ora, prostrata da una crisi che ha lasciato pesanti strascichi occupazionali, ne ha bisogno. È l’ennesima conferma del ruolo di hub strategico per l’information technology che Dublino ha assunto negli ultimi anni, attraendo numerose multinazionali - Google, Twitter, Intel, PayPal hanno qui il loro quartier generale internazionale - e ingenti flussi di investimenti diretti esteri, soprattutto (per il 72%) dagli Stati Uniti.
Il segreto del successo irlandese è racchiuso anche, se non principalmente, in un sistema fiscale vantaggioso per le imprese, imperniato su una corporate tax fissata dal 2003 al 12,5% (nel ’98 era ancora al 32%). Un regime che ha favorito il boom del Paese prima della crisi, attirandosi però le critiche di diversi partner europei, Francia in testa, per una concorrenza ritenuta sleale. Per Dublino, che finora ha difeso con i denti il suo regime fiscale, l’ultimo campanello di allarme è suonato con lo studio commissionato dal G-20 all’Ocse in vista di un piano d’azione per correggere le distorsioni fiscali: diverse multinazionali - si legge nel rapporto dell’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza economica - sfruttando le leggi contro la doppia tassazione, riescono a ridurre ampiamente la base imponibile o a non pagare del tutto le imposte. Conclusioni che somigliano a un monito per l’Irlanda, sede europea prediletta delle multinazionali con Lussemburgo e Paesi Bassi.
A Dublino, però, non si mostrano preoccupati. «Il rapporto dell’Ocse - sottolinea Danny McCoy, direttore generale dell’Ibec, la maggiore organizzazione imprenditorale del Paese - giunge a proposito, perché a livello globale i regimi fiscali non si adattano a e-commerce ed economia digitale. Quanto all’Irlanda, ha tasse per le imprese basse il che è una differenza fondamentale dal non far pagare le tasse: una situazione favorita piuttosto dall’attuale sistema fiscale statunitense. È ovvio che in tempi di austerity il G-20 affronti il problema che però - ribadisce - non riguarda l’Irlanda: noi abbiamo aliquote basse, di cui c’è bisogno in un mondo globalizzato, ma un’ampia base imponibile: non è interesse di nessuno un sistema che permetta di non pagare la corporate tax».
Sulla stessa linea Barry O’Leary, ceo di Ida, l’agenzia governativa che promuove gli investimenti diretti esteri in Irlanda. «L’Ocse - spiega O’Leary, mentre snocciola con orgoglio alla stampa internazionale gli ultimi dati sugli Ide e sulla presenza internazionale nel Paese - è stata chiara sul fatto che l’Irlanda non è un paradiso fiscale. Bisogna distinguere tra aliquote basse e assenza di tasse e riflettere anche sulla differenza tra aliquota nominale ed effettiva». Il riferimento, vecchio cavallo di battaglia irlandese, è al fatto che a Dublino di fatto le imprese pagano circa il 12%, un’aliquota molto vicina al 12,5%, mentre ci sono altri Paesi, come la Francia, dove a fronte di un tasso nominale molto più alto, diverse imprese, tra incentivi ed esenzioni, pagano nettamente meno.
Dublino invita però ad abbandonare guerre intestine. «La competizione - fa notare Sean Murphy, numero due delle Camere di commercio irlandesi - è con Paesi come Singapore o Portorico». «L’Europa - aggiunge ancora O’Leary - deve guardare alla concorrenza di Paesi esterni, come Singapore, per essere competitiva in un’economia globalizzata».
L’Irlanda intanto non si culla sugli allori: nell’ultimo budget è stato raddoppiato, da 100mila a 200mila euro, il tetto per poter beneficiare del credito d’imposta del 24% sulle spese per ricerca e sviluppo delle imprese.