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 2013  marzo 10 Domenica calendario

VIVERE IN OTTO METRI QUADRATI FRA I GRATTACIELI DI HONG KONG

La scala per arrivare negli otto metri quadrati dove vive la famiglia Lei Chong è stretta e sbilenca, ha le pareti ricoperte di cassette delle lettere in metallo e cavi Ldella luce attorcigliati. Si varca una soglia appesa nel nulla che da su sette cancelli di ferro: «Era un solo appartamento, questo», spiega Chik Kui Wai, della Society for Community Organization (SoCo), «ma il proprietario l’ha suddiviso in monolocali di otto metri quadrati, per guadagnare di più con l’affitto. E’ illegale, ma almeno 100.000 persone vivono in case così nella ricca Hong Kong». L’intera palazzina di sette piani è suddivisa in questo modo, il che spiega la quantità di cassette per le lettere e il groviglio di cavi. E le porte senza senso sui cancelli di ferro.

Uno dei cancelli si apre e rivela il sorriso serio di Lei Chong Yok Tong, un uomo di forse 71 anni (non ha mai saputo la sua data di nascita), che vive qui con la moglie e il figlio, un liceale di 16 anni «venuto su altissimo», dice il padre, scuotendo la testa. Fa un gesto con la mano, come a sottolineare che questo non è posto dove venir su alti.

Per vivere in otto metri quadrati bisogna avere un senso dell’ordine maniacale. L’appartamento- una parete pieghevole di plastica nasconde un bagno con un piccolo lavandino e un tubo da doccia fissato sopra il water - costa 260 euro al mese e contiene tutto quello che serve a sopravvivere, disposto con precisione. In un angolo c’è il lavandino, vicino è appesa una zampa d’anatra essiccata, una piastra elettrica a fianco su cui è stato appoggiato un cavolo, e due padelle attaccate al muro. Un tavolo pieghevole è incastrato fra il lavandino e un ripiano con tazze e teiera e una scatola con le foglie di tè e un vaso con dei rami di bambù. Dalla finestra sporge uno stendipanni di metallo, su cui sono sistemate alcune paia di scarpe, poi c’è una sedia, e esattamente di fronte al lavandino il letto a castello, incorniciato da scatole di plastica trasparenti con dentro vestiti e biancheria. Di fronte alla finestra c’è un tavolino, con una tv a schermo piatto, una libreria, qualche libro e cd e un mazzo di rose di plastica in un vaso. In un contenitore di metallo c’è una crema idratante, un mascara e un rossetto. Il frigorifero non è più grande di un cubetto. Ecco: abbiamo fatto il giro a 360 gradi della stanza, siamo di nuovo alla porta d’ingresso.

La finestra è aperta, e dalla strada provengono i rumori indaffarati del quartiere di Sham Shui Po, le voci dalle bancarelle del mercato e dei rigattieri, venditori di tessuti ed elettrodomestici. Uno dei quartieri poveri di Hong Kong, arricchito da una vitalità che lo rende attraente malgrado il suo horror vacui, e dove abbondano gli edifici suddivisi in quelle che sono chiamate, con eufemismo bizzarro, «stanze per televisione». Affittate ad umani, non a televisori.

Capire la storia di Lei Chong Yok Tong, e di come una vita possa avvitarsi su se stessa fino a ritrovarsi rinchiusa in otto metri quadrati non è facile: un po’ perché i protagonisti sono restii a parlarne, un po’ perché di complicazioni ce ne sono tante. Il padre era un soldato giapponese durante la Seconda Guerra Mondiale, di stanza nel Nord-Est della Cina. La madre veniva dalla Mongolia Interna. Dopo la guerra la famiglia va in Giappone, ma i genitori si lasciano, madre e figli tornano in Cina, nel momento di massimo caos politico. Yok Tong dice di non averne sofferto, anzi, «ma appena è stato possibile uscire, nel 1975, sono venuto a Hong Kong». Lavorava per un’azienda giapponese in Cina, aveva una moglie e quattro figli a Hong Kong, ma le lunghe assenze lo hanno portato ad avere un’altra donna oltre frontiera, e un figlio, il sedicenne troppo alto. «Mi sono separato dalla mia prima moglie», dice, «ho lasciato a lei la casa, e sono andato per strada». Dice che in Cina è stato ingannato e ha perso tutto, ma tace i dettagli. Un uomo così pulito e ordinato, che anche in otto metri quadrati trova posto per una teiera di terracotta di Yixin e dei fiori di plastica, è impensabile per strada. Ma, dice, «si è trattato solo di qualche mese. Quando mia moglie e mio figlio mi hanno raggiunto dalla Cina siamo venuti qui. Lui va a scuola e studia in biblioteca, lei ancora non ha il permesso di lavorare, raccoglie cartoni per strada dalle 8 alle 22 di sera. Porta a casa 4 euro al giorno».

Quando torna cenano insieme: aprono il tavolino, sistemano le sedie, poi sparecchiano e dormono. I due uomini di sotto, la signora di sopra.

Yok Tong ha un pacemaker, e un sacchetto di medicine sotto il letto – di fianco a un sacco col riso – che gli impedisce di lavorare: due passi ed è investito dall’affanno. Ha un sussidio governativo per sé e il figlio, circa 300 euro in tutto.

Intanto la televisione è accesa, e passa una pubblicità dell’Ikea. Poi, una trasmissione sul design per interni, e il telegiornale: «Andranno in guerra, vedrai!», dice lui, guardando il leader nordcoreano Kim Jong Un, e un’immagine delle isole contese fra Cina e Giappone. «Che ci vadano. Su questa terra siamo troppi», commenta: «E per la maggioranza malvagi».

«L’unica speranza è mio figlio», conclude: «vuole fare l’architetto. E disegnare solo case dove ci sia abbastanza spazio per vivere».