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 2013  marzo 10 Domenica calendario

JEAN-LOUIS TRINTIGNANT

[Tornato a recitare a ottantatré anni dopo un decennio di stop seguito alla morte della figlia, l’attore più premiato d’Europa racconta una vita fatta di passioni: auto, donne, teatro. E cinema: Il rimorso più grande? Il no a Bertolucci. Ma me lo chiese Marie: papà, se fai Ultimo Tango a scuola mi prenderanno tutti in giro”] –
PARIGI «Sono invecchiato, eh?», si scusa mentre scroscia ancora l’applauso alla fine de Il grande silenzio,
western di Sergio Corbucci del ’68, quando, a trentotto anni, continuava ad avere l’aria di ragazzo schivo e intimidito del Sorpasso. Adesso che Amour copre,
imperioso macigno rugoso, il suo cinema, da cui s’era allontanato dieci anni fa, pare difficile agli spettatori della personale a lui dedicata a Parigi fare il legame tra il prima e il dopo di Jean-Louis Trintignant. Tra
Amour e gli altri centotrenta film girati in un’eterna giovinezza, prima dello stop, prima della diga: la morte tragica, appunto dieci anni fa, dell’adorata figlia Marie.
Con l’abituale ritrosia, l’attore francese, a ottantatré anni il più vezzeggiato e premiato del cinema europeo, smonta come un castello di carte il suo passato in pellicola: «Su centotrenta titoli, di cui un quarto italiani, non più di trenta sono da salvare», e quasi si scusa di nuovo. Affabile, all’uscita si lascia prendere sottobraccio da chi l’aveva a lungo intervistato quasi quarant’anni fa sul set torinese di La donna della domenica: «Luigì Comencinì?», s’illumina il suo sguardo di spillo. «Che bei momenti, anche con Marcello Mastroianni. Dei quattro “colonnelli” della commedia all’italiana, era il più simpatico. Molto intelligente, non intellettuale. Gran seduttore, una bomba. Spariva dopo due bisbigli con una bellona e, in nemmeno un’ora, impresa compiuta. Eravamo due cocciuti sul set, entrambi a ronzare attorno a Jacqueline Bisset, che però s’eclissava subito a fine riprese: “Dopo le dieci di sera non m’è mai successo nulla di interessante”. Forse una maliziosa provocazione».
Trintignant era allora nel pieno del successo: dal film-Oscar Un uomo e una donna di Claude Lelouch a
Z-L’orgia del potere di Costa-Gavras («Era l’amante di mia moglie, ma non gliene ho mai voluto, perché è una bella persona ») a Il conformista di Bernardo Bertolucci («Il ruolo più bello della mia vita»). Ma già tentennava per un’altra passione, le corse automobilistiche, cui l’avevano soggiogato fin da piccolo gli exploit dello zio pilota Maurice. Si abbandonerà ai circuiti, alternandoli ai set, nella prima metà degli anni Ottanta: ulteriore sballottamento d’una vita a strappi, scoscesa, interrotta. Gli studi di giurisprudenza lasciati da un giorno all’altro per buttarsi nel teatro, folgorato da L’avaro diretto
da Charles Dullin. Il flirt rovente, nel ’56, sotto le occhiate gelose di Roger Vadim, con Brigitte Bardot — esordiente come lui in E Dio creò la donna — crudelmente spento da un interminabile servizio di leva in Germania e un reclutamento odioso nella guerra d’Algeria. Tre anni dopo, ritorno agli schermi, che l’avevano già dimenticato, con la prima, grande affermazione in Italia: Estate violenta di Valerio Zurlini. Poi, cinema e cinema, anche la peggiore serie B, italiana e francese, ma con ripetute fughe nel teatro di qualità: «Negli intervalli del Sorpasso, Vittorio Gassman e io trascorrevamo ore a parlare di Shakespeare: io recitavo l’Amleto in Francia, lui lo stava mettendo in scena in Italia». Anche i matrimoni a singhiozzo: l’ammaliante Stéphane Audran, poi moglie di Claude Chabrol; Nadine, poi sua regista e madre di Marie; e, dai tempi delle corse, la pilota Mariane Hoepfner. E poi vuoti improvvisi, incolmabi-li: il primo, la morte in culla a nove mesi della figlia Paulette, l’anno del Conformista.
Infine, l’ultimo strappo. L’addio a un cinema divenuto seriale, sostituito — fino alla riapparizione evento
in Amour — dall’amore di sempre, sempre più esclusivo, il teatro.
In quest’aspro groviglio d’abbandoni e ripensamenti, d’addii e ritorni, numerosi gli appuntamenti mancati, non solo nel cinema: «È vero, quando Coppola mi cercò per
Apocalypse Now, che mi avrebbe forse aperto una carriera in Usa, non avevo voglia di muovermi dalla Francia. E nemmeno quando Spielberg mi volle per
Incontri ravvicinati del terzo tipo, nel ruolo che poi è andato a François Truffaut. Provo più rimorsi, ma la scelta di Marlon Brando è stata ottima, per Ultimo tango a Parigi, dove avevo anche dato una mano a Bertolucci nella sceneggiatura. Ma mia figlia Marie, allora bambina e già attenta lettrice degli script che ricevevo, mi aveva scongiurato: “Papà, a scuola le mie compagne non finiranno mai di prendermi in giro”. E io non ho mai fatto nulla nella vita che potesse dispiacere a mia figlia». Pure l’Italia, che l’ha a lungo adottato (Trintignant l’italien
è il bel documentario presentato in suo onore al Festival d’Annecy nell’ottobre scorso), è stata talvolta un’occasione persa: «Con il vostro Paese ho avuto un rapporto privilegiato. Zurlini è stato per me un fratello maggiore: a Roma abitavo da lui. La mia Dolce Vita non è stata però Via Veneto, ma la trattoria “Da Otello”, dove ci si ritrovava tutti, attori, registi, sceneggiatori. Spesso i film nascevano così, dalle battute, dalle chiacchiere. Una volta, mentre si scherzava sul colpo finito male nel
Rififi di Dassin, al commento “Noi ci saremmo fatti una spaghettata!”, Monicelli s’alzò di botto: “La prendo io!”. Era l’idea dei Soliti ignoti. Purtroppo tra i molti film che ho girato da voi ho dovuto rinunciare a C’eravamo tanto amati di Ettore Scola, dove sarei stato il professore intellettuale, e a Casanova, non tra i migliori Fellini: non potevo impegnarmi per un anno o più, senza sapere quando e se l’avremmo girato. Ma lo sa che anche nel
Sorpasso, diventato il mio logo italiano, sono stato preso per puro caso? Doveva interpretarlo Jacques Perrin, altro francese allora onnipresente nel vostro cinema. Le prime riprese, nelle strade vuote di Roma a Ferragosto, furono effettuate con la sua controfigura. Quando lui dovette rinunciare chiamarono me, semplicemente perché ero il più somigliante alla sua controfigura».
Nei cinque anni in cui si dedicò professionalmente alle corse, girò tra Francia e Italia ventitré film, quasi cinque all’anno (una media da Totò): tre di Scola, tra cui La terrazza, l’ultimo Truffaut di Finalmente domenica!
e il suo ultimo italiano, lo stupendo Colpire al cuore
di Gianni Amelio con Laura Morante. Una schermata trionfale al confronto dei vergognosi piazzamenti su pista: settimo nell’81 alla 24 ore di Spa Francorchamps, cinquantunesimo nell’82 al Rally di Montecarlo, quarantasettesimo nell’84... Masochismo d’attore o sadismo di pilota? «E pensi che ho anche rischiato di morire, in due incidenti, di cui uno molto grave: nell’80 alla 24 ore di Le Mans sono uscito di pista a 325 chilometri all’ora. Fortunatamente in un rettilineo. Scoppiò la ruota posteriore sinistra. Sono rimbalzato sei volte sulle barriere di sicurezza, senza mai colpirle frontalmente. Ma è questo che mi è sempre piaciuto delle gare: è una guerra di nervi,
affronti una curva a tale o tal’altra velocità sapendo che è l’acceleratore a guidare la macchina e non tu, tu non puoi rallentare sennò è testacoda. Il brivido è tutto lì. Ciò detto, non è che fossi molto dotato per le corse. E poi ho cominciato tardi, dopo i quaranta, quando i piloti in genere smettono». Profetico, dunque, il film di Dino Risi. La vita come sorpasso, sempre definitivo quando è sfida con se stessi: un po’ come l’attore? «Essere attore significa conservare un’anima infantile, continuare a entusiasmarsi, a meravigliarsi: dunque, a superarsi. In questo, sono sempre stato e sono rimasto, nonostante tutti gli strappi e i cambi di marcia, un attore». Talora, e lei l’ha capito presto, sorpassarsi è fare marcia indietro? «Alla fine della mia vita sono tornato alle mie origini: i campi, le vigne. Da una trentina d’anni vivo nella mia casa a Uzès, nei dintorni di Avignone. Nella mia famiglia, nessuno prima di me era mai salito fino a Parigi. Era lontana, Parigi. Ci ho vissuto venticinque anni. E poi ho rimesso radici nella mia campagna, dove sono cresciuto e dove mi sento meglio. Nipote e figlio di vignaioli, anch’io produco vino. Mi ci sono messo tardi, ma mi piace. Lo bevo, anche, il vino: come il teatro, mi ha aiutato a vincere la timidezza. E poi: una sana sbornia non è meglio d’una mediocre lucidità?».