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 2013  marzo 10 Domenica calendario

FOTOGRAFO OVUNQUE TUTTO

Fotografo? Macché, di più. Fotonnivoro, fotonnipresente, fotossessionato. Si favoleggia abbia lasciato un archivio di nove milioni di scatti. «Adolfo Porry Pastorel, FOT» faceva stampare sui biglietti da visita, non un’abbreviazione bensì un acronimo: «Fotografa Ovunque Tutto». Lo aveva fatto incidere anche sulla cassa degli orologi che donava ai vigili, così quando c’era qualche “avvenimento di cronaca” quelli guardavano l’ora per il verbale, si ricordavano di lui, gli telefonavano e lui piombava lì prima di tutti per fare lo scoop.
Lo abbiamo avuto anche noi un grandissimo fotoreporter, perfino prima degli americani che il fotoreportage l’hanno inventato. Proprio mentre
Weegee the Famousfaceva
lo stesso nella New York dei gangster, Porry-Pastorel s’aggirava nella Roma dei mariuoli su un furgone rosso in cui aveva allestito una camera oscura, per non perdere tempo. Forse perfino prima di Robert Capa si era procurato una Leica, intuendo che il futuro del fotogiornalismo stava nell’agilità e nella velocità.
Lo abbiamo avuto anche noi, e lo abbiamo sprecato. Soffocato, come tante altre cose, sotto la cappa affumicata
del ventennio fascista, talento inutile in un’Italietta rimasta ai margini del fotoreportage mondiale proprio negli anni in cui diventava adulto e ruggente. Ma una vita geniale non è mai davvero sprecata, ed ecco che una biografia vivace e a tratti romanzata, condotta su materiali inediti dalla giornalista Vania Colasanti (
Scatto matto,
Marsilio) ce la restituisce, almeno come personaggio narrato, in attesa che qualcuno gli renda, con una
auspicabile grande mostra, il posto che gli spetta nella storia del fotogiornalismo italiano.
Servirà un posto lungo e stretto... «Temerario spilungone» lo apostrofò nientemeno che il primo ministro Giovanni Giolitti. Figlio di bersagliere, allampanato, ammiccante, sempre senza cappello, s’infilava come un diavolo dappertutto, nei palazzi del potere come nei cortei delle proteste, ancor prima della Prima guerra, e spesso e volentieri le prendeva belle sode dai poliziotti, anche questo un buon cinquant’anni prima dei paparazzi. Amico di famiglia, il direttore di
La Vita
Ottorino Raimondi lo aveva assunto dicendogli di scrivere come se fotografasse, ma lui pensò che fosse meglio fotogra-
fare come se scrivesse: raccontando il più possibile di una storia in un colpo solo. Irrequieto, ingovernabile, dopo aver reso
Il Giornale d’Italiail
quotidiano «fotografico» italiano diventò il nostro primo
freelance:
chiamò la sua agenzia Vedo (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque: gli piacevano le sigle), un’impresa all’avanguardia con segretarie, archivio efficientissimo e una masnada di
stringer,
diremmo oggi, ragazzini da spedire in giro a pedate con una fotocamera al collo e un solo dovere: arrivare prima degli altri.
E Porry (per gli amici) questo lo sapeva fare meglio di tutti. «Gran fama di dritto» secondo il suo allievo Tazio Secchiaroli, futuro re dei paparazzi, faceva imbestialire i concorrenti dell’Istituto Luce incollando di soppiatto francobolli sui loro obiettivi. E li batteva sempre sul tempo. Durante le manovre navali organizzate per impressionare Hitler, a Napoli, nel ’38, speravano che almeno lì, in mare aperto, non potesse fregarli: la telefoto non era ancora stata inventata (quando accadrà, Porry sarà il primo a usarla). E invece no, avrebbero dovuto guardare cosa aveva dentro la valigia di vimini che portò a bordo. Venti piccioni viaggiatori. Li aveva già usati nel Carso. Scattò, finse un malore, andò in cabina, sviluppò, stampò, infilò i negativi nelle capsuline, «lanciò le immagini nell’aria» e quando tornò in porto le sue foto erano già in edicola.
Dodici anni prima, sempre su una nave, Porry aveva avvicinato il Duce per consegnargli un rullino esposto, dicendogli (racconta o immagina la biografa): «Ironiche sì, irriverenti mai». C’erano gli scatti rubati del poco marziale mal di mare del grande condottiero. E qui forse sta una risposta al mistero del loro rapporto: il dittatore e il fotografo non si sopportavano, non riuscivano a evitarsi, però forse si rispettavano. Benito non gli perdonò mai lo scatto, celeberrimo, del suo arresto durante un comizio interventista del 1915: il futuro Duce preso per la collottola da un poliziotto, come un monello. Quando se lo vedeva attorno sbottava infastidito, perché sapeva che quello stangone non l’avrebbe mollato, neppure dietro i cespugli dove un giorno, durante le manovre militari in Irpinia, si era appartato, perché anche ai dittatori ogni tanto scappa. Ma eccolo lì Porry con l’occhio al mirino: «Ah si? E allora adesso fotografami anche questo... », seguì gesto eloquente. La relativa fotografia non pare sia mai stata rintracciata. «Sempre il solito fotografo!», gli disse un giorno del ’24 Mussolini, e Porry lo rimbeccò: «Sempre il solito presidente del consiglio!», che a pensarci bene era una battuta da finire in villeggiatura a Gaeta per decenni.
Invece no, Porry lavorò indisturbato per tutto il Ventennio. Lui, che aveva fatto il servizio più pericoloso che si potesse immaginare in quegli anni: la fotocronaca del ritrovamento del cadavere di Giacomo Matteotti. Glielo aveva chiesto Velia, vedova del parlamentare socialista assassinato. Un reportage straordinario, di un dinamismo sconosciuto
alla cultura visuale italiana: le macchine dei carabinieri che corrono sulle strade polverose, i sopralluoghi dei magistrati, il ritrovamento della giacca insanguinata, il recupero pietoso della salma, Turati e Treves convocati per il riconoscimento, la simulazione giudiziaria del rapimento: alcune immagini apparvero nei giornali antifascisti dell’epoca, ma l’intera sequenza restò, come un memento privato, nell’album istoriato d’oro custodito dagli eredi e riemerso solo qualche anno fa in una mostra curata dallo storico Stefano Caretti.
Nonostante questo, la Vedo lavorò intensamente, nel Ventennio, pur sotto l’implacabile mannaia della censura di regime, meticolosissima nella costruzione e nella tutela dell’immagine del Duce. Molti scatti di Porry oggi ci appaiono scopertamente ironici se non caricaturali: ecco un Mussolini a Cogne, infagottato in una cerata da minatore, pinguino impacciato con una spassosa berretta a falde; eccolo mentre passa in rivista le truppe in una attillata divisa bianca, gesto lezioso della mano destra, quasi un passo da ballerino, altro che imperiali virilità. Alcune inquadrature sembrano pensate per svelare la costruzione di un mito di cartapesta, come l’immagine del Duce mietitore, per la battaglia del grano. La verità è che gran parte di queste fotografie rischiose e imbarazzanti non apparvero mai sulle pagine dei giornali italiani. Ma Porry aveva ottimi clienti stranieri, e qualche foto non protocollare espatriò, beffardamente commentata dai giornali della perfida Albione.
E tuttavia, neppure questo sospetto di intelligenza col nemico sembra aver procurato troppi guai all’impertinente Porry. Che all’occorrenza sapeva fornire anche immagini perfette per la propaganda e il culto della personalità: pose statuarie, gesti invincibili di fronte a folle oceaniche eccetera eccetera. Chi fu dunque Porry? Un frondista ingenuo che sfotteva facendo finta di niente, un abile giocatore su due tavoli, un antifascista mascherato, quasi foscoliano, che «temprando lo scettro ai regnatori, gli allor ne sfronda», o un italiano affascinato come tanti dall’uomo della Provvidenza? Un po’ tutte le cose, forse: come l’Italia intera. Fu anche un uomo piegato dal dolore per la perdita del figlio sul fronte russo, fu un coraggioso produttore di passaporti falsi per i partigiani, e infine fu un sindaco, nel dopoguerra, quando si stufò della sua ultima vocazione di fotografo delle star di Cinecittà e lasciò mestiere e archivi al discepolo Tullio Farabola. Fu eletto primo cittadino del paesino di Castel San Pietro, sui colli romani, nella lista dei monarchici, e lì morì nel 1960. Il suo ultimo scoop fu convincere Luigi Comencini a girarvi
Pane amore e fantasia.
Prima dell’arrivo di Lollobrigida, De Sica e troupe mise al sicuro i maiali, patrimonio del paese, in un recinto confortevole che ribattezzò Porcopoli (e finì fotografato su
Life).
Diceva che «anche un maiale ha bisogno
di affetto».