Enrico Deaglio, la Repubblica 10/3/2013, 10 marzo 2013
LADY FACEBOOK
SAN FRANCISCO Il 20 febbraio scorso ho preso il treno per Menlo Park e di lì un taxi per il quartier generale di Facebook nella famosa Silicon Valley. Sheryl Sandberg, la numero due del gigante dei social network, presentava un suo libro, in uscita internazionale il 12 marzo, a una ventina di giornalisti non americani. Consegnate le bozze, previo “giuramento” di rispettare l’embargo, segue conferenza stampa, poi intervista
one to onee
infine visita al campus di Facebook. Tutto mi immaginavo, tranne che di diventare testimone di un clamoroso caso politico-culturale-editoriale-filosofico-mondano che si sta sviluppando in questi giorni intorno al libro. Nessuno lo ha ancora letto, ma sui giornali e sui blog americani sono ormai dozzine gli interventi. Sheryl Sandberg è l’autrice del “manifesto femminista” del Ventunesimo secolo o l’ultima arrivata donna in carriera che straparla dall’alto di un paio di scarpe Prada? La paladina delle donne che lavorano o la privilegiata imboccata alla nascita
con un cucchiaio d’oro? L’iniziatrice di un movimento mezzo secolo dopo la
Mistica della femminilità,
il libro di Betty Friedan che segnò la fine della supremazia maschile in Occidente?
Edito da Knopf, il libro si chiama
Lean in, Women, Work and the Will to Lead.
Tradotto in italiano per Mondadori:
Facciamoci avanti. Le donne, il lavoro e la voglia di riuscire,
oltre duecento pagine di cui una cinquantina di dettagliatissime note sulla discriminazione, degne di una ricerca accademica. L’autrice ha una biografia da urlo. Newyorchese, quarantaquattro anni, laurea in economia ad Harvard, capo gabinetto del ministro del tesoro di Clinton, Larry Summers (che sarà il suo mentore); è stata alla Banca Mondiale, nel ristretto cerchio di persone che trattò il salvataggio finanziario della Russia di Boris Eltsin (all’epoca il suo ufficio — per un gioco di simulazione — calcolò anche quanto si sarebbe dovuto sborsare per tenere in vita lo zar nel 1917 ed evitare così settant’anni di comunismo, concludendo che forse ne sarebbe valsa la pena).
Sheryl Sandberg passa dal settore pubblico a quello privato e nella transizione — la ragazza sa quando bisogna essere
choosy
e quando no — lavora come istruttrice di aerobica nelle palestre di Jane Fonda, con tanto di tutina luccicante; poi entra a Google e ne diventa la principale dirigente e la prima produttrice di utili della società. Passa da questa a Facebook (assunta nel 2008 da un ventitreenne Mark Zuckerberg che, per età, potrebbe essere suo figlio), porta via a Google i migliori dirigenti, rimodella la società come responsabile dello sviluppo economico finanziario e gestisce la storica (e controversa) quotazione in borsa della società. Stipendio attuale: trenta milioni di dollari l’anno. Benefit: un cospicuo pacchetto di azioni della società. Effetto della sua presenza ai vertici dell’industria elettronica: clamoroso.
È la prima donna ad avere potere in un mondo strutturalmente maschile. Vita privata: nata in una famiglia di ebrei russi newyorchesi con l’adorazione per lo studio, padre chirurgo, madre insegnante e attivista dei diritti umani; marito medico, due figli di sette e cinque anni. Quinta donna più potente del mondo secondo la rivista
Forbes,
dietro a Hillary Clinton, Angela Merkel, Dilma Roussef, Sonia Gandhi, ma prima di Michelle Obama. (La madre però le telefonò: «Io credo che Michelle Obama sia sopra di te…»).
Il terzo elemento dell’evento è quella strana cosa che si chiama Facebook. Ci stanno attaccati un miliardo di persone, che ogni giorno si scambiano 250 milioni di fotografie e 2,7 miliardi di commenti su quello che cliccano (il famoso “mi piace”). Facebook è la più grande banca dati per l’industria pubblicitaria e la politica. Ha fatto scoppiare la primavera araba? Dicono di sì. Ha deciso la rielezione di Obama? Sicuramente sì.
A Menlo Park, il nuovo quartier generale dove lavorano duemila impiegati, lo stile è da campus sessantottino. Niente orari fissi, molti bar e caffè, biciclette che girano, manifesti appesi sui muri (“non siamo consumatori, ma il popolo”; “la connessione è un diritto umano”, “l’importante è sbagliare”). C’è anche un muro dove tutti possono scrivere quello che vogliono e, in cima, verso il soffitto, compare anche un “Sheryl Sandberg sei il mio eroe!” ( mi giurerà che non l’ha scritto lei).
Lean in
è al crocevia tra un libro di memorie di una donna di successo, un manifesto per l’emancipazione delle donne che lavorano e una miniera di dati sulla discriminazione contro le donne: in casa, sul lavoro, nella politica. Il “farsi avanti” del titolo si riferisce a una situazione che Sandberg ha visto mille volte. Sala riunioni di una grossa società, grande tavolo. «Prego, prendete posto» dice il padrone di casa. Ed ecco che gli uomini si siedono al tavolo e le donne tendono ad accomodarsi sulle sedie accanto. Immagine-metafora di una diseguaglianza, ma anche di una paura introiettata dalle donne stesse. Quando si faranno avanti e si sederanno, con naturalezza, al centro del tavolo, allora si sarà abbattuto quell’invisibile soffitto di cristallo della discriminazione. Batterla, superarla, ottenere insieme migliori salari, potere aziendale e una più giusta organizzazione dei diritti e doveri nella vita famigliare è lo scopo del pamphlet che Sheryl Sandberg (insieme alle cinque giovani donne della neonata fondazione
Lean in)
presenta in una sala riunioni gentilmente concessa da Facebook, di cui lei è praticamente il capo supremo. Conversatrice brillante ed esplicita, l’autrice indossa un tubino bianco e nero senza maniche su scarpe tacco dodici. I capelli neri sono pettinati a caschetto ed è nota una sua forte somiglianza con l’attrice Patricia Neal, quando era giovane. Il libro uscirà contemporaneamente in venti paesi («Non in quelli islamici», precisa Sandberg. «È un libro adatto a situazioni in cui i diritti di base delle donne sono già stati conquistati. Ma non dove non si può votare o non si può guidare l’automobile»).
La mia prima domanda in privato è sull’impatto che pensa di ottenere con il suo libro.
Intende creare un movimento?
«La premessa è questa: le donne sono molto — moltissimo — escluse dalle posizioni di potere aziendale e io voglio fare qualcosa perché questo finisca. Non penso che l’impatto possa avvenire con soluzioni individuali; piuttosto sarà dovuto a tutte le donne che sono venute prima di me e alle donne e gli uomini che faranno dei cambiamenti reali nelle loro vite. Io cerco di aumentare il dialogo e di cambiare obiettivo del dibattito sulle donne. Basta discutere su quello che le donne non possono fare. Parliamo invece di quello che possono fare».
Come spiega la discriminazione attuale?
«Le donne hanno sicuramente conquistato molto, i diritti di base, quelli ottenuti dalle nostre madri. Ma poi si sono adattate. Non abbiamo più osato. In futuro, quando gli storici guarderanno gli ultimi vent’anni, si chiederanno: come mai la marcia si è fermata? E non sapranno dare una spiegazione. Persino il salario-orario minimo per le donne è aumentato di pochissimo. Nei consigli di amministrazione, come alla guida dei governi, il numero di donne è ridicolo. Ma quello che è più grave è che le donne hanno perso la voglia di arrivare in cima».
Lei sostiene che la radice è culturale…
«Sì, gli esempi sono infiniti. Una donna che ha una buona carriera viene definitiva “troppo aggressiva”, o “troppo ambiziosa” mentre di un uomo questo non si dice. Le donne sono indotte a rinunciare ai posti
migliori perché devono tornare a casa ad accudire i figli. (A proposito: sarebbe bene che le aziende mettessero a disposizione delle donne incinte i parcheggi più vicini all’entrata, tanto per cominciare). Alle elementari i bambini maschi dicono “voglio diventare presidente”, le bambine lo dicono assai meno. I giochi elettronici stessi sono concepiti per una visione maschile del potere. Ancora? Nella fase di documentazione per il libro abbiamo cercato un film con una protagonista femminile che comandi e che abbia una normale vita familiare. Ebbene, non lo abbiamo trovato. Ho una figlia piccola che ha un amichetto. Un giorno era triste perché tutti e due vogliono fare gli astronauti e però si vogliono anche sposare, e quindi lei ha dovuto rinunciare. “Perché proprio tu?” le ho chiesto. E lei mi ha detto: “Qualcuno deve stare a casa con i bambini, e mi sa che quella sono io”. Io credo che occorra riaprire il discorso su tutto ciò… A partire dal linguaggio. Se una donna comanda, è
bossy,
prepotente. Se a comandare è un uomo, è un
leader.
Non va bene».
Effettivamente dico sempre a mia moglie che tende a essere un po’
bossy
quando siamo in cucina…
«Lei si sbaglia, e farebbe bene a cambiare linguaggio. Sua moglie è
leader
in cucina. Gli uomini dovranno abituarsi a tante cose; per esempio al fatto che le mogli guadagnino più dei mariti. Negli Stati Uniti succede nel trenta per cento delle famiglie, in Italia è già il diciotto. Dovranno abituarsi a una diversa divisione dei compiti. Curiosamente, oggi il tipo di famiglia che ha la più giusta ripartizione delle mansioni famigliari, soprattutto per quanto riguarda i figli, è la famiglia omosessuale, sia quella formata da due maschi, sia quella formata da due femmine. Nella famiglia tradizionale invece la donna lavora molto più dell’uomo».
Lei a che ora esce dall’ufficio?
(Ride).
«Alle 17,30. In effetti quando l’ho detto in un’intervista, non mi aspettavo di creare uno sconquasso, e invece sulla Rete se ne è discusso per settimane. “Sandberg fa bene o fa male a uscire alle 17,30?”, “Che coraggio! Se ne va alle 17,30!” Io esco alle 17,30 perché voglio andare a casa e stare un po’ con i miei figli; e non credo che la politica de-
gli straordinari obbligatori (specie se applicata alla donne) sia saggia. Penso che le persone dovrebbero essere pagate per la qualità del lavoro, non per la quantità. Peraltro lo diceva anche Colin Powell, che era il nostro segretario di Stato».
Lei ha esperienza di comando e di gestione sia nel pubblico che nel privato. La leadership femminile a che cosa porta?
«Oh, su questo abbiamo parecchi dati. In generale si può davvero dire:
women do it better,
le donne lo sanno fare meglio. I programmi gestiti da donne funzionano meglio, sia in termini di risultati che di tempo per raggiungerli. Le donne nei posti di comando ottengono migliori condizioni di flessibilità sul lavoro. Vengono assunte e valorizzate più donne nel management intermedio e infine, in generale, diminuisce il gap salariale tra uomo e donna. Tutto questo, secondo me, non solo è molto buono per le donne, ma è molto buono per le aziende. Aziende che, peraltro, conoscono già il potere delle donne come consumatrici. Per esempio, già oggi il parere delle donne è determinante nella scelta dell’acquisto di una certa automobile o di un certo computer. Le donne hanno un grande potere sugli strumenti che vengono prodotti e su come questi possono essere usati. Altro esempio: le donne, che sono la maggioranza degli utenti di Facebook, lo usano in maniera differente dagli uomini».
Con il suo libro, lei, esattamente, che cosa vuole ottenere?
«Lo scopo è di provocare un’azione, sì, un movimento. Su due fronti: il primo è il recupero dell’autostima delle donne, della loro ambizione, che le porti a non rinunciare in partenza a ottenere dei ruoli di comando. Il secondo è il cambiamento dell’establishment aziendale. Quando Mark mi assunse (Mark Zuckerberg, il capo di Facebook
ndr),
glielo dissi chiaramente: “Tu lo sai che stai accettando una sfida, vero? Tu lo sai che molta gente non gradirà affatto, vero?”. E anche adesso sono sicura che l’iniziativa di
Lean in
provocherà delle resistenze. Ma cosa possono fare? Non possono mica spararci…».
“Farsi avanti” diventerà una parola d’ordine, un nuovo sindacato?
«Per adesso diventa una fondazione, contattabile all’indirizzo
press@leanin.org.
Immagino proprio che i social network le daranno una grande spinta. Lo scopo è di raccogliere dati, storie e condividere esperienze utili all’avanzamento delle donne. Non solo storie aziendali. Le prime che diffonderemo saranno storie di donne che ce l’hanno fatta, come Ursula Burns, amministratore delegato di Xerox, nata in una casa popolare con tre svantaggi: “nera, povera e bambina”. O storie di coraggio: una donna ventenne che ha avuto il coraggio di far arrestare il suo stupratore. Poi storie di vertenze concluse bene; esempi di successo: vogliamo dare strumenti, notizie utili alle donne per negoziare meglio la propria posizione e per vincere. Questo vale sia sul posto di lavoro che in casa. L’anno scorso ho tenuto una conferenza su questi temi alla Ted University: ebbe un successo straordinario. E forse la cosa che mi fece più piacere fu la mail di una dottoressa di Boston cui avevano offerto una bella opportunità di lavoro ed era indecisa, per via dei bambini. Mi scrisse che l’avevo convinta, aveva accettato e aveva scritto una lista della spesa per il marito: le cose che d’ora in poi avrebbe dovuto fare lui».
Lei si definisce una femminista?
«Adesso sì, e con orgoglio. Ma se me lo avessero chiesto vent’anni fa avrei detto di no, come credo molte altre giovani donne americane che godevano dei diritti conquistati, ma allo stesso tempo non volevano essere etichettate con lo stereotipo della donna arrabbiata che brucia il reggiseno. Credo di non essere stata abbastanza coraggiosa. Credo anche però che quindici anni di osservazione della realtà del lavoro mi abbiano reso consapevole della verità del femminismo tradizionale: le donne non godono di una reale uguaglianza, e non godono di reali pari opportunità».
Sono ormai passati venti giorni dalla presentazione di
Lean in,
l’embargo è stato rispettato, ma il “caso Sheryl Sandberg” è già scoppiato. Il dibattito sul femminismo ha ricevuto una improvvisa fiammata. La signora Sandberg è al centro dell’attenzione, e così i suoi progetti. È indicata alternativamente come la nuova Betty Friedan o come una Paris Hilton che gioca sulla pelle delle donne per la sua personale carriera. Credo che, per una volta, il merito del successo mediatico del libro sia da dividere, perlomeno a metà, tra l’ufficio stampa e il contenuto. Il nervo era sensibile: una donna, un libretto e un social network l’hanno toccato, provocando un grande urlo.