Carlo Vulpio, la Lettura (Corriere della Sera) 10/03/2013, 10 marzo 2013
SE LA MAGGIORE ETA’ DIVENTO’ MINORE
Quell’anno, il 1975, a giugno si sarebbe andati a votare per le regionali. Erano elezioni importanti, sentite, c’era aria di sorpasso del Pci sulla Dc (che alla fine ottennero rispettivamente il 32,4 e il 35,2%) e i giovani che avrebbero votato per la prima volta — così si sperava, o si temeva — avrebbero fatto la differenza. E infatti, le successive analisi dei flussi elettorali confermarono la scossa provocata dall’irruzione del voto giovanile nelle urne.
Fino ad allora, i giovani che avevano diritto di voto dovevano aver compiuto i 21 anni nel primo giorno della consultazione elettorale. Nel ’75, dal 10 marzo, quei giovani diventarono improvvisamente molti di più per l’entrata in vigore della legge numero 39, approvata due giorni prima e intitolata «Attribuzione della maggiore età ai cittadini che hanno compiuto il diciottesimo anno e modificazione di altre norme relative alla capacità di agire e al diritto di elettorato». La legge era firmata dal presidente del Consiglio, Aldo Moro (che guidava il governo per la quarta volta), dai ministri dell’Interno e della Giustizia, Luigi Gui e Oronzo Reale, ed era controfirmata dal presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Ma soprattutto, a riprova dell’urgenza con cui il tema dell’abbassamento della soglia della maggiore età era avvertito dai partiti e nella società, e di quanto questa urgenza fosse legata prima di tutto alla partecipazione alla vita politica, la legge — stabiliva l’ultimo articolo — «entra in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica».
Erano passati 11 anni dal 1964, quando la minorenne — 16 anni — Gigliola Cinquetti trionfava a Sanremo con Non ho l’età (per amarti). Ma era come se ne fossero trascorsi cinquanta. Anche perché in quel 1975 sovraffollato di avvenimenti importanti e a volte tragici — come l’assassinio di Pier Paolo Pasolini a Ostia per mano del diciassettenne, e quindi minorenne, Pino Pelosi — non ci si accontentava più di discutere di «età del consenso», e cioè dell’età in cui un individuo è considerato capace di dare il proprio consenso informato soprattutto in materia di rapporti sessuali, ma si chiedeva di ridiscutere proprio il limite della «maggiore età», concetto giuridicamente altro rispetto al primo, nonostante il nostro ordinamento riconoscesse già la potestà genitoriale ai minori di 16 anni, ai minori non emancipati che riconoscessero i figli e a quelli che sposandosi si emancipavano (acquisendo quindi la capacità di agire, sebbene con alcuni limiti). D’un colpo, anche Non ho l’età — e la sua invocazione: «Lascia che viva un amore romantico/nell’attesa che venga quel giorno… se tu vorrai aspettarmi/quel giorno avrai/tutto il mio amore per te» — diventò storia antica.
Adesso la questione non era più aspettare quel giorno per vivere la propria prima volta e soprattutto non era più impostata con un se (se fossi maggiorenne… ) ma con un quando. Quando diventerò maggiorenne — sottinteso: fra qualche mese, qualche settimana, ormai ci siamo, la legge sta per essere promulgata — farò ciò che voglio. Me ne andrò via di casa. Potrò votare. O anche non votare. Prenderò la patente. Potrò persino andare al cinema a vedere i film «vietati ai minori degli anni 18». Insomma, farò finalmente come mi pare, senza chiedere il permesso a nessuno, perché a 18 anni avrò la piena capacità di agire.
Fu un salto triplo, e non solo perché per diventare maggiorenni si tagliarono tre anni al limite d’età precedente, ma perché il balzo in avanti compiuto con la modifica dell’articolo 2 del codice civile (per effetto appunto della legge 39) cambiò radicalmente i «rapporti di forza» tra i giovani (neomaggiorenni e non) e il mondo adulto, famiglie comprese. Non poteva essere altrimenti, in quel 1975, che non fu soltanto un anno della sciagurata serie italiana degli anni di piombo, ma anche un anno di grande fervore culturale, culminato con l’attribuzione del premio Nobel agli italiani Renato Dulbecco (medicina) ed Eugenio Montale (letteratura), dell’Oscar (il quarto) a Federico Fellini per il film capolavoro Amarcord e del premio al festival di Cannes a Vittorio Gassman come miglior attore di un altro capolavoro, Profumo di donna di Dino Risi (tratto dal romanzo Il buio e il miele di Giovanni Arpino), uscito l’anno prima.
Non desta meraviglia dunque che in un momento così prolifico e per giunta caratterizzato dall’«impegno», i 18 anni fossero visti soprattutto come il traguardo da tagliare per poter votare. Patente e film vietati venivano un attimo dopo. Prima, c’era il diritto di voto. Ma per esercitarlo bisognava aver compiuto 18 anni il 15 giugno ’75, perciò tutti quelli nati dopo ne sarebbero rimasti esclusi. Per dire, poterono votare per la prima volta l’attuale commissario tecnico della nazionale di calcio Cesare Prandelli, il presidente del Torino Urbano Cairo, il presidente del Monte Paschi di Siena Alessandro Profumo, l’attrice Giuliana De Sio, il cantante Enrico Ruggeri, che diventarono improvvisamente maggiorenni. Ma restarono minorenni, almeno dal punto di vista elettorale, alcuni loro coetanei che pure avrebbero avuto un successo non da meno, come il cantante Nino D’Angelo e i calciatori Pietro Paolo Virdis e Antonio Cabrini.
Oggi è probabile che la priorità di un diciottenne non sia più l’esercizio del diritto di voto, ma la possibilità di intestarsi la scheda sim del cellulare, vietata ai minorenni, oppure (se papà ha i soldini) l’apertura di un proprio conto corrente. Di sicuro, se vuole, può non far vedere ai genitori i voti che ha preso a scuola grazie alla legge sulla privacy e a un decreto del 2003 che protegge i dati personali, quindi anche i dati dello studente maggiorenne. Quando queste norme sono state applicate per la prima volta in Italia, dal liceo scientifico «Einstein» di Milano, dove i genitori per conoscere i voti dei figli dovevano passare prima in segreteria a farsi autorizzare, il giurista Stefano Rodotà, già garante della privacy, non ha potuto dir altro che «la fattispecie tecnicamente non fa una grinza». D’altra parte, se l’età per il conseguimento del diploma di maturità fosse portata a 18 anni, come accade nel resto d’Europa e come da ultimo ha proposto il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, il problema della privacy del liceale non si porrebbe.
L’Iran per fortuna resta un traguardo irraggiungibile, con i 9 anni per le femmine e i 15 per i maschi, ma nella generale tendenza che ogni tanto si riaffaccia ad abbassare ulteriormente i limiti della maggiore età (specie per la patente a 16 anni, caldeggiata dall’industria automobilistica), ci sono però anche delle crepe, o meglio dei processi inversi, che in alcuni casi hanno portato a innalzare un limite d’età considerato troppo basso. Come è avvenuto per esempio per la vendita delle sigarette e dei «botti», che fino a qualche anno fa potevano essere acquistati da chi avesse compiuto 16 anni e che oggi invece, per effetto di una convenzione dell’Organizzazione mondiale della sanità, ratificata anche dall’Italia nel 2008, non possono essere più venduti a chi non ha ancora 18 anni. Grida manzoniane, forse. Resta il fatto che la stessa cosa è avvenuta per il concorso di bellezza Miss Italia, un’altra manifestazione non meno popolare del festival di Sanremo e altrettanto rivelatrice del costume italiano. Le ultime Miss minorenni sono state Martina Colombari nel 1991 e Daniela Ferolla nel 2001. Dal 2011 possono partecipare al concorso soltanto ragazze maggiorenni.
La scelta più coraggiosa e originale in questo senso l’ha fatta però il comune di Vicenza, che l’anno scorso ha stabilito che l’accesso al parco cittadino «è consentito ai maggiorenni soltanto se accompagnati per mano dai minori».
Carlo Vulpio