Antonio Pascale, la Lettura (Corriere della Sera) 10/03/2013, 10 marzo 2013
I PENTITI DELL’ECOLOGISMO RADICALE
L’ambientalista inglese Mark Lynas è noto alle cronache per aver tirato una torta in faccia a Bjørn Lomborg, autore del saggio L’ambientalista scettico. È noto altresì per aver pubblicato Carbon Counter — un libro che aiuta a calcolare l’emissione di carbonio per singolo abitante. Insomma Mark Lynas è uno determinato, convinto e combattivo. Il 3 gennaio 2013 convoca una conferenza stampa, a Oxford, e pubblicamente si scusa. Soprattutto per aver, negli anni, contribuito a imbastire una campagna violenta e insensata contro le piante ogm, ma anche per altri astratti furori. Di una cosa non si scusa: di essere un ambientalista. Quindi di desiderare ancora per il mondo un cambio di passo, ma in compagnia della scienza.
Tempo addietro, Stewart Brand, l’uomo che da bambino giurò di difendere le risorse naturali del suo Paese, si definì «ambientalista eretico». Le eresie, nello specifico, riguardavano l’uso del nucleare, degli ogm e una costante attenzione e curiosità alle dinamiche delle grandi città: «Una volta — disse Brand — amavo romanticamente i villaggi nei quali si praticava un’agricoltura di sussistenza: ma solo perché non c’ero mai stato». Anche Patrick Moore, cofondatore di Greenpeace, è sulla stessa linea, non per niente L’ambientalista ragionevole è il titolo del suo ultimo libro — in Italia mancano svolte in tal senso, con la sola eccezione di Chicco Testa.
Crisi di mezza età e abbandono delle antiche passioni? No, anzi. Mark Lynas, Stewart Brand, Patrick Moore si sono convinti che la dimensione ecologica senza la disciplina scientifica è poca cosa. Anche perché le associazioni ecologiste sono piene di persone ferrate sul versante umanistico e poco avvezze alla metodologia scientifica, quindi molta retorica e scarse verifiche. Insomma, è ora di passare dal culto dell’ambiente alla cultura dell’ambiente. Dalle opinioni alla scienza. Certo, quando, a partire dagli anni Sessanta, l’ambientalismo ha preso piede, c’era l’esigenza di comunicare temi difficili a un pubblico non avvezzo né attento — complice il boom economico, in pochi si ponevano il problema dell’impronta ecologica — e così si scelse una strategia d’attacco grezza, ma di forte impatto emotivo. Così siamo stati tormentati da cupi presagi: l’esplosione demografica, svariate carestie globali, epidemie di cancro a causa delle sostanza chimiche. E poi le piogge acide, la desertificazione. Un’ansia. Tuttavia, se la sensibilità su alcuni temi è andata crescendo, di contro si è instaurato questo benedetto culto dell’ambiente: la grande e pura madre natura. Ci si mette poco a diventare dei religiosi in questo campo. Prima eravamo tutti felici, poi la modernità ha portato gli uomini sull’orlo dell’abisso, etc. Ma l’avverbio di tempo «prima» ha cominciato a definire un tempo veramente ancestrale: «Eh! Come eravamo felici prima dell’agricoltura». Affermazioni bislacche che piano piano hanno preso piede, soprattutto a sinistra.
Prendiamo l’etimologia del nome Svezia. Deriva da «schweden», termine che nell’antico nordico significa «radura erbosa ottenuta disboscando con fuoco». Svizzera ha la stessa origine. Cioè? Appunto, in questo fatidico prima, prima dell’agricoltura, i nostri amati cacciatori-raccoglitori bruciavano tutto: avevano capito che, dopo un incendio, più facilmente crescevano le insalate — oltre che frumenti vari. Insomma, la verde e sana e rinfrescante insalata deriva dal diboscamento intensivo. Prima — fino a poco tempo fa — eravamo dei piromani e la sensibilità ecologica non c’era. Le pratiche ambientali sono frutto del benessere. Come dire: prima la pancia piena, poi l’ambiente. Quindi, presupponendo un passato ideale, si creano le condizioni per il culto di quel passato, dunque le pratiche e le dinamiche del presente sono percepite come peggiorative
La triste verità? Non esistono reazioni perfette. È una delle prime scoperte — in effetti è una specie di addio all’innocenza — di un qualunque esame di stechiometria (studia i rapporti quantitativi delle sostanze chimiche nelle reazioni): si troveranno sempre delle scorie (in senso lato) da gestire. Eliminarle in nome della purezza è impossibile. Significherebbe eliminare la vita, non solo la nostra specie. E poi si rischia l’immobilismo, il no protratto, quello che fa tanto anima bella. Tuttavia la disciplina scientifica produce misure più precise ed è in grado di raffinare con costanza i suoi strumenti. I nuovi ecologisti alla Mark Lynas questo chiedono: più efficienza e più capacità di gestire le scorie. Dunque: più scienza, più analisi e meno anatemi per superare il vecchio culto dell’ambiente.
È anche una questione epica, in fondo. Se davanti a un uditorio io pronuncio la definizione «energia pulita», noterò i volti degli astanti distendersi in un sorriso. Da quel momento sono al sicuro, interpreto la parte dell’eroe che lotta per un mondo migliore senza scorie. Poi posso dire anche tante altre cose, alcune orribili, tipo «l’Aids non esiste» e cose così, tanto ormai sono l’eroe buono. Se pronuncio la parola «nucleare», avrò la reazione opposta. Divento cattivo. Purtroppo la nostra specie è particolarmente influenzabile e la libertà di cui vantiamo credito è una raffinata forma di suggestione. Il culto dell’ambiente ha fatto passare l’idea che i problemi del mondo si potranno risolvere in modo facile e senza troppe preoccupazioni. Con aggettivi fatati.
In questa ottica analizzare significa rompere il patto narrativo tra il pubblico e l’eroe pulito. Per esempio, prendiamo gli impianti di conversione. Capacità di 500/800 megawatt sono la norma per i turbogeneratori a carbone (quelli a gas si aggirano tra i 200 e 300 megawatt). Il più grande impianto fotovoltaico, oltre un milione di pannelli, ha una capacità di picco di 80 megawatt (il sole non c’è sempre e il carico di base diventa un problema). Questi aspetti tecnici e analitici vengono sempre ignorati; anzi se, come ambasciatore, te ne fai portavoce (ma non perché sei contro il solare), perdi appunto il tuo abito eroico. Allora, ti chiedono, sei per il nucleare? Se rispondi (è solo una simulazione, non una dichiarazione di appartenenza): le centrali di IV generazione riusciranno a bruciare non lo 0,7% ma il 70% del materiale fissile — oltre all’uranio 235 anche l’altro isotopo, il 238 (poche scorie, tanta, infinita, energia), se lo fai, peggiori solo la tua situazione. È un problema. Perché è indubbio, nel futuro — e vista la complessità demografica — dovremmo collaborare per il bene comune e usare tutti gli strumenti a nostra disposizione.
Ma con questo culto dell’ambiente non andremo lontano: tante illusioni, poca concretezza. C’è da sperare che le nuove generazioni siano più coraggiose, cambino forma comunicativa e si prendano la briga di inserire nella narrazione il metodo scientifico, cioè l’analisi, le correlazioni, le valutazioni caso per caso. L’eroe cambierà tono. Non dirà più «o questo o quello», o buoni o cattivi, sarà meno puro, più complesso, più pacato, più riflessivo, più umile: più scientifico e dunque più sostenibile.
Antonio Pascale