Edoardo Boncinelli, la Lettura (Corriere della Sera) 10/02/2013, 10 febbraio 2013
C’E’ VITA NELLA SPAZZATURA
Da tempo abbiamo appreso due cose sorprendenti ma inoppugnabili sul nostro genoma: possediamo più Dna di quanto ci sembra necessario, così che qualcuno ha potuto parlare in passato di Dna in eccesso o «Junk Dna», cioè «Dna spazzatura», e inoltre l’Rna, il cugino minore del Dna, è sempre più importante per la fisiologia della cellula, cioè in definitiva del nostro corpo. Nella considerazione di questo problema esistono almeno due aspetti, uno qualitativo e uno quantitativo. Su quello qualitativo non ci sono dubbi: molta parte del nostro Dna totale è tirato in ballo dalla cellula in una maniera o nell’altra. I dubbi possono sorgere sul piano quantitativo: quanta parte del nostro Dna è così effettivamente tirato in ballo? 10, 30, 70 o 100 per cento?
Consideriamo il primo aspetto del problema, biologicamente più interessante, che si riassume dicendo che l’Rna sembra fare sempre più cose nella cellula e che anche la parte del Dna che sembrava non utilizzata viene copiata in molecole di Rna che hanno diverse funzioni.
Il nostro patrimonio genetico è costituito da molecole di Dna, che se ne stanno ben protette all’interno del nucleo delle cellule. Perché il suo messaggio esca però dal nucleo e venga recepito e realizzato dalla cellula, occorre l’intervento di un altro acido nucleico, l’Rna. Questo lo sappiamo da decenni. Quando una particolare regione del Dna deve attivarsi per produrre la proteina che specifica, occorre per prima cosa che se ne faccia una «copia conforme» costituita di Rna, chiamato Rna messaggero. Si dice che quel tratto di Dna viene «trascritto» per dare quel messaggio. Si chiama «trascrizione», infatti, l’operazione di copiatura del messaggio portato dal Dna in una molecola di Rna. Questo Rna messaggero esce dal nucleo, va nel citoplasma, si adagia su una successione di ribosomi in fila e lì ottiene che il suo messaggio venga «tradotto» in una proteina. Si chiama «traduzione» la sintesi di una specifica proteina come realizzazione finale di un particolare messaggio genetico.
Da tempo non ci si sapeva spiegare perché il ruolo dell’Rna, più fragile ma più duttile del Dna, fosse così limitato, considerando soprattutto che molti ritengono che sia esistito in un lontano passato un «mondo a Rna», nel quale la maggior parte delle operazioni genetiche, compresa la stessa codificazione del patrimonio genetico, era opera dell’Rna in congiunzione con alcune proteine. Negli ultimi trent’anni è apparso sempre più chiaro che il ruolo dell’Rna non è confinato al semplice schema riportato sopra. L’Rna sembra anzi farne di tutti i colori, per regolare in ogni particolare l’attività dei diversi geni, tanto a livello trascrizionale, che post- trascrizionale e traduzionale. Ciò non appare solo dalle ricerche del consorzio internazionale Encode, ma anche dal lavoro di molti altri gruppi attivi nel mondo, e per fortuna anche in Italia.
Il primo punto chiaro è che buona parte del genoma, un’elica del Dna come l’altra, appare trascritta in lunghe molecole di Rna. Gli Rna messaggeri che codificano le loro rispettive proteine appartengono ovviamente a tale categoria, ma esiste anche una moltitudine di molecole di Rna che non sono in grado di codificare proteine e che sono perciò dette non-codificanti. Tra quelle che raggiungono una certa stabilità, si usa distinguere quelle di lunghezza inferiore a 200 nucleotidi, detti piccoli Rna non codificanti e quelle di lunghezza superiore, detti grandi Rna non codificanti, che esplicano ruoli parzialmente diversi.
I grandi Rna non codificanti sono trascritti, provenendo da diverse regioni del genoma, sia sull’elica di Dna su cui si trova il gene in questione, elica di solito detta «elica senso», che sull’altra, di solito detta «elica antisenso», e possono comprendere tratti molto vasti di Dna. Le loro funzioni sono svariate e spaziano dal controllo della vita media e della traducibilità dell’Rna messaggero in questione, al controllo della trascrizione del tratto di Dna dove risiede il gene stesso. Questo tipo di controllo può essere a sua volta esercitato attraverso meccanismi detti epigenetici, che tengano cioè conto di quanto è successo un momento prima nella cellula e ne conservino la memoria. Senza alterare la sequenza del tratto di Dna in questione, ne può promuovere o bloccare la trascrizione, attraverso un certo numero di modificazioni del cromosoma, che possono andare dalla modificazione del Dna alla modificazione chimica delle proteine che avvolgono il Dna stesso e che costituiscono insieme a esso la cosiddetta cromatina. I complessi proteici che realizzano queste modificazioni hanno bisogno di essere guidati con precisione verso i tratti di Dna in questione e sembra che in questo possano essere aiutati da appositi grandi Rna non codificanti.
Più variegato, ma anche più avanzato, è il quadro dei piccoli Rna non codificanti, fra i quali spiccano i cosiddetti microRna (miRna), lunghi solo 21-23 nucleotidi, che hanno la funzione di regolare la stabilità e la traducibilità degli Rna messaggeri sui quali agiscono appaiandovisi. Questa costituisce probabilmente la più grande novità degli ultimi vent’anni e sta suggerendo un’enorme mole di esperimenti. Questi piccoli Rna fanno a loro volta parte di trascritti molto più lunghi, che vengono poi tagliati e rielaborati: le parti corrispondenti ai microRna vengono conservate e sopravvivono, mentre tutto il resto viene frammentato e metabolizzato. L’azione dei microRna avviene dopo l’appaiamento di questi con sequenze specifiche presenti sull’Rna da regolare, e che costituiscono il vero bersaglio dei diversi microRna. Solo piccole regioni di questi grandi trascritti sono quindi attive nel controllare gli Rna che daranno luogo a messaggeri veri e propri e quindi alle proteine finali.
È abbastanza evidente che, accanto ai geni veri e propri che codificano proteine, devono esistere nel genoma molti altri quasi-geni che codificano i diversi Rna non codificanti proteine. Inoltre il numero di tali quasi-geni sembra più alto nella nostra specie che in altre, abbastanza alto in verità da giustificare la nostra complessità paragonata a quella di altri organismi.
Quello che è certo è che bisogna smettere di immaginare il genoma come pieno di materiale inutile e prepararsi a ripensare dalle fondamenta il concetto di gene. Il nostro patrimonio genetico, infatti, brulica di geni, se solo li si sa vedere. È noto da tempo che solo un 2 per cento del nostro Dna specifica direttamente la struttura delle proteine e quindi se chiamiamo gene quel tratto di Dna che specifica la sequenza di una determinata proteina, solo il 2 per cento del Dna contiene geni.
E tutto il resto del Dna del nostro genoma che cosa ci sta a fare? C’è da considerare inoltre che il Progetto Genoma ne ha contati solo 24 mila di tali geni nell’uomo, un numero piuttosto basso, paragonabile a quello posseduto da un moscerino o da una piccola piantina. Se si considera poi che molti geni si assomigliano considerevolmente in molte specie, non si capisce bene quale sia la nostra peculiarità, e in che cosa ci distinguiamo da una scimmia, ma anche da un lupo. È noto, per esempio, che i nostri geni sono simili al 98,6 per cento a quelli di uno scimpanzé, che pure è abbastanza diverso da noi. C’è quindi qualcosa che non va.
Una maniera per uscire da queste difficoltà è quella di pensare che la natura delle proteine di cui siamo fatti non sia tutto, e risulti al contrario di gran lunga più importante il modo con il quale queste sono combinate tra di loro. Possiamo pensare le diverse proteine un po’ come i diversi mattoncini del Lego, che sono sempre fondamentalmente gli stessi, ma con i quali si può costruire una casetta, una cattedrale o un autocarro. Se è così, allora non contano tanto il numero e la struttura delle proteine, ma come vengono accostate e giustapposte. Non sono quindi solo i geni direttamente codificanti proteine che contano, ma il modo con il quale quelli vengono accesi o spenti e più in generale fatti agire. Ebbene, emerge ora che il Dna in eccesso è la sede di una frenetica attività, tutta finalizzata, direttamente o indirettamente, a controllare le proteine del corpo.
Ciascuno dei passi che portano alla produzione delle diverse proteine deve essere infatti finemente controllato ed è controllato in maniera piuttosto complessa ma ferrea proprio dal Dna che si riteneva inutile! La verità è che il Dna di buona parte del genoma viene trascritto, cioè copiato in molecole di Rna più o meno lunghe e sono proprio queste molecole che, anche se non sono direttamente tradotte in proteine, ne controllano la sintesi finale. Come dire che nel genoma ci sono numerosissimi geni dei quali prima non ci eravamo accorti. Se chiamiamo geni soltanto i tratti di Dna che specificano direttamente la sequenza di una determinata proteina, questi non sono più di una ventina di migliaia, ma se chiamiamo geni tutti i tratti di Dna che sono trascritti in altrettante molecole di Rna e che cooperano al controllo della sintesi delle diverse proteine, questi sono tanti di più, un numero che ancora non conosciamo in tutta la sua estensione. Queste molecole di Rna fanno tutti i mestieri possibili: controllano la trascrizione degli Rna messaggeri, ne determinano la sopravvivenza e perfino l’efficienza della traduzione finale in proteine funzionanti.
Il problema che si pone ora riguarda quanto del Dna totale serve veramente alla cellula, contribuendo a modellare il corpo di un organismo e si presta così a essere un bersaglio della selezione naturale. Calcoli evolutivi piuttosto complessi dicono che solo il 10 per cento del genoma è oggetto di questo processo di selezione. Se questo è vero, come spiegare le affermazioni che vogliono che quasi tutto il Dna del genoma sia effettivamente trascritto e quindi verosimilmente funzionale? Trattandosi di una scienza sperimentale, la risposta più giusta sembra essere: «Vedremo». Ma possiamo già farci un’idea di come tratti di Dna trascritti possono non essere critici nella formazione dell’individuo e quindi «funzionali» nel vero senso della parola. Basta che le sequenze significative, e quindi intoccabili, siano un po’ qui e un po’ là, come i microRna, mischiate con lunghe sequenze che fanno solo da «ponte» o da «riempitivo» fra quelle che contano veramente. A me sembra onestamente che siamo di fronte a un problema abbastanza semplice, ma nella scienza «mai dire mai».
Edoardo Boncinelli