Telmo Pievani, la Lettura (Corriere della Sera) 10/03/2013, 10 marzo 2013
MA E’ PIU’ GRANDE IL GENOMA DELLA CIPOLLA DI QUELLO DELL’UOMO
Il «Dna spazzatura» aveva appena compiuto quarant’anni, essendo stato così battezzato dal genetista Susumu Ohno nel 1972. Era il periodo in cui si scopriva che ampie porzioni del patrimonio genetico sembravano «neutrali», cioè indifferenti all’azione della selezione naturale. Il «Junk Dna» fu definito da Ohno come un qualsiasi segmento di genoma che non ha un’utilità immediata, ma che potrebbe occasionalmente acquisire una qualche funzione in futuro, come quando accumuliamo i ferrivecchi in garage con la vaga speranza di poterli un giorno, chissà, riciclare.
Il Dna spazzatura parve a molti come il vero dominatore statistico del genoma, rimasuglio di esperimenti falliti della natura, trattenuto nell’evoluzione perché i processi molecolari che generano Dna extra, notò Sydney Brenner, sovrastano quelli che lo ripuliscono e lo riducono. Finché non dà fastidio, la selezione naturale lo tollera. Il concetto e l’annessa metafora ebbero un enorme successo. François Jacob descrisse l’evoluzione del genoma come un bricolage di parti riciclate e riutilizzate per nuove funzioni.
Quando poi, nei primi anni del nuovo millennio, si scoprì, con il progetto Genoma Umano, che soltanto una piccola percentuale del patrimonio ereditario è costituito da geni che codificano proteine (non più di 25 mila geni per la specie umana, cifra di vari ordini di grandezza inferiore a quanto era stato previsto considerando la nostra complessità biologica) il «Junk Dna» ebbe il suo trionfo. Si concluse che il genoma umano era ridondante, pieno di materiale di risulta e di rumore di fondo. I minuscoli frammenti di Dna che codificano proteine galleggiano come zattere in un vasto oceano genetico privo di senso.
Ma uno sguardo più attento e più sistematico ha in questi anni rovesciato la prospettiva. Secondo il consorzio internazionale che sta scrivendo l’«Enciclopedia degli elementi del Dna» (Encode), è vero che meno del 2 per cento del genoma è costituito da geni che codificano proteine, ma una porzione più consistente (tra il 9 e il 18 per cento) potrebbe essere legata a funzioni di regolazione. Ecco perché i primi sono così pochi: ciò che conta sono le loro relazioni e regolazioni. Nel Dna spazzatura forse si nascondono tesori, in particolare le sequenze che trascrivono le tante forme di Rna implicate nell’intricata trama delle regolazioni geniche. È in questo groviglio di prodotti genici che si annidano le cause di molte malattie, e soprattutto le dinamiche di trasformazione tumorale. Dunque la posta in gioco è molto alta.
Dopo i primi risultati pubblicati nel 2007, le centinaia di scienziati di Encode hanno continuato il loro lavoro, giungendo nel settembre 2012 a una conclusione ancor più radicale: addirittura l’80 per cento del genoma risulta trascritto in Rna e dunque, si suppone, funzionale. Il messaggio è chiaro: l’apparenza di inutilità era dovuta alla nostra ignoranza circa la complessità del codice genetico. È tipico della scienza: grazie a nuovi studi ci rendiamo conto di quanto non sapevamo. Il «Junk Dna» è un concetto fuorviante, meglio archiviarlo dopo quarant’anni di onorata carriera.
Nel genoma c’è dunque un linguaggio nascosto che non avevamo visto? Posta così, la domanda ha attratto i sostenitori dell’Intelligent Design, la dottrina neocreazionista americana, che infatti hanno festeggiato la notizia. Naturalmente è un’inferenza del tutto impropria, visto che la funzionalità di un sistema non implica affatto che sia stato intenzionalmente «progettato» per un fine da qualcuno.
I risultati di Encode non sono invece piaciuti per niente ad altri biologi, che in un articolo apparso alcuni giorni fa su «Genome Biology and Evolution» hanno attaccato duramente il progetto. «Le loro statistiche sono orribili, è il lavoro di un gruppo di tecnici male addestrati», ha sentenziato senza mezzi termini il primo firmatario, Dan Graur, biologo molecolare alla Houston University.
Avere un’attività biologica (essere trascritto) non significa necessariamente avere una funzione, secondo i dissenzienti. Le stime sono imprecise e l’intero lavoro sembra «un vangelo senza evoluzione», perché non avanza ipotesi su come quelle parti non codificanti, ma trascritte, possano essersi conservate nell’evoluzione. Ma l’accusa è anche di politica della ricerca: è sbagliato investire tutti questi soldi in progetti di «Big Science» se non si è poi in grado di interpretare l’enorme massa di informazioni, trasformandola in modelli di spiegazione attendibili. Il dato grezzo dei bioinformatici va tradotto in conoscenza.
Tutto sommato, la notizia riguardante la morte del «Junk Dna» potrebbe essere alquanto esagerata, o se non altro prematura. Come spiegare, altrimenti, il fatto che la cipolla ha un genoma cinque volte più grande di quello di un essere umano? Difficile ammettere che la pur dignitosa cipolla sia cinque volte più complessa di noi. Il tema della ridondanza era già ben presente in Darwin, secondo il quale non tutto in natura deve essere utile: la selezione fa i conti con molte strutture in eccesso che non hanno alcuna funzione, come gli organi vestigiali e le correlazioni di crescita. Ma «l’impronta dell’inutilità», come la definì Darwin nell’Origine delle specie, solleva ancora avvincenti controversie scientifiche. I genetisti di Encode potrebbero essere vittime dell’umana propensione a vedere schemi pieni di significato in un mare di dati casuali. Oppure, come pensano i più, hanno scoperto che almeno una parte del Dna spazzatura custodiva in realtà funzioni finora sconosciute.
Come ha scritto il coordinatore di Encode a Cambridge, Ewan Birney, «quello a cui somiglia il genoma è un’autentica giungla, una foresta fitta, una muraglia di elementi attraverso la quale bisogna aprirsi il passaggio»: dal «Junk Dna» al «Jungle Dna». E allora per farsi strada nella giungla non resta che continuare la ricerca, finanziando sia quella «Big» sia quella «Small».
Telmo Pievani