Simon Schama, il Venerdì 8/3/2013, 8 marzo 2013
CRUDELE O CALUNNIATO? RICCARDO III È TORNATO (IN OSSA E OSSA)
Un re – con una spalla più alta dell’altra (incubo di ogni armaiolo) e con la corona d’oro sull’elmo – si sta battendo per la sua vita e per il suo trono. Quando la sua avanguardia procede a fatica su un terreno acquitrinoso, vedendo improvvisamente assottigliarsi le probabilità di una vittoria che avrebbe dovuto essere ormai alla sua portata, compie una mossa da vero giocatore d’azzardo: con una lunga colonna alle spalle dei cavalieri a lui più fidati, lancia un attacco frontale al nemico. Vuole aprirsi un varco a forza, raggiungere il suo avversario e ucciderlo. Il terreno molle lo lascia senza cavallo, ma lui si apre la strada tra i corpi roteando un’ascia da battaglia. Raggiunge il portabandiera nemico, lo abbatte. Di sicuro il gallese, il Tudor che aspira alla sua corona, non può essere troppo distante. Un altro fendente con l’ascia e un altro cavaliere, molto più grosso rispetto alla sua esile corporatura, si abbatte al suolo nel fragore metallico della sua armatura.
Adesso che Riccardo è a pochi metri dalla sua preda, all’improvviso tutto volge al peggio. Un presunto alleato, rimasto in disparte di riserva con i suoi uomini, si è accorto che forse le sorti di quel giorno sono mutate, si è lanciato nella lotta a fianco del nemico, e ha attaccato la sua retroguardia. I suoi uomini vestiti di cremisi si gettano anche loro nella mischia. Tutti – tutti gli uomini che gemono e incespicano e menano fendenti sul terreno molle – si rendono conto che quello è l’inizio della fine. Altre file di uomini incalzano e si accalcano intorno al re, dal cui elmo è caduta – segno infausto – la corona. Sfidando tutti e tutto, il re mena fendenti e combatte in modo convulso. È travolto. Un’alabarda si abbatte su di lui. Gli spacca l’elmo e il cranio. Il re cade, si accascia, è finita. Quando il capo di un esercito perde la vita, è sempre finito tutto per le migliaia di uomini – cavalieri e individui rotti alle armi, arcieri e artiglieri (nella battaglia di Bosworth ci furono sia cannoni sia archibugi) – che non combattono per un ideale o per un Paese, ma per la persona stessa del re che, per un motivo che non indagano e non sanno spiegare, è l’Inghilterra.
Le cronache della fine del XV secolo e dell’inizio del XVI ci hanno riferito tutto ciò, ma quei resoconti furono scritti o dai vincitori o per compiacerli. Adesso, invece, possediamo la storia di Riccardo III scritta nelle sue stesse ossa: un referto forense. Adesso sappiamo non soltanto dello squarcio profondo nel cranio nel punto in cui l’alabarda penetrò attraverso il suo elmo, ma anche dei segni lasciati dagli oltraggi e dalle mutilazioni inferte al suo cadavere. È sempre stato noto che il nuovo re, Enrico Tudor, fece esporre il corpo di Riccardo per due o tre giorni (le fonti divergono) nell’Abbazia di Greyfriars, dove fu deposto (forse mezzo nudo, come riferisce una cronaca) con la parte inferiore del corpo a malapena coperta da «un misero straccio nero», suprema umiliazione per un re che era apparso in abiti da sovrano. Ma lo scheletro evidenzia segni di ferite inferte con stoccate profonde nella natica destra, altro bersaglio mortificante, e, cosa ancor più inspiegabile, è privo di entrambi i piedi. Ancor più drammatico è però il fatto che la spina dorsale appare ricurva come la lama di una falce: è il segno della scoliosi che si sarebbe presentata nel principe Riccardo già in tenera età, sollevandogli una spalla più dell’altra, tanto da farlo deridere dai suoi nemici per la sua deformità, sia da vivo sia da morto.
Tommaso Moro, la cui biografia incompiuta è la prima avvincente opera di narrativa storica, più un romanzo che una storia vera, e Shakespeare, che si ispirò a Moro, furono forse imprecisi nel fare di Riccardo un mostro, e non v’è segno alcuno di quel «braccio avvizzito» al centro di una delle scene più drammatiche e fantasiose di Moro. Le ossa però ci dicono che ebbero ragione entrambi a ritrarre Riccardo III come un essere deforme, e fu in linea con la loro epoca immaginare quale effetto quella deformità avesse potuto sortire sulla coscienza di sé di un nobile impregnato di letteratura cavalleresca sulla perfezione virile, e su quei molti che lo temettero e lo odiarono. Lo scheletro di Riccardo – le uniche spoglie di un sovrano inglese a essere andate disperse dai tempi di re Aroldo, l’ultimo re sassone, che perse la vita combattendo nella battaglia di Hastings nel 1066 – ha arricchito la sua storia di nuove informazioni. Lo ha riportato in vita (macabra soddisfazione per il defunto re) in modo più concreto e tangibile di quanto avrebbero potuto fare semplici resoconti o ritratti. Sembra quasi che quanto più viviamo in un’epoca di tweet effimeri, mode passeggere e scempiaggini mandate in onda sulle vicende quotidiane, tanto più desideriamo intensamente la compagnia dei nostri predecessori. Forse, come disse W. H. Auden, per poter «spezzare il pane con i morti».
Agli storici di mestiere piace immaginare che il desiderio onnipresente e intenso di conoscere il passato sia almeno in parte di origine filosofica: si formulano domande indifferibili e serie, e si formulano per impedire che la follia si ripeta. Ma questo è sempre stato soltanto un aspetto del lavoro dello storico. L’altro è quello essenzialmente prodigioso e paranormale di far rivivere i defunti. Ciò spiega perché milioni di persone amino trascorrere il loro tempo in compagnia di Daniel Day-Lincoln, o avvinti dal feroce mondo del malvivente Thomas Cromwell di Hilary Mantel, o ancora aggrappati agli sconnessi sussurri di Downtwn Abbey. Tutto questo sprizzare sporcizia e sangue per conferire il look giusto a un’epoca è impegnativo, ma in ogni caso inadeguato, se paragonato alla cruda realtà di quelle ossa scolorite, ora sistemate su un drappo di velluto nero a Leicester.
La verità alla quale ci conducono quelle ossa è, tuttavia, fatalmente incompleta, e irrilevante per rivendicare quell’eroismo romantico che, ferite di battaglia a parte, i fan di Riccardo hanno proiettato sui suoi resti. «Mi dispiace, ma non assomiglia proprio a un tiranno» ha detto osservando la ricostruzione del volto del sovrano Philippa Langley, il motore trainante della Richard III Society, che ha finanziato gli scavi e le analisi del Dna sui resti. Non è dato sapere come lei immagina che debba apparire il volto di un tiranno. I fan di re Riccardo dicono che il loro eroe è stato ucciso due volte dai Tudor: una prima volta a Bosworth, e molte altre da lì in poi con gli scritti dei pennivendoli al loro servizio. Quel machiavellico mostro di egocentrismo – «Io sono soltanto me stesso» – portato in vita dalla brillante penna di Shakespeare fu in realtà un protettore dei poveri, un imparziale e onesto dispensatore della giustizia sovrana nel Nord dell’Inghilterra, e un esempio di carità cristiana.
Il fatto che i suoi sostenitori affermino con convinzione – come i fan che si aggrappano ai jeans di una rockstar sessualmente depravata morta da tempo – che re Riccardo fu buono oltre ogni dire, non significa che non esistano validi motivi per credere che egli abbia effettivamente avuto alcune qualità. È tuttavia altrettanto probabile che quelle qualità siano coesistite con una vena di pura crudeltà, con la ferrea determinazione a fare tutto il necessario pur di avere la corona, compreso ricorrere all’usurpazione, all’omicidio per procura, ad arresti sommari e a esecuzioni senza neppure una parvenza di procedimento giudiziario.
Tutto ciò era del resto ritenuto legittimo nell’opera di Machiavelli. Il Principe fu scritto 28 anni dopo la morte di Riccardo, ma gli atteggiamenti indispensabili per installarsi incontrastati al potere – interesse personale e interesse della comunità nazionale coincidevano, erano tutt’uno – non erano cambiati granché. Nel descrivere Cesare Borgia, Machiavelli parla con tono ammirato della sua risolutezza nel «tenersi al sicuro dai nemici, guadagnarsi degli amici, vincere o con la forza o con l’inganno, farsi amare e temere dai popoli, farsi seguire e temere dai soldati, eliminare coloro che avrebbero potuto colpirlo». Tutto ciò di conseguenza non fa di Riccardo III né l’anticristo né un modello da imitare, ma soltanto un principe della sua epoca.
Quella – la seconda metà del XV secolo – fu oltretutto un’epoca quanto mai ambigua. L’antico mondo feudale nel quale il potere era controllato dai grandi latifondisti con propri eserciti che avrebbero potuto o meno schierarsi dalla parte del re, quel mondo ossessionato dall’onore, dal casato, dal lignaggio, era ormai agli sgoccioli. Riccardo fu l’ultimo re inglese a guidare le proprie truppe in battaglia sul suolo patrio, e fu un modello di tutte le qualità che doveva possedere il vero guerriero secondo l’antico libro delle regole cavalleresche. Quel mondo da lì a poco sarebbe stato rimpiazzato dall’embrione dello Stato moderno amministrato da burocrati, strateghi politici, manipolatori dell’immagine come Thomas Cromwell, e soprattutto uomini abili a generare, gestire e salvaguardare i propri guadagni.
A sconfiggere Riccardo fu Enrico VII, famoso per aver amministrato con grande parsimonia le proprie risorse, ma forse bisognerebbe dire un vero spilorcio, visto anche che per la cassa da morto di Riccardo mise a disposizione dieci misere sterline. La sua tomba, invece, è la più splendida dell’Abbazia di Westminster.
Riccardo, però, non fu il cimelio di una cultura politica obsoleta. Fu proprio sotto il regno di suo fratello maggiore Edoardo IV che la burocrazia finanziaria iniziò a essere trasformata in una professione vera e propria. Amministrando il Nord dell’Inghilterra, che come si sa è selvaggio e brumoso, dove i pezzi grossi dell’aristocrazia erano grossi davvero, Riccardo reclutò e si servì di famiglie di elevata estrazione sociale che aspiravano a qualcosa di più – molte avevano fortune personali ormai allo stremo, ma acume affilato come un rasoio – e anche di ricchi di ceto inferiore, che così non si sarebbero fatti strada a colpi di cospirazioni. Fu proprio questo scorcio di futuro, paradossalmente, ad alienargli le simpatie della nobiltà, che alla fine si sarebbe rivoltata contro di lui, compresa la famiglia Stanley che lo tradì sul campo di battaglia di Bosworth Field. (E le sue ultime parole, a proposito, non ebbero nulla a che vedere con i cavalli, ma con quell’inverosimile slealtà, e furono: «Tradimento! Tradimento!».)
C’è però un altro lato di Riccardo e del suo mondo che contribuì tanto a farne quel che fu quanto a portarlo alla rovina: egli fu un signore della guerra politicamente molto astuto, come dicono i libri d’onore, «un chevalier sans peur et sans reproche», «un cavaliere senza macchia e senza paura». Nel fatto di non avere paura Riccardo non ebbe eguali. Ma le macchie l’avrebbero ucciso. Il problema di Riccardo era il famoso sovrano, suo antenato, morto trent’anni prima della sua nascita; l’uomo che Shakespeare trasformò nella quintessenza del cavaliere e del sovrano perfetto: Enrico V. La prematura scomparsa di quel re che incarnava l’ideale in modo incredibile era stata una vera calamità. Le terre francesi annesse grazie alle sue conquiste andarono tutte perdute. La corona inglese divenne lo zimbello delle dinastie feudali. Ed Enrico VI, che ereditò il trono da bambino, crebbe rivelandosi un pazzo che si autoproclamava santo.
Riccardo stesso aveva soltanto nove anni quando suo padre, il duca di York, si ribellò, semplicemente a causa della debolezza del re e del fatto che alcuni nobili interessati lo stavano manipolando. Il duca fu sconfitto e ucciso, e il testimone passò al fratello di Riccardo, Edoardo, che prese la corona con le armi, la perdette, la riconquistò – mentre l’adolescente che oggi sappiamo essere stato palesemente deforme (ma a detta di tutti intrepido) si faceva strada combattendo sui campi di battaglia di tutta l’Inghilterra.
Da dodici anni Riccardo era, per conto del fratello, un meticoloso amministratore del Nord, quantunque famelico requisitore di terre, quando, nel 1483, all’improvviso, Edoardo IV morì, lasciando un altro re bambino di dodici anni come suo successore al trono. Zio Riccardo fu nominato reggente. Ed ecco presentarsi il grande dubbio machiavellico: dopo decenni di guerra civile si doveva lasciare che l’Inghilterra vi ripiombasse e il monarca bambino diventasse vittima degli ambiziosi? O era meglio che un uomo forte facesse tutto il possibile per scongiurare che ciò accadesse? Quello che sarebbe successo sarebbe andato a vantaggio di Riccardo o dell’Inghilterra? Chi avrebbe potuto distinguere? Non lui.
Tuttavia, i mezzi che egli utilizzò creare un centro di potere e lealtà solido come la roccia portarono poi alla rovina. Il tenersi in equilibrio tra paura e amore è sempre precario – basta chiederlo a un qualsiasi politico americano o a Tony Soprano – e, forse per colpa di tutto il caos e i massacri che dovette affrontare, Riccardo fu portato a eccedere sul versante del terrore. Per i suoi nipoti divenne quel genere di Protettore dal quale si ha bisogno di essere protetti. Fu orchestrata una campagna per diffondere la notizia che di fatto i suoi nipoti erano illegittimi, e ciò tolse a Edoardo V, re da cinque mesi e ancora senza corona, il diritto a salire al trono. Lui e il fratello furono rinchiusi nella Torre, un testimone li vide giocare in un cortile, e di loro non si seppe più nulla, finché alla fine del XVII secolo, accanto a una scala che portava a un’area recintata, furono trovati gli scheletri di due ragazzi della loro stessa età. Poi fu stilato l’elenco di tutti coloro che avrebbero potuto ostacolare Riccardo nel suo regno e andavano epurati (Shakespeare fu più o meno accurato al riguardo): i lord vicini alla madre dei ragazzi. Elisabetta; poi Hastings, uno dei suoi sostenitori, che egli sospettava di provare simpatie per il partito della regina madre. Tutti furono mandati sul patibolo, senza neppure una parvenza di procedimento giudiziario. Così persino Buckingham, consigliere personale di Riccardo, fu spinto a una rivolta malamente organizzata.
Tutto ciò non fu molto britannico, o per meglio dire inglese, tenuto conto che i gallesi odiavano Riccardo e gli scozzesi erano in guerra contro di lui. Il parlamento si comportò con vigliaccheria. La Chiesa tremò e si attenne alle direttive, perché Riccardo era sempre pronto a sovvenzionare le fondazioni religiose e a essere il benefattore dei college di Cambridge.
Anche senza i fremiti a ritroso della storia dei Tudor, si ha la netta impressione che tutti coloro che sostennero il re agirono come agirono in una situazione di terrore, di sudore freddo e di disgusto di sé. Lo storico John Rous, che aveva decantato le virtù di Riccardo quando egli era sul trono, fu uno dei più eccentrici creatori della sua demonologia, al punto da scrivere che sua madre lo aveva tenuto in grembo due anni e che egli era nato con i denti e con i capelli lunghi fino alle spalle. Qualcuno si schierò dalla parte dell’usurpatore? Sicuramente il Nord, e York in particolare, e ciò spiega perché la cattedrale vuole che le sue spoglie riposino lì, come molto probabilmente avrebbe voluto egli stesso. Ma il Nord non bastava, e i grandi latifondisti distolsero lo sguardo quando Riccardo si allontanò al galoppo verso Bosworth e il suo ultimo sanguinario grido di vittoria.
Quel piccolo mucchio di ossa ci offre dunque qualcosa di più di una tragedia in abiti d’epoca. Al centro di tutto c’è l’uomo machiavellico che cercò di calarsi con il suo corpo deforme nei panni antichi, e moderni al tempo stesso, di cui sentiva di aver bisogno (e che, secondo i suoi calcoli, erano indispensabili anche per l’Inghilterra): quelli di un signore della guerra e di un politico competente; incarnazione del terrore e della magnanimità. Tutti i Tudor che gli subentrarono provarono le stesse cose. L’unica differenza è che questi ultimi si assicurarono di avere chi si occupasse delle faccende sporche al posto loro, mentre loro si elevavano come monarchi benevoli al di sopra del sangue e delle menzogne. Plus ça change... potrebbe dire Riccardo, mentre sotto il parcheggio delle automobili il suo teschio dalla mandibola allungata sghignazza.
SIMON SCHAMA
Professore di storia e storia dell’arte alla Columbia University di New York. Traduzione di Anna Bissanti
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