Luca Cairoli, il Venerdì 8/3/2013, 8 marzo 2013
BUNDESLIGA LA LEZIONE TEDESCA? È UN CALCIO DI RIGORE
Comunque sia, Joseph Ratzinger tifa Bayern Monaco. Pep Guardiola anche. Già, il Bayern. Il club del presidente Karl-Heinz Rummenigge, ex interista, si è portato a casa l’allenatore più ambito d’Europa quando tutti erano convinti che Pep l’allenatore che ha «inventato» il Barcellona delle meraviglie scegliesse il campionato inglese. Una sorpresa? Fino a un certo punto. La scelta tedesca di Guardiola non è difficile da capire. Il Bayern (113 anni di vita, 22 scudetti, 15 coppe, 4 Champions) è la formazione più laureata di Germania. Chi governa il club, di pallone ne sa, e parecchio: Hoeness, Rummenigge e Sammer, tutti ex calciatori. L’ossatura della squadra è robusta. I campioni non mancano. Vedi Manuel Neuer, Arjen Robben, Frank Ribéry o Mario Gómez. Il vivaio è risorsa importante. Ma soprattutto c’è una situazione economica da far invidia a tutta Europa. Il Bayern Munchen, al giugno 2012, ha registrato un fatturato record di 332,2 milioni. Più 14 per cento rispetto all’anno precedente. Risultato: il Bayern, nella classifica dei club più ricchi del mondo, si piazza subito dietro Real Madrid, Barcellona e Manchester United. Con la piccola differenza che i club spagnoli e i Red Devils inglesi sono pieni di debiti mentre quella bavarese è una società sana che non smette di attrarre investitori. Adidas, Audi o Telekom sono fra i suoi sponsor. Ma il Bayern non è un caso isolalo. È tutta la Bundesliga ad essere come dice Christian Seifert della Lega tedesca «un modello di crescita di sano sviluppo». Un esempio anche per il malmesso calcio italiano.
In Germania, i conti tornano. Nella stagione 2011-2012 le diciotto squadre della massima divisione hanno raggiunto, prima volta nella loro storia, quota 2,081 miliardi di euro e registrato un utile di 55 milioni. Certo, anche qui l’indebitamento complessivo aumenta. Ma niente a che vedere con le cifre spaventose di Italia, Inghilterra o Spagna. «È ovunque lo stesso problema» spiega Holger Preuss, professore di economia dello Sport dell’Università di Magonza. «In Europa tutti i club per competere si assoggettano a una concorrenza spietata. Superano i loro budget e spendono ogni giorno di più per aggiudicarsi i migliori giocatori». Se nelle ultime 15 stagioni i ricavi dei cinque grandi campionati europei sono cresciuti del 243 per cento, la Germania ha aumentato i suoi del 293. L’Italia è ferma al 182 per cento. Dati che hanno proiettato la Bundesliga al secondo posto tra i campionati dell’Ue. Davanti, in termini di fatturato solo l’Inghilterra. Ma i record teutonici non si fermano qui. Il campionato tedesco, è leader mondiale negli introiti commerciali e nelle sponsorizzazioni: 816 milioni di euro. Fa il pieno di spettatori: 13 milioni l’anno scorso.
E tutto ciò senza parlare di televisione, manna per il calcio europeo. Sky Deutschland, lo scorso agosto, si è aggiudicata i diritti tv battendo il gigante Deutsche TeIekom. Pagherà, a partire dal 2013/14, per quattro stagioni, 4,15 miliardi di euro per trasmettere le partite della Bundesliga e della seconda divisione. C’è da aggiungere che il campionato tedesco garantisce 40 mila posti di lavoro e produce introiti fiscali allo Stato per 719 milioni di euro l’anno. Perciò, Reinhard Rauball, presidente della Lega, può affermare: «L’espansione economica del nostro calcio è al servizio del bene comune». Come sono riusciti i tedeschi ad essere i primi della classe anche nel pallone? Grazie alla razionalizzazione delle risorse e a un controllo economico stretto. I club, ad esempio, devono dimostrare, prima dell’inizio di ogni stagione, risorse sufficienti per coprire i costi e in particolare quelli relativi a giocatori e personale. Ce l’hanno fatta perché nel campionato tedesco non sono ammesse le proprietà straniere di società calcistiche. Insomma i paperon de’ paperoni che comprano un club come fosse un nuovo yacht qui non sono consentiti. Perché come dicono gli economisti, l’ingresso di capitali stranieri, vedi Inghilterra, provoca una corsa all’inflazione dei prezzi. E poi gli stadi: moderni, funzionali, costruiti o rimessi a nuovo. Gli orari delle partite non sono disastrosi come in altri campionati e i prezzi dei biglietti sono ragionevoli. Senza contare gli investimenti in infrastrutture e programmi nazionali per vivai e scuole calcio. Insomma, si punta sul prodotto fatto in casa e sui giovani: l’età media della Bundesliga è di 25 anni contro il 27 dell’Italia. Ne viene fuori un campionato ben organizzato, equilibrato, competitivo. Basti pensare che negli ultimi dieci anni hanno vinto cinque squadre diverse (Bayern Monaco, Borussia Dortmund, Wolfsburg, Stoccarda e Werder Brema). Niente a che vedere con il modello spagnolo, una Liga ormai bipolare dove, da quasi dieci anni, o vince il Real Madrid o il Barcellona con trenta punti di vantaggio sul terzo classificato.
Qualche problemino però ce l’hanno pure in Germania: gli hooligan e la violenza. Gli scontri aumentano. E anche le contromisure: controlli all’entrata degli stadi, sorveglianza video, sanzioni più aspre. Provvedimenti che hanno portato gli ultras a scioperi del tifo e a scendere in piazza.
Gunter Gebauer, professore di Filosofia all’Institut für Sportwissenschaft, dell’Università di Hannover mette il dito nella piaga: «La tensione è alta. I tifosi vogliono il calcio vero, non vogliono andare allo stadio come all’opera. Per loro una partita non può essere soft: deve avere del condimento piccante. Mentre la Federazione vuole un prodotto depurato dalla violenza, vuole fare del calcio un evento culturale, uno spettacolo per famiglie». È anche in questa logica che forse si può leggere l’arrivo di Pep Guardiola, l’allenatore che porta quel tocco di glamour e di spettacolo che alla Germania ancora mancava.
Luca Cairoli