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 2013  marzo 08 Venerdì calendario

SOMMOSSA ANAGRAFICA


La mattina del 24 febbraio su al Nord nevicava forte. Nel seggio elettorale del paese del Piacentino dove ho casa, e dove voto, c’era una piccola coda di gente intabarrata. Per ingannare il tempo, aspettando il mio turno, mi sono riletto gli elenchi dei candidati in Emilia-Romagna, appesi ai muri. Un’occhiata distratta. Non tanto distratta da impedirmi di fare – per la prima volta, e per caso – due conti aritmetici. L’età media dei candidati Cinque Stelle era quindici o vent’anni inferiore a quella dei candidati di tutti gli altri partiti. Lo scarto, quasi pieno, di una generazione.
Vorrei dire; lo sapevo già prima. Ma non è vero. Lo sapevo, nel senso che la nozione dell’età molto bassa dei militanti e dei candidati di quel movimento mi era nota. Ma non lo sapevo, nel senso che non avevo mai elaborato quella nozione, non ci avevo mai ragionato sopra. Come una cosa che fa parte del tuo campo visivo, ma non l’hai messa a fuoco. Dopo il voto, quando i numeri del cataclisma ci hanno scaraventati, i volenti e i nolenti, in un’altra Italia e in un’altra epoca, mi sono chiesto quante altre di queste cose visibili, eppure non viste, avevano preceduto questo storico voto. Mi sono risposto: tante. Per uno che fa il giornalista da quasi quarant’anni, non è una constatazione indolore.
Aggiungo – e non è un’attenuante – che tra le categorie di giudizio che mi sono più consuete c’è sicuramente quella del Paese vecchio, della stagnazione, del mancato ricambio generazionale. Ricorre in molte delle cose che ho scritto lungo gli anni. Avrei dunque dovuto capire e avrebbe dovuto capirlo la munita pattuglia di commentatori della quale faccio parte – e se non capire intuire che prima o poi, e da qualche parte, tanta compressione e tanto silenzio avrebbero dovuto sgorgare. Con impeto direttamente proporzionale alla durata (anni, anni, anni) della compressione e del silenzio.
Io credo che la travolgente ondata a Cinque Stelle sia spiegabile soprattutto così: una sommossa anagrafica. Non solamente questo; ma soprattutto questo. Nei giorni scorsi e in questi, gli analisti dei flussi elettorali hanno fatto la radiografia del voto, e confermato in buona parte questa teoria. Ma, ben al di là delle quantità, è la qualità dell’evento a segnarne il significato. Se è vero che sono soprattutto i non garantiti, i non (o non più) rappresentati ad avere votato Cinque Stelle, non c’è dubbio che gli italiani più giovani costituiscono la parte più cospicua e più evidente del fenomeno. Per quanti anni abbiamo scritto: la disoccupazione giovanile e il precariato sono una bomba a orologeria? Bene. Questa bomba ora è esplosa. Il trentotto per cento di disoccupazione giovanile – un dato terrificante, da tracollo sociale prima che economico – ha fatto da detonatore. Come abbiamo potuto pensare che questo squasso NON dovesse succedere, e potesse essere rimandato in eterno? Lo sapevamo, che la bomba era innescata? Sì, certo che lo sapevamo. I giornalisti, per quanto distratti dalla routine e imbolsiti dagli anni, sono meno scemi, meno cinici, meno felloni di quello che sembrano. E allora perché l’esplosione ci ha colti di sorpresa? Parlo per me: perché ogni esplosione sociale coglie di sorpresa i garantiti. Le categorie di giudizio, le sonde psicologiche, le abitudini culturali delle quali ci serviamo per vivere, e per scrivere, bastano a noi; non a chi viene dopo di noi, e scalpita, cerca spazio, cerca parole, luoghi, fisionomia sociale e individuale.
Il Sessantotto esplose con grande sconcerto degli adulti. Non se lo aspettavano. Non immaginavano di sentirsi mordere la mano che nutriva i figli. «Avete tutto, avete molto più di noi, che pretendete di più?» ci dissero i padri colpiti a tradimento dalla nostra rivolta. Ora che i nostri figli, per quanto protetti da una sorta di assistenzialismo peloso (li paghiamo, perché se ne stiano buoni), hanno meno di noi, meno futuro, meno lavoro, meno garanzie, il nostro doloroso stupore è anche meno giustificato. Ma come: non hai votato a sinistra? Non hai votato Bersani o Vendola? Non leggi più i giornali che abbiamo letto noi, e sui quali per giunta noi scriviamo?
No, non li leggono più. Hanno il web, la connessione fibrillante, così vaga e insieme così comodamente personale, che permette o illude di fare parte del mondo e di essere informati sul mondo. (Non meno illusoria, va detto, è la bisecolare illusione del borghese che, con il suo quotidiano in mano, è convinto di padroneggiare perfettamente l’andamento della storia, e il destino degli uomini). I ragazzi sanno le cose loro, molto meno le cose nostre, si formano il giudizio in altre sedi, con altri criteri, e quando penso con sgomento che i miei figli forse non hanno mai letto Barbara Spinelli o Adriano Sofri (dico due, per me, firme imperdibili) ometto di pensare che non ho mai letto, io, tante delle loro cose, dei loro blog, delle loro vite. Non mi conoscono? Non li conosco. Ora: poiché ho passato gli ultimi anni della mia vita a pensare che «noi», a vent’anni, ci siamo letteralmente inventati la nostra musica, i nostri giornali, il nostro linguaggio, i nostri costumi sessuali, il nostro abbigliamento e la nostra maniera di vivere; adesso so che anche «loro», nel silenzioso e non saprei dire quanto ostile sperimentare di tutte le gioventù, si sono costruiti una maniera di campare, di pensare e di rapportarsi al mondo. Diversi da prima. Nuovi. A noi sconosciuti.
Il voto, quel voto, è stato il primo forte segno di un cambio di scena in atto, da una generazione all’altra. Io mi sento improvvisamente più vecchio, lo dico in tutta schiettezza e tutto sommato senza alcun imbarazzo. Semmai con un certo sollievo: sapevo che doveva accadere, finalmente è accaduto. (Aggiungo: temevo non accadesse più).
Infine: questo non è un giudizio di qualità. È un giudizio «tecnico». Cioè: non so se il nuovo sarà peggiore o migliore del vecchio. So solo che è nuovo. Fatico (ancora oggi) a giudicare il Sessantotto, figuriamoci se mi azzardo a giudicare la rivoluzione in atto. Non ho capito se Cinque Stelle è un terrificante inganno settario al servizio di un megalomane; o se è un processo, molto spiazzante, di nuova rappresentazione democratica di questioni, ceti, persone non più rappresentate né rappresentabili dai nostri partiti, dai nostri giornali, dalla nostra cultura; o infine se sia una via di mezzo tra queste due cose, e altro ancora. Ma so per certo che – finalmente – la sensazione angosciante che il tempo, in Italia, si fosse fermato, è svanita per sempre. E un tempo che si rimette in cammino, nel bene e nel male, è un tempo che ricomincia a parlare. Io mi rivedo che indico con il dito le date di nascita dei candidati delle Cinque Stelle, il 24 di febbraio del 2013, mentre fuori nevica. Poi io sono andato a votare per i miei. Loro, sono andati a votare per i loro.
Michele Serra