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 2013  marzo 07 Giovedì calendario

QUESTO È UN DETENUTO ANCHE SE NON SEMBRA


È subito dopo l’imbarco sul traghetto diretto alla prigione di Bastoy, nel fiordo di Oslo a una settantina di chilometri dalla capitale, che si capisce che le cose sull’isola sono diverse. L’operatore del traghetto è un detenuto che sta scontando una pena di 14 anni per spaccio di droga. Lui nota la sorpresa, sorride e saluta: «Sono Petter» si presenta. Prima di essere trasferito a Bastoy, Petter era stato per 8 anni in un carcere di massima sicurezza. «Qui ci danno fiducia e ci responsabilizzano» osserva. «Ci trattano da adulti». Pensate le reazioni se tutto questo avvenisse in Italia.
Di sicuro sono molte le differenze tra i due paesi. La Norvegia ha una popolazione di poco meno di 5 milioni di abitanti, 12 volte meno dell’Italia, e conta meno di 4 mila carcerati, contro circa 66 mila in Italia. Ma ciò che veramente è diverso è l’atteggiamento verso i prigionieri. Perfino nella prigione di massima sicurezza di Skien, a 30 chilometri a nord di Oslo, una fortezza in cemento dove è stato rinchiuso anche Anders Breivik, l’uomo che nel luglio del 2011 ha massacrato 77 persone sull’isola di Utøya, la perdita della libertà è l’unica vera pena che affligge i condannati. Le celle hanno la televisione, il computer, le docce e i bagni sono puliti. Le condanne non superano mai i 21 anni di detenzione, dato che la Norvegia non prevede né la pena di morte né l’ergastolo, e tutti hanno la possibilità di fruire di programmi educativi e formativi, quindi di trascorrere il proprio tempo studiando o imparando un mestiere.
I prigionieri vivono in piccoli agglomerati, che sostituiscono i tradizionali bracci, limitando in questo modo la diffusione della subcultura da carcere che esiste nei sistemi tradizionali. Risultato: in Norvegia c’è il tasso di recidiva più basso d’Europa: meno del 30 per cento.

Petter racconta che a Bastoy «è come vivere in un villaggio o in una comunità. Ognuno ha il suo lavoro, ma abbiamo anche del tempo libero a disposizione, quindi possiamo dedicarci alla pesca o, in estate, andare in spiaggia a nuotare. Sappiamo di essere prigionieri, però ci sentiamo persone».
Molti commentatori avevano descritto le condizioni di vita dei 115 detenuti a Bastoy come comode e lussuose, fino a definire la prigione un «villaggio vacanze». Sono stato anch’io in prigione e ho passato i primi 8 anni, dei 20 che ho scontato in carcere, in una cella con un tetto, una sedia, un tavolo e un secchio come gabinetto. In quel periodo mi è capitato di trovarmi coinvolto in una rissa, intrappolato in un assedio, e sono stato testimone di gravi atti di violenza. Centinaia di prigionieri si sono tolti la vita nel penitenziario dov’ero io e molti altri sono stati assassinati. Ma nonostante tutto ciò alcuni giornalisti ripetevano che il posto in cui mi trovavo era un villaggio vacanze. Quando poi installarono le toilette nelle celle e, qualche anno dopo, sono arrivate piccole televisioni, si sono moltiplicati i titoli che definivano l’istituto come una «prigione lussuosa».
Thorbjorn è una guardia di 58 anni che presta servizio a Bastoy da 17 anni. Durante il giorno, spiega, sui 2,6 km quadrati dell’isola ci sono 70 membri del personale, 35 dei quali sono poliziotti penitenziali. Il loro compito principale è contare i prigionieri: subito alla mattina, poi due volte al giorno nel rispettivo posto di lavoro, una volta alle 17 in uno specifico luogo di raduno e infine alle 23 nelle loro abitazioni. Solo quattro poliziotti penitenziari restano sull’isola dopo le 16. Thorbjorn indica piccole casette di legno dipinte a colori vivaci. «Sono le case dei prigionieri» spiega. Possono ospitare fino a sei persone; i detenuti condividono la cucina e gli altri spazi comuni, ma ognuno ha una stanza singola. «Solo un pasto al giorno viene servito nella sala mensa. I detenuti guadagnano l’equivalente di 7 euro al giorno e hanno anche un buono che può arrivare fino a 80 euro al mese da spendere nel piccolo supermercato dell’isola, dove possono acquistare i viveri necessari per colazione e cena.

In Norvegia, i prigionieri ai quali restano fino a 5 anni di detenzione possono chiedere di essere trasferiti a Bastoy. Per essere accettati devono avere la volontà di condurre una vita senza crimini dopo il rilascio. Sull’isola c’è una fattoria dove i detenuti badano alle pecore, alle mucche e alle galline, oppure coltivano frutta e verdura. «Gran parte del cibo se lo coltivano da soli» aggiunge Thorbjorn. Le altre occupazioni possibili sono in lavanderia, nelle stalle, nel negozio di riparazione delle biciclette (molti ne hanno comprata una con i propri soldi), nel servizio di manutenzione del verde o in falegnameria. La giornata lavorativa inizia alle 8.30 del mattino.
Passiamo accanto ad alcune cabine telefoniche rosse dalle quali i detenuti possono chiamare familiari e amici. A sinistra si erge un grande edificio: è qui che ogni settimana i prigionieri incontrano le persone che vengono a far loro visita, in stanze private dove sono ammessi anche i rapporti coniugali.
Dalla finestra dell’ufficio di Arne Nilsen, il direttore, si scorgono la chiesa, la scuola e la biblioteca. «Nelle carceri chiuse» dice «i detenuti sono internati per anni senza avere la possibilità di lavorare o senza che venga attribuito loro alcun tipo di responsabilità. Ma per la legge la punizione è la perdita della libertà. Se trattiamo le persone come bestie quando sono in prigione, è probabile che si comportino come tali anche dopo».

Nilsen, psicologo clinico di professione, non vuole sentire che gestisce un campo vacanze. «Non si cambiano le persone con la forza» sostiene. «Qui trattiamo i prigionieri con rispetto e in questo modo insegniamo loro a rispettare gli altri. Però li teniamo sotto osservazione tutto il tempo. Così è meno probabile che commettano altri crimini quando verranno rilasciati. Questo significa giustizia per la società». E il tasso di recidiva tra gli ex prigionieri di Bastoy gli dà ragione: è del 16 per cento, il più basso d’Europa.
Ma chi sono i prigionieri di Bastoy? Hessie ha 23 anni e sta scontando una condanna di 11 anni per omicidio. «Ho ucciso per vendetta» racconta. «Vorrei non averlo mai fatto, adesso devo pagare per quello che ho commesso». Esile, capelli chiari, racconta di avere iniziato a 15 anni a entrare e uscire dagli istituti penitenziari. Le droghe non solo gli hanno rovinato la vita, ma l’hanno anche spinto a compiere atti criminali.
Sono tre le regole d’oro che vigono nel carcere di Bastoy: niente alcol, niente droga e niente violenza. Questo ragazzo, che ha ancora quasi quattro anni da scontare, lavora nelle scuderie e si prende cura dei cavalli. Come vede il suo futuro? «Non sono più attratto dalla droga. Quando esco, voglio tornare a vivere e costruirmi una famiglia. Qui sto imparando come farlo». Hessie ama la chitarra e insieme ad altri detenuti suona nella Bastoy blues band. Lo scorso anno hanno anche ottenuto il permesso di partecipare a un festival musicale e aprire il concerto della rock band Zz Top.
Bjorn è il maestro della band della prigione. Qui lui stesso ha scontato cinque anni per aver aggredito la moglie in un «momento di follia». Ora torna in carcere una volta alla settimana per dare lezioni di chitarra: «So che queste persone hanno il potenziale per cambiare». Ex ricercatore sociale, Bjorn ha preso contatti con alcune imprese di costruzioni per le quali lavorava in passato, che hanno promesso di prendere in considerazione l’idea di assumere alcuni membri della band, a condizione che diano prova di affidabilità e impegno. «Non si tratta solo di musica» afferma «ma di dare a queste persone la possibilità di dimostrare quanto valgono».
Sven, 29 anni, un altro membro della band, è stato condannato a scontare otto anni di detenzione per omicidio. Prima era un operaio disoccupato, ora lavora nel deposito di legname.

La guardia carceraria che mi presenta alla band è una donna e si chiama Rutchie. «Sono molto orgogliosa del ruolo che ricopro qui, e anche la mia famiglia lo è» afferma. In Norvegia ci vogliono tre anni di preparazione per diventare guardia carceraria. «Ci sono tante cose da imparare sulle persone che arrivano in prigione» spiega. «Dobbiamo cercare di capire come sono diventati dei criminali e aiutarli a cambiare. Io sto ancora imparando».
Vengo poi presentato a Vidor, che, con i suoi 72 anni, è il detenuto più anziano dell’isola. Lavorata lavanderia ed è il capo della casa che divide con altri tre uomini. Racconta che sta scontando 15 anni per duplice omicidio colposo. C’è una profonda tristezza nei suoi occhi, che traspare anche quando sorride. «Gli assassini come me non hanno un posto in cui nascondersi» afferma. E prosegue raccontandomi che dopo il delitto aveva «veramente toccato il fondo». In un primo tempo non faceva altro che piangere. «Se ci fosse stata la pena capitale, avrei voluto che me la infliggessero». È stata la prigione ad aiutarlo. «Mi hanno fatto capire perché ho compiuto quei crimini e come tornare a vivere». Adesso studia filosofia. «Quando uscirò, avrò 74 anni e sarei contento di viverne altri 10 e poi andarmene da questo mondo».

The Guardian