Mattia Feltri, IL 8/3/2013, 8 marzo 2013
ANNO FORMIDABILE, MA RICORDATE COS’È SUCCESSO IN ITALIA
Il 1993 è stato l’anno che ha cambiato tutto? L’affascinante domanda, un po’ apocalittica e visionaria come da gusto americano, se l’è posta il New York magazine con un lungo articolo celebrante dodici mesi rivoluzionari. Fu lì, pare, che il mondo ripartì, gonfio di novità e moderni ribaltamenti, dopo la fine dell’Impero del Male, secondo la definizione di Ronald Reagan. Si inaugurò una breve stagione di dolce e fecondo smarrimento occidentale, di coltivazione di una politica senza conti in sospeso, di invenzioni scientifiche apparentemente non riconvertibili in applicazione bellica, di nuovo respiro artistico con qualche crollo depressivo ma da società con la pancia piena; e poi i nemici erano finiti (ma in realtà erano già in volo verso le Torri Gemelle: è del 1993, guarda un po’, anche il primo attentato al World Trade Center).
Visto oggi, da qui, sì che fu un anno inebriante. L’elezione di Bill Clinton alla Casa Bianca, con tutte le aspettative che un figlio dei fiori si portava dietro; il primo boom della nuova straordinaria dimensione, Internet (il World Wide Web nasce nel 1991); la globalizzazione muove le merci in un pianeta che ha aperto le frontiere o ne ha di friabili, e riconverte ogni concetto economico conosciuto; in Sudafrica finisce l’Apartheid e Nelson Mandela vince il premio Nobel per la Pace; nella musica i Nirvana incidono il loro ultimo disco, In Utero, prima del suicido di Kurt Cobain, e con Pablo Honey esordiscono i Radiohead, che in una decina d’anni renderanno rottamabile tutto ciò che nel rock era venuto prima; Quentin Tarantino gira Pulp Fiction a dare una bella sganassata all’ambiente e nella moda salta su una segaligna dalla faccia lunare, Kate Moss, di modo che quindici minuti dopo tutte le Claudia Schiffer e tutte le Cindy Crawford del pianeta sono invecchiate di trent’anni.
Ci sarebbe da andare avanti per delle pagine, tanto che il New Museum di New York, l’istituzione di arte contemporanea più radicale della città (guidata da Massimiliano Gioni, giovane prodigio italiano che curerà la prossima Biennale di Venezia), installa una mostra a celebrare quel mozzafiato 1993, in ogni declinazione possibile, in ogni calibratura cromatica e visiva e multitematica – altro che la nostra sommaria introduzione – a rendere l’epifania di due decenni fa. Se avete confidenza con le trasvolate oceaniche, andateci e vi divertirete, e forse migliorerete l’idea di un anno che qui, anche ripensandoci, anche riguardandolo con occhi edulcorati dall’invecchiare e dalla lontananza, continua a lasciare il ricordo di un tempo oscuro, rabbioso, violento. Il prologo del 1992 aveva portato le carneficine di Capaci e via D’Amelio, e il battesimo dell’inchiesta Mani pulite. Ma è nel 1993 che si sfalda il lungo equilibrio del Secondo dopoguerra, e che la nostra democrazia di frontiera, retta dai denari e da qualche mascalzonata degli americani (a risparmiarci il comunismo: Tito era di là del confine, non lo si dimentichi), viene abbandonata a se stessa. Ora dobbiamo cavarcela da soli. Dobbiamo regolare le nostre questioni, trovare una nostra stabilità, inventarci un sistema sociale in grado di reggere a una situazione internazionale completamente mutata: soprattutto la Cortina di ferro non c’è più, ma nel 1992 si firma il Trattato di Maastricht che diventa operativo nel 1993, ed è il battesimo dell’Unione europea.
Come scrive ripetutamente in quegli anni Guido Rossi – avvocato, prima senatore indipendente di sinistra, poi uomo chiave nella sbrigativa ripulitura e ricostruzione dell’Eni – le società nuove non nascono dalla concordia ma dal contrasto, e così per esempio nacque Roma, addirittura dal fratricidio. Dunque così nacque la Prima repubblica e così nascerà la Seconda: è l’idea diffusa e praticata e ha torme volenterose e tumultuanti, ma non subito, no, noialtri italiani siamo quelli che sferrano calci al cadavere. Infatti Bettino Craxi ha compreso meglio e prima degli altri che i meccanismi e le prassi della Prima repubblica saranno spazzati via: «I mattoni del Muro non mi cadranno addosso», dice. Gli cadranno addosso tutti, uno dopo l’altro. Naturalmente la meravigliosa società civile non ci ha capito un fico secco, altro che rivoluzioni civili. Alle Politiche del 1992 la Dc ha ancora undici milioni e mezzo di voti, e sfiora il 30 per cento. Il Pds scende al 16 (il Pci si è sciolto nel 1991, giusto sei mesi prima del Pcus, il Partito comunista dell’Unione sovietica). Il Psi ha già i suoi guai, Mani pulite è partita arrestando il 17 febbraio a Milano il socialista Mario Chiesa, ma rispetto al 1987 perde soltanto lo 0,6 per cento e rimane al 13,6. Rifondazione e il Msi stanno attorno al 5. Repubblicani e liberali sono alle secondarie quote tradizionali. Non fosse per l’8 per cento della Lega Nord, liquidata con disprezzo da politici e commentatori, non ci si accorgerebbe di nulla. Questo per precisare come siamo fatti noi italiani, che celebriamo la Liberazione il 25 aprile, dimenticando che il 25 aprile Benito Mussolini era a Milano, in Arcivescovado, a colloquio con il cardinale Schuster, e lasciò la città diretto in Valtellina solamente al tramonto.
Nel 1993, secondo Eugenio Scalfari, si ebbe la giornata più buia dell’intera Repubblica dopo quella dell’assassinio di Aldo Moro. Succede che il 29 aprile la Camera dei deputati nega l’autorizzazione a procedere per Craxi. L’aria che tira non è più quella di dodici mesi prima. Adesso la totalità della classe politica, quella che aveva governato per quasi cinquant’anni, è sotto accusa a Milano o a Palermo. Hanno ricevuto avvisi di garanzia tutti i leader della Dc, del Psi, del Pri, del Pli. Sono andati in galera, o ci stanno per andare o saranno comunque inquisiti i massimi boiardi di Stato, gli imprenditori abituati a ungere le ruote – come era stato Enrico Mattei, il più grande manager e il più grande corruttore del Novecento, oggi glorificato al cinema e nei libri, e giustamente – per fare denari, ingrandire le aziende, conquistare spazi d’influenza. Un intero sistema ormai privo di protezioni internazionali viene raso al suolo a colpi di codice penale. Secondo uno schema abbastanza semplice, lo schema inquirente, la Prima repubblica si è retta con le tangenti e con la mafia. Il gran capo tangentaro sarebbe Craxi, il gran capo mafioso sarebbe Giulio Andreotti, indagato a marzo per associazione di stampo mafioso e più avanti come mandante dell’omicidio del giornalista-ricattatore Mino Pecorelli. È difficile raccontare tutto dopo tanti anni. Vengono alla mente particolari, dettagli, sembrano tutti importanti, ma ci si immagina la faccia di giovani lettori persuasi di essere alle prese con le guerre puniche. Restiamo all’essenziale. Adesso la meravigliosa società civile si è ridestata dal suo torpore, segue le cronache quotidiane e tambureggianti di arresti e avvisati (cinque, sei al giorno per dodici mesi) col gusto di chi legge lo sgominio della banda del Guercio da parte di Tex Willer.
A proposito di Craxi e della giornata più buia della Repubblica, il 29 aprile 1993 la Camera dei deputati non ne concede l’autorizzazione a procedere. Le piazze si gonfiano di indignati ex dormienti. Il 30, Craxi è al Raphael e deve uscire per raggiungere Giuliano Ferrara di cui è ospite in Tv. A piazza Navona, lì vicino, sono radunati i sostenitori di Francesco Rutelli, candidato a sindaco e impegnato in un comizio. Molti mollano e vanno al Raphael. Urlano, fischiano, si dimenano. Arrivano anche ragazzotti del Msi. Si consiglia a Craxi di uscire dal retro. Lui non ne vuole sapere. Esce e si prende quel che deve prendersi, compresa la celebre pioggia di monetine: «Pigliati anche queste!», gli gridano. Craxi è eretto, terreo, sconvolto, orgoglioso. In confronto a piazzale Loreto è niente, ma il sapore è lo stesso. Si discute dell’istituto dell’autorizzazione a procedere, voluto in Costituzione dai padri della Repubblica. Quella carta sacra, più intoccabile di un totem, sventolata come prova di purezza, talvolta si risistema in poche ore. È quello che succede qualche giorni avanti, in una notte a Montecitorio, dove presiede l’aula Giorgio Napolitano. Ma, per chi non c’era, o era molto giovane, o molto distratto, o non rammenta bene, abbiamo un paio di perline che rendono l’idea. La prima è del già citato Rutelli: «Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere». La seconda è di Luigi Manconi: «C’è qualcosa di cupamente grottesco nell’immagine di quell’uomo anziano e malato(...) Anche la malattia (...) non lo fa apparire più fragile, e con ciò meno sgradevole. Al contrario. La sua sembra proprio quella che, nei racconti per adolescenti, è l’infermità dei “cattivi” (nel Piccolo Lord, la gotta se ben ricordo). (...) La malattia completa crudelmente l’immagine di un uomo che – in una torva solitudine – cova i suoi rancori. Quel sarcasmo così appesantito, quell’aggressività così affannosa rivelano qualcosa di intimamente “sporco”...». Si citano Rutelli e Manconi perché, qualunque opinione si abbia di loro, non sono due manettari con gli occhi iniettati di sangue. Rutelli ha poi chiesto scusa. Manconi – in una prima occasione in cui riportai la sua frase – mi telefonò: «Ma davvero io ho detto quelle cose?». Non ci poteva credere. Ecco uno dei punti: non si può credere a quello che eravamo diventati. (Per chiudere il capitolo, Craxi morirà ad Hammamet nel gennaio del 2000, in esilio o da latitante: la disputa è aperta. Ma Massimo D’Alema offrì funerali di Stato alla famiglia, che rifiutò, e per i latitanti non si offrono funerali di Stato).
Il 1993 è tante cose. È Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, che si ammazza in carcere con un sacchetto di cellophane e lascia scritto: «La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto». È Raul Gardini, l’uomo che realizzò la fusione di Enimont, che si spara alla tempia pochi giorni dopo, terrorizzato all’idea della cella. E meno di due settimane prima, il dirigente delle Partecipazioni statali, Sergio Castellari, si era scolato tre quarti di bottiglia di whisky e pure lui si era ficcato una palla in testa (sono tre suicidi su cui si è fatta una gran letteratura, ma è tutto un altro tema). Il 1993 è l’anno delle bombe mafiose, in via Palestro a Milano, ai Georgofili di Firenze, in tutto dieci morti, e fortuna che ai Parioli a Roma la bomba diretta (pare) a Maurizio Costanzo esplode a vuoto. È l’anno dell’omicidio di don Giuseppe Puglisi. Del progetto golpista raccontato da Donatella Di Rosa. Dei fondi neri dei servizi segreti su cui il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, coinvolto dalle voci, interviene a reti unificate con l’indimenticabile «a questo gioco al massacro io non ci sto» (ma fin lì ci era stato). Il 1993 alla fine è soprattutto l’anno in cui si apre il processo a Sergio Cusani, uno stralcio del più grande processo Enimont. Cusani, consulente dei Ferruzzi, vuole chiudere la sua vicenda alla svelta e accetta il rito abbreviato. Diventa l’occasione per celebrare il trionfo, alla lunga effimero, di Antonio Di Pietro, che porta a testimoniare tutti i leader della Prima repubblica. Vengono a testimoniare ma in realtà sono sotto accusa. È uno spettacolo enorme, spaventoso, a suo modo bellissimo. Le due immagini finali sono la bava alla bocca di un atterrito Arnaldo Forlani e la spavalderia di Craxi, così ben trattato da Tonino che la curva d’Italia, pronta alla ola, ci rimane male.
È quello che temeva Aldo Moro: la Prima repubblica viene processata in piazza (intervista su La Repubblica di Bernardo Valli al procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, del 17 novembre 1993. Valli: «Lei vuol dire che con le indagini preliminari il grande processo pubblico è già avvenuto?». Borrelli: «Sì, il grande processo pubblico è avvenuto». Valli: «Quindi la sentenza è una cosa quasi secondaria, che riguarda la procedura, il diritto, la giustizia propriamente detta; ma intanto l’operazione di "grande bucato" è già lì?». Borrelli: «È già lì, sì, è in parte già fatto…».). Ecco, se il 1993 acclamato a New York è un anno epifanico, il nostro non lo fu per nulla. Fu quello che fu, e produsse un paradosso storico. A contendersi città come Roma e Napoli furono postfascisti come Gianfranco Fini e Alessandra Mussolini, o postcomunisti come Antonio Bassolino e quelli che sostenevano Rutelli. Gli eredi delle idee assassine del Novecento (copyright di Robert Conquest) erano gli unici legittimati a contendersi il Governo del Paese, con i postcomunisti largamente favoriti. Gli altri, quelli che fra mille contraddizioni, mille alterigie e una gestione quasi privatistica del potere ci avevano comunque tenuti dalla parte giusta della storia, fatti fuori. Annientati. Era un finale credibile? No, non lo era. Da quel paradosso, da quell’anomalia sono nate tutte le anomalie e i paradossi successivi, sino a quelli di oggi.
Ps: «Se fossi a Roma non avrei dubbi: voterei per Fini». Silvio Berlusconi, lancio Ansa del 23 novembre 1993.