Cesare Segre, Corriere della Sera 08/03/2013, 8 marzo 2013
QUANDO GLI SPOSI ERANO PROMESSI
Per la piena comprensione di un’opera letteraria non c’è forse procedimento migliore che seguire parola per parola l’autore nelle varie fasi della sua stesura. È quanto ci hanno insegnato gli studi sulle varianti e poi la cosiddetta critica genetica. L’ideale sarebbe che, di una data opera, si fossero conservati tutti i materiali, dalle prime stesure ancora incerte sino all’ultima, attraverso rifacimenti parziali, eliminazioni e aggiunte.
Una tale situazione, come si può immaginare rarissima, si presenta con i Promessi sposi il cui autore, con uno scrupolo stupefacente, ha conservato e classificato, uno dopo l’altro, tutti i fogli autografi di un lavoro che ha avuto come principali coaguli il Fermo e Lucia (1821-1823), primissima stesura, non giunta alla stampa, del romanzo; poi gli Sposi promessi o seconda stesura (1823-1827), anch’essa inedita ma che si concretizzerà poco dopo nell’edizione del 1827. Poi sarebbe venuta, con un completo rifacimento linguistico, l’edizione del 1840, definitiva anche per noi.
Raccogliere e presentare in modo soddisfacente questo tesoro è un programma che ha già voluto realizzare Fausto Ghisalberti (Mondadori 1954). Ma il lavoro di Ghisalberti non mancava di difetti di trascrizione; in più, la necessità di utilizzare tutti gli autografi, in parte trascurati, e l’affermarsi di più approfondite tecniche di ricerca hanno imposto di riprendere il lavoro; senza dire che gli stessi progressi dei metodi esigevano una nuova presentazione: penso, in particolare, agli accorgimenti tipografici ispirati dalla cosiddetta critica genetica di cui, nel 1938, Santorre Debenedetti offrì uno splendido anticipo nello studio-edizione dei frammenti autografi dell’Orlando Furioso.
Il progetto, di Dante Isella, è stato realizzato dalle sue ottime collaboratrici, nel quadro dell’edizione nazionale delle opere del Manzoni. Barbara Colli e Giulia Raboni, con l’aggiunta di Paola Italia, hanno già procurato, nel 2006, l’edizione critica del Fermo e Lucia; ora ci forniscono l’edizione della seconda stesura, Gli sposi promessi, appunto (A. Manzoni, Gli sposi promessi, a cura di B. Colli e G. Raboni, Milano, Casa del Manzoni, 2 tomi: pp. XCIV-598 e XV-714).
Si può dire che Manzoni abbia dedicato ai Promessi sposi una parte consistente della sua vita (parlava di «eterno lavoro»). Incominciò nel 1821, a trentasei anni, e terminò nel 1840, a cinquantacinque. Questo significa che fare la storia dell’«invenzione» dei Promessi sposi è come accompagnare lo scrittore in tutti i momenti importanti della sua vita culturale. L’operosità di Manzoni è affrontata concisamente dalla prefatrice, Giulia Raboni, e al lettore occorre grande attenzione per non lasciarsi sfuggire nulla. Tra i mutamenti più interessanti avvenuti in corso d’opera ci sono quelli che riguardano il trattamento dell’intreccio: per esempio, nella «notte degli imbrogli» i movimenti dei due fidanzati e dei bravi sono organizzati e alternati diversamente a partire dalla seconda minuta. Anche le vicende di Renzo, come già aveva visto Domenico De Robertis, nel corso del lavoro assumono un colorito sempre più spiccatamente fiabesco. E sono evidenti i segni di una crescente attenzione ai rapporti fra storia privata e storia pubblica e in particolare tra i poteri forti (alludiamo per esempio ai dialoghi tra il conte Attilio e don Rodrigo). Essenziale, poi, l’accorciamento della storia della Monaca di Monza, che nel Fermo e Lucia diventava quasi un romanzo nel romanzo.
Colpisce che la ricostruzione, da parte delle curatrici, delle fasi elaborative da una versione all’altra sia attuata con un’attenzione che giunge al computo del numero di giorni impiegati nelle fasi del rifacimento. E le fasi sono complicatissime, perché ogni gruppo di pagine veniva anche inviato a Claude Fauriel, grande protettore del Manzoni, e agli amici milanesi, così come ogni correzione doveva essere comunicata a tutti; e i commenti venivano raccolti, classificati e non di rado utilizzati. Insomma, la casa dello scrittore diventò un vero ufficio postale.
Naturalmente poi il problema della lingua, che per Manzoni era il principale assillo, ha una presenza continua sia per le affermazioni di principio sia per i cambiamenti via via decisi. Nel Fermo e Lucia, a detta dello stesso Manzoni, il lettore incontra «un composto indigesto di frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche latine».
Insomma, l’italiano molto milanesizzato comune a tutti gli scrittori coevi di Lombardia. Poi viene un periodo in cui Manzoni fa spogli dei dizionari, specialmente quello della Crusca, alla ricerca di espressioni toscane che abbiano una vivacità confrontabile con quella del milanese. Questi spogli avvengono proprio durante la stesura degli Sposi promessi, quando l’autore, nel suo assillo, giunge al punto di mettere insieme le note per una grammatica italiana. Si sa che i Promessi sposi definitivi adotteranno una diversa soluzione linguistica: usare il fiorentino attuale, invece del fiorentino trecentesco diventato, nel Cinquecento, lingua nazionale. Una scelta subito confutata dal linguista Graziadio I. Ascoli e ormai diventata anacronistica; però una scelta che, nella realizzazione manzoniana, contribuì alla sobria armonia dello stile del romanziere. Ma è una storia da seguire nei prossimi volumi.
Cesare Segre