Massimo Gaggi, Corriere della Sera 08/03/2013, 8 marzo 2013
GLI STUDENTI NON PAGANO PIU’ I PRESTITI D’ONORE PER IL COLLEGE —
Dopo quella dei mutui, un’altra bolla finanziaria rischia di scoppiare in America compromettendo la ripresa economica: quella dei prestiti scolastici. L’esposizione di studenti ed ex studenti americani ha, infatti, ormai raggiunto cifre astronomiche: sfiora i mille miliardi di dollari.
Il problema non è certo nuovo. Un anno fa Barack Obama, che ha fatto varare dal Congresso un provvedimento che riduce gli oneri per interessi pagati dai giovani su molti di questi prestiti, raccontò che anche lui e Michelle avevano faticato a estinguere i debiti di studio: parlando a Chapel Hill agli studenti della University of North Carolina disse che solo nel 2004 — quando, 42enne, era già parlamentare dell’Illinois da sette anni e stava per diventare senatore al Congresso di Washington — aveva completato il rimborso dei prestiti.
Non è certo un caso isolato. Per restare alla politica, il senatore Marco Rubio, figura emergente del partito repubblicano, ha raccontato di recente che solo a fine 2011, quando era già un quarantenne, è riuscito a liberarsi dei ben 150 mila dollari di debito scolastico che si portava dietro dai tempi degli studi in giurisprudenza. Ed Elizabeth Warren, che a 63 anni è appena diventata senatore democratico del Massachusetts conquistando il seggio che fu di Ted Kennedy, i suoi debiti scolastici non li ha ancora estinti del tutto: le rimane qualche decina di migliaia di dollari da rimborsare. Fatto curioso anche perché, prima di candidarsi, la Warren, divenuta celebre per una sua apparizione nel documentario di Michael Moore su Wall Street e il «crack» Lehman, ha guidato l’agenzia federale per la tutela dei consumatori: un organismo tra i cui compiti c’è anche la supervisione dei prestiti agli studenti.
Casi che riguardano nomi celebri, ma che non rendono fino in fondo la serietà del problema. In America l’istruzione universitaria è sempre stata costosa e chi non poteva permettersela o non otteneva borse di studio ricorreva al credito. Nel mondo del pieno impiego, poi, trovava subito un lavoro redditizio grazie al quale effettuare i rimborsi. Negli ultimi anni tutto è cambiato, e in peggio: col continuo aumento delle rette universitarie, la crisi finanziaria e l’inaridimento del credito negli altri settori, l’erogazione di prestiti di studio è enormemente aumentata, mentre gli sbocchi sul mercato del lavoro si sono ridotti di molto. Chi si laurea con un debito che può arrivare anche a 150-200 mila dollari, spesso rimane disoccupato o trova un lavoro non abbastanza redditizio: non basta per onorare il debito, mettere su famiglia, comprare una casa.
Gli ultimi dati, pubblicati una settimana fa dalla Federal Reserve di New York, sono impressionanti: dal 2004 ad oggi i prestiti di studio sono triplicati fino ad arrivare a quota 966 miliardi di dollari. Scavalcati, per ammontare, i prestiti-auto e l’esposizione da carte di credito, il credito scolastico è ormai la seconda voce dell’«America del debito», dietro i mutui immobiliari. A parte i rischi di insolvenza che pesano sul sistema creditizio, il pericolo maggiore per un’economia Usa già asfittica è quello di un’ulteriore riduzione dei consumi da parte delle famiglie indebitate anche sul fronte scolastico. L’onere triplicato in otto anni riflette tanto un aumento dell’importo dei prestiti medi quanto quello del numero degli studenti (ed ex) indebitati: ben 39 milioni. Non tutti hanno fatto follie: l’indebitamento medio è di 24.300 dollari, ma il 13 per cento di loro ha un debito di oltre 50 mila dollari. Una cifra pari al reddito di un anno della famiglia media americana. Quelli che devono più di 100 mila dollari sono quasi un milione e mezzo: più del doppio rispetto a sette anni fa.
La prossima battaglia verrà combattuta a giugno, quando scadranno gli sgravi concessi da Obama. Se non verranno prorogati (i repubblicani si oppongono alla richiesta democratica per motivi di bilancio) gli interessi a carico degli studenti nel programma saliranno dall’attuale 3,4 al 6,8 per cento.
Massimo Gaggi