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 2013  marzo 06 Mercoledì calendario

PER FORTUNA C’È LA BABY SITTER

[Luca Zingaretti]

Buongiorno, commissario!». «Scusi se la interrompo, lei mi piace moltissimo». Poi, c’è quello che finge di fotografare l’antico caffè napoletano, ma punta l’obiettivo su di lui, che commenta: «Vedrà, diranno che mi sono trovato una nuova fidanzata». Per Luca Zingaretti ogni uscita pubblica è una complicata gincana tra fan e paparazzi. Lui un po’ abbozza, un po’ si affatica. Montalbano, di cui porterà in Tv quattro nuovi episodi dall’8 aprile, lo ha reso personaggio di proprietà pubblica.
All’indomani delle elezioni, in realtà, il personaggio di famiglia è il fratello Nicola, vincitore delle Regionali in Lazio. Ma presto la scena tornerà soprattutto sua, e non solo in Tv. Luca infatti dirige e interpreta a teatro La torre d’avorio, opera di Ronald Harwood (nel 2003 Oscar per la sceneggiatura del Pianista) sul rapporto fra politica e arte: da una parte un oscuro maggiore americano (Zingaretti), dall’altra il grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler (Massimo De Francovich) «colpevole» di non aver lasciato la Germania nazista e di aver fatto – sia pure senza tessere di partito – da involontario vessillo a Hitler. E anche queste sono scelte politiche.

Lei alla campagna di suo fratello non ha partecipato: perché?
«Perché siamo persone serie».
Però da ragazzo si occupava di politica, nel Partito di Unità Proletaria.
«Facevamo riunioni, discussioni. Distribuivo il manifesto».
Scontri di piazza?
«Sì, purtroppo, anche se quelli a me non sono mai piaciuti».
La politica a quei tempi significava anche ragazze: cuccava molto?
«Come tutti».
Suo fratello però sostiene che – fra i due – fosse lei quello che piaceva di più.
«Diciamo che io ero meno concentrato sulla politica: mi dividevo fra quella, il cinema e soprattutto il calcio. Nicola invece, che ha quattro anni meno di me, già allora era già nella Fgci, i giovani comunisti. Si fece notare subito, perché è uno che si butta anima e corpo nelle cose. La sua era una passione più forte».
Potreste scambiarvi i ruoli, Nicola regista e lei politico?
«Io non ce la farei perché ho un carattere poco incline all’accordo, sono uno che spesso sbatte i pugni sul tavolo e se ne va. Invece la politica è l’arte di risolvere le cose mettendo d’accordo il maggior numero possibile di persone».
E Nicola ce lo vedrebbe al cinema?
«Sicuramente. Mio fratello è stato il primo in famiglia ad avere questo amore profondo per il cinema. Io giocavo a pallone, lui affittava con gli amici il camper per seguire la Mostra di Venezia. In più, è un uomo di grande creatività, fantasia. Ed è un grande organizzatore, la dote migliore per un regista».
A proposito di regia: mi spiega meglio di che cosa parla La torre d’avorio ?
«C’è il direttore d’orchestra: sostiene che un artista si deve dedicare solo all’arte, anche quando intorno a lui succedono cose orribili, perché l’uomo è tale solo se produce e fruisce arte, altrimenti sarebbe una bestia. E c’è il maggiore, secondo cui invece è giusto giudicare l’agire umano semplicemente in base ai bisogni primari, mangiare, riprodursi, bere: l’arte non può essere una giustificazione per essersi prestati a “coprire” con la musica gli orrori del nazismo. Lo spettacolo chiede al pubblico: voi da che parte state?».
Lei da che parte sta?
«Come regista, non voglio dare una risposta, sono gli spettatori che devono rispondere. Come Luca Zingaretti dico: io – come Furtwängler – probabilmente sarei rimasto in Germania, ma avrei cercato di essere un po’ meno organico al potere, non avrei accettato di essere il fiore all’occhiello di Hitler, credo. Certo: e se poi mi facevano fuori? È un dibattito aperto. Ma penso che, allora come oggi, un artista debba mostrare tutti i giorni il proprio impegno».
Furtwängler dopo la guerra si portò dietro per sempre la nomea di nazista, pur non avendo mai avuto tessere di partito. Herbert von Karajan invece quelle tessere le aveva prese, eppure fu osannato. Secondo lei, la storia doveva andare diversamente?
«Non lo so. So solo che, per me, l’arte non è superiore a tutto, perlomeno non a qualsiasi prezzo. Se sei stato nazista? Rimani fermo un giro, amico mio».
Anche Il commissario Montalbano è rimasto fermo un giro: l’ottava stagione è del 2011. Però adesso arriva la nona.
«Camilleri è vivo, vegeto e pieno di idee. E io mi diverto a farlo. Poi non è che abbiamo fatto così tante puntate in questi dodici anni, il problema è che sono state replicate a iosa».
La pagano per le repliche?
«No».
Ma hanno scritto che lei è l’attore più pagato in Italia.
«Non è vero. Ogni tanto i giornali si prendono con me licenze che con altri non si permettono».
Nei nuovi episodi che cosa cambia?
«Le storie si adeguano ai tempi, sono più “scure”, disperate. Montalbano forse è un po’ più pensoso».
Invecchia.
«Sì, io ormai sono sale e pepe. Ma il Montalbano di Camilleri ha pur sempre vent’anni più di me. C’era una storia in cui lui scavalcava un muretto e si prendeva un infarto, io ancora gioco a pallone e penso sempre di avere 20 anni».
Invece ne ha 51 e ha una figlia, Emma, di uno e mezzo. Lei e sua moglie Luisa Ranieri progettate altri bambini?
«Chi lo sa. Certo, mi piacerebbe che Emma avesse un fratello o una sorella, io e Luisa sappiamo quanto sia importante e ci stiamo riflettendo: un figlio è una bellissima avventura».
Come vi regolate, tra famiglia e lavoro?
«Fortunatamente finora abbiamo potuto alternarci: ci siamo seguiti sui set, per tenere la famiglia unita».
Baby-sitter?
«Consuelo: è dell’Ecuador, bravissima. Una baby-sitter, tra l’altro, sarà la protagonista del film che sto scrivendo, con cui debutterò al cinema come regista».
Di che cosa si tratta?
«È una storia presa da un fatto di cronaca, dovrebbe svolgersi a Napoli. C’è una italiana che fa la baby-sitter a bambini cinesi. Un modo per raccontare il nostro Paese, chi siamo diventati, la nostra capacità o incapacità di accoglienza, il rapporto con il diverso».
La baby-sitter sarà sua moglie Luisa?
«Ce la vedrei: il personaggio deve avere la stessa cazzimma di Luisa. Ma lei mi ha detto: “Nel caso, voglio che mi fai un provino, non facciamo come se dovessi per forza recitare con te”».
A volte i genitori sono gelosi delle babysitter: a voi capita?
«Quanto a gelosia, io e Luisa ce la battiamo».
A proposito di gelosia: lei sarà anche Otello in teatro.
«È un mio vecchio sogno: un personaggio commovente, che unisce la forza all’ingenuità. Otello ama Desdemona, amore è sentire di essere capito, anche nelle tue debolezze, essere accolto dalla donna».
Però la uccide.
«Quello che ci dobbiamo chiedere è: l’uomo che cosa apprende di così sbagliato nei confronti della donna che l’ha partorito? Io credo che la frase giusta l’abbia detta un carabiniere a Luisa, quando faceva un programma sul femminicidio: “La donna ha sempre un’altra opzione, l’uomo non la riesce a concepire. Per questo ammazza”».
Altri progetti?
«Sarò su Raiuno con una minifiction su Adriano Olivetti. Di Olivetti si sa che faceva le macchine per scrivere. Ma questo signore diceva e faceva cose che oggi parrebbero fantascientifiche: l’anno di congedo per donne incinte, servizi sociali per i lavoratori, il concetto di bellezza in fabbrica, gli asili nido... E poi l’intuizione nel capire che l’elettronica sarebbe stata il futuro. La sua generazione fece l’Italia, penso a Pietro Barilla, agli Agnelli, ai Merloni: l’industria che ha ricostruito dopo la guerra con fantasia, coraggio e sani principi».
Lei sullo schermo è sempre un uomo di sani principi.
«Ma in Tv farò anche Il giudice meschino, storia calabrese di un giudice che campicchia, scansando le indagini scottanti. Poi diventa amico di un magistrato tutto d’un pezzo, glielo ammazzano sotto gli occhi, e lui capisce che deve prendere posizione, per quanto sia difficile. A un certo punto nella vita bisogna prendere posizione, non perché sia la più comoda, ma perché è la più giusta: lo diceva Gandhi, è anche il tema del mio spettacolo. Ed è il segreto perché una società funzioni».