Giovanni Vigo, Sette 8/3/2013, 8 marzo 2013
ECCO COME LA GRANDE DEPRESSIONE CAMBIÒ LA POLITICA ECONOMICA
Alla fine della prima guerra mondiale fu creata la Società delle Nazioni con la vana speranza di prevenire nuovi conflitti. Nel suo seno furono istituite agenzie specializzate per affrontare più consapevolmente problemi vecchi e nuovi fra i quali spiccava la disoccupazione. A una di queste agenzie, il Bureau international du travail, fu affidato il compito di occuparsi del lavoro a cominciare dalla raccolta di dati meno confusi sui disoccupati, sulla loro età, sui settori più colpiti, sulla durata della disoccupazione e su tutte le altre informazioni che potevano contribuire ad affrontare il problema con più efficacia di quanto si era fatto in passato.
I primi risultati furono deludenti. Nel 1922 il Bureau dichiarava che le statistiche fornite dai vari Paesi non erano altro che un’accozzaglia eterogenea di numeri con un valore molto approssimativo. L’approssimazione era inevitabile – lo è ancora oggi – ma le proporzioni del fenomeno cominciavano ad assumere contorni meglio definiti. La violenta crisi scoppiata all’indomani della guerra gettò sul lastrico milioni di lavoratori. Nell’autunno del 1921 gli Stati Uniti contavano sei milioni di disoccupati, il 12 per cento della popolazione attiva. In Canada il 15 per cento degli operai sindacalizzati era senza lavoro; in Belgio il 32 per cento, in Germania addirittura il 42. Le turbolenze dell’economia si attenuarono a poco a poco e la ripresa che si delineò a partire dal 1923 rese meno angosciante il problema della disoccupazione che, tuttavia, si ripresentò in termini più drammatici all’indomani del crollo di Wall Street. Negli anni Venti il tasso di disoccupazione dei lavoratori dell’industria francese era sceso al 3,8 per cento, ma fra il 1930 e il 1933 balzò al 9,1 per cento; in Germania si registrò un aumento più drammatico passando dall’8,7 per cento al 34,2; negli Stati Uniti la disoccupazione quadruplicò salendo dal 7,8 per cento al 28,4. All’inizio del 1933, quando Roosevelt fece il suo ingresso alla Casa Bianca, almeno 13 milioni di americani non sapevano come sbarcare il lunario. John Garraty ha calcolato che in quel momento la crisi avesse già causato gli stessi danni della guerra, una cifra che superava 120 miliardi di dollari. I più colpiti erano i lavoratori che avevano perso non solo l’occupazione, ma anche la speranza, come testimoniano le numerose indagini compiute in quegli anni.
Durante l’inverno del 1931-32 un gruppo di sociologi interpellò gli abitanti di Marienthal, un villaggio industriale austriaco in cui risiedevano 500 famiglie che vivevano grazie a una fabbrica di filati di rayon. Nel 1929 la fabbrica aveva raggiunto la massima occupazione, ma nel febbraio dell’anno successivo chiuse i battenti e i proprietari, che non credevano più nella ripresa, cominciarono a demolirla. I quattro quinti delle famiglie rimasero improvvisamente senza lavoro e a poco a poco la rassegnazione si impadronì dell’intero villaggio. Come hanno scritto Charles Feinstein, Peter Temin e Gianni Toniolo in L’economia europea tra le due guerre, gli «uomini disoccupati erano estremamente pigri, e passavano il tempo a non far nulla… Stavano in casa, andavano a passeggio – lentamente – o giocavano a carte o a scacchi al circolo operaio». Erano diventati lo specchio delle macerie del loro antico posto di lavoro. Un’altra ricerca venne compiuta da Edward Bakke fra gli operai di Greenwich, un sobborgo di Londra, nell’estate e nell’autunno del 1931. I suoi risultati sono meno sistematici di quelli ottenuti a Marienthal, ma il racconto di Bakke è spesso più diretto e incisivo, come risulta dall’esperienza di un meccanico di 28 anni. «Tre giorni dopo aver perso il posto», scrivono ancora Feinstein, Temin e Toniolo, «il meccanico era molto ottimista sulle possibilità di trovarne un altro. Dopotutto, non era mai rimasto senza lavoro molto più di una settimana. Tre settimane dopo non ne era più molto sicuro. Aveva risposto a tutti gli annunci sui giornali, ma si stava scoraggiando». Dopo undici settimane cominciava a sentirsi stremato non tanto per la fatica di trascinarsi dappertutto «quanto per l’angoscia che ti prende quando vai a cercare un lavoro che sai che non c’è». La disoccupazione non toglieva soltanto il pane di bocca, distruggeva anche la personalità. Uno spiraglio di luce cominciò a manifestarsi nella seconda metà degli anni Trenta. In Germania la disoccupazione scese all’11,8 per cento, in Gran Bretagna al 13 per cento, negli Stati Uniti al 14,3 per rimbalzare poi oltre il 19 per cento in seguito alla crisi del 1937. La Grande Depressione suscitò un ampio dibattito fra gli economisti e impresse una svolta alla politica economica dei governi. Dal punto di vista delle idee il dibattito si incentrò sull’opera di Keynes sviluppata compiutamente nel 1936 con la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Dal punto di vista degli obiettivi i maggiori risultati furono raggiunti dalla Germania a spese, però, di un’economia amministrata dal centro e tutta rivolta alla preparazione della guerra. La Gran Bretagna, alle prese con drammatiche sacche di disoccupazione che nelle aree di vecchia industrializzazione superavano il 60 per cento, riuscì a risolvere parzialmente il problema con un programma di riqualificazione della manodopera, la sua redistribuzione sul territorio, il rilancio dell’edilizia e grazie al grande mercato rappresentato dal Commonwealth. Gli Stati Uniti cercarono di risollevarsi con il New Deal, un complesso di misure estese a tutti i settori, che sollevò aspre controversie. Se è vero che la caduta della disoccupazione non fu proporzionale all’impegno profuso da Roosevelt, non è meno vero che i provvedimenti adottati ridussero la miseria che si era abbattuta sui disoccupati e che la “filosofia” del New Deal è tuttora viva.
Lo spettro della disoccupazione strutturale si era materializzato colpendo tutto il mondo industrializzato. La reazione fu incerta e inadeguata anche perché i governi si trovarono di fronte a una crisi senza precedenti. Tuttavia essa contribuì a spogliare definitivamente il problema della disoccupazione dalle vecchie incrostazioni. L’indennità versata a chi aveva perso il lavoro era diventato un diritto e non una generosa concessione, e la politica economica doveva prevenire la disoccupazione e combatterla senza tregua quando superava il livello fisiologico. Keynes aveva vinto, ma per quanto tempo?
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