Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 08 Venerdì calendario

QUANDO FELLINI MI CHIAMÒ «PUPOOONE»

[Pupi Avati]

C’è un capitoletto finale, nell’autobiografia di Pupi Avati (La grande invenzione, Rizzoli), nel quale il regista, come si dice accada in punto di morte, ripensa la sua vita il più velocemente possibile. Eccone alcuni fotogrammi. 1) «“Non ti sei lavato il collo…” dice mia madre». 2) «“Ho baciato il tuo libro” scrivo a Dudù La Capria». 3) «“È un Selmer, il miglior clarinetto del mondo” mi dicono gli amici di mio padre». 4) «“È nata!!! È nata!!!” urla mia suocera con in braccio Maria Antonia dai capelli neri». 5) «“Tu sei la rovina della nostra famiglia” urla mia madre a mia moglie. “No, è Lei la rovina” strilla Nicola». 6) «“Cazzo!” urla Mariangela (Melato) la terza volta che Jean-Pierre Léaud nel baciarla non trattiene la lingua». 7) «“Storia di ragazzi e di ragazze doveva vincere il Leone d’Oro!” grida Kezich». 8) «“Abbiamo perso tutte le bollette del Monte di Pietà, tutti i regali di nozze…” piange mia moglie». 9) «“Il ruolo di un allenatore di calcio? È una bella idea” dice Tognazzi». 10) «“Non ti sei lavato il collo” ripete mia madre».
Pupi Avati racconta che decise di fare il regista dopo aver visto Otto e mezzo di Federico Fellini. Perché vedendo quel capolavoro capì che il cinema poteva raccontare la vita (tutta quanta) e non era solo la messinscena di un duello tra cowboy e indiani o l’inseguimento di un gangster da parte della polizia. Perciò quelle tre paginette in cui Avati ripensa alla sua vita il più velocemente possibile vanno trattate con riguardo perché sono il suo Otto e mezzo.
E non è la sola cosa felliniana del libro. Avati, che è di Bologna, e quindi emiliano, confessa di essersi sempre sentito fortemente e misteriosamente attratto dalla Romagna e, in particolare, dal romagnolissimo Fellini, di cui diventò poi amico. Il modo in cui si conobbero è molto divertente. Avati, vestito assai incongruamente (era la moda del tempo) con un impermeabile di plastica nera che faceva molto agente della Gestapo, pedinò per più mattine Fellini senza avere il coraggio di presentarsi. Quando alla fine lo fece, Fellini (che aveva notato il lugubre individuo che gli faceva la posta ed era terrorizzato avendolo preso per uno di quei matti pericolosi che aggrediscono la gente famosa) tirò un sospiro di sollievo e lo strinse a sé in un abbraccio ripetendo più volte: «Pupooone, Pupooone».

Il calendario di Frate Indovino. La prima parte della bella autobiografia di Avati è, tanto per restare in ambito felliniano, una sua personale versione di Amarcord, il capolavoro della memoria del grande Federico, la sua ricerca del tempo perduto. Se non ci credete, ascoltate le storie che seguono nelle quali Avati rammemora la storia della sua famiglia.
Cominciamo con Carlino, il nonno materno. uomo di poche parole e di grandi passioni femminili (prediligeva le spagnole perché avevano sangue più caliente). Anche Carlino, come avrebbe poi fatto il nipote, scrisse un’autobiografia. Accadde la notte in cui morì. Carlino chiamò a sé la figlia, la mamma di Avati, e le dettò la sua vita perché la consegnasse ai nipoti (Pupi e il fratello Antonio avevano già cominciato a fare del cinema). Non avendo altro sottomano, la mamma di Avati appuntò il racconto del padre negli spazi bianchi delle pagine di un calendario di Frate Indovino che si era procurata lì per lì.
Avati ama leggere biografie e ama soprattutto le scene finali, quelle che, secondo lui, danno senso a tutto. Dopo la scena finale del nonno materno, ecco quella del nonno paterno. Si chiamava Giuseppe ed era un antiquario molto conosciuto a Bologna. Invece delle spagnole amava le corse dei cavalli. Un giorno scommise e perse tutto. Allora andò davanti alla Madonnina del Paradiso di cui era devoto e le chiese, seriamente, che gli facesse la grazia di farlo morire. Poi tornò a casa. Mangiò le tagliatelle fatte dalla moglie e andò a letto. Prima di addormentarsi raccontò alla moglie il miracolo che aveva chiesto alla Madonnina. Lei rise, abituata alle mattane del marito. Ma lui faceva veramente. Morì quella notte stessa.

La curva di Pascoli. È piena di incroci misteriosi, di coincidenze inspiegabili alla luce della ragione, la vita secondo Pupi Avati. E lui fa tanti esempi. Uno fa venire i brividi. Sua madre non poteva sentire, sin da quando era scolara, La cavallina storna, la poesia di Pascoli. Era più forte di lei. Ascoltando quei versi scoppiava in lacrime tanto che i figli, con la crudeltà dei bambini, gliela recitavano apposta perché si mettesse a piangere. Un giorno, la mamma di Avati era con i figli al mare, a Rimini. Era il 10 agosto del 1950. Che, tra l’altro è il titolo di un’altra poesia di Pascoli, X agosto, quella che dice: «Tornava una rondine al tetto: / l’uccisero: cadde tra spini: / ella aveva nel becco un insetto: / la cena dei suoi rondinini». In quella poesia, così come nella Cavallina storna, Pascoli racconta l’assassinio del padre, ucciso mentre rincasava proprio il 10 agosto 1867, quando il poeta aveva 12 anni.
Torniamo al 10 agosto 1950. È il giorno in cui il padre di Pupi Avati deve raggiungere la famiglia in vacanza a Rimini e iniziare anche lui la villeggiatura. Lo aspettano invano. Il padre muore in un incidente stradale che avviene proprio alla stessa curva dove 83 anni prima era stato teso l’agguato mortale al padre di Pascoli. Ultima coincidenza, Pupi aveva allora la stessa età, 12 anni, che aveva Pascoli all’epoca.
Avati fa un bel ritratto di quel padre che ha conosciuto così poco. Dice che era un uomo dotato di quella simpatia speciale che fa ridere le donne (una dote che il figlio gli ha sempre invidiato), quella simpatia che produce nello sguardo delle donne «quella liquida lucentezza che tradisce sempre un tumulto dell’animo».
Sono ancora tante le storie (i film?) che Avati racconta sulla sua famiglia, tanti i caratteri descritti. Come l’indimenticabile zia Amabile, che vestiva i morti. O la cugina Giulietta che non era bella ma andò in sposa al più bello di tutti, un aitante aviatore, e un giorno infilò la testa nel forno per la delusione d’amore. O la cugina Orietta che si buttò sotto un treno, con una copia di Anna Karenina sotto braccio, per un’altra delusione d’amore. Questa volta non si trattava di un aviatore ma di un intellettuale tedesco. Costui dopo averla sposata le aveva chiesto: «Ti dispiace se ospitiamo mia sorella?». Solo che non era la sorella, era l’amante. E questo è puro Avati Touch, il tocco che troviamo nei suoi film.
Non meno avvincenti sono i racconti di Avati sulla sua giovinezza. Sono racconti che somigliano a una canzone jazz. Non solo per la sua passione per quel tipo di musica e per il clarinetto (passione che si spense quando trovò un rivale insuperabile, proprio sulla piazza di Bologna, in Lucio Dalla), ma per la fascinazione che hanno sempre esercitato su di lui le vite dannate dei grandi jazzisti. Avati cercò di emularli, esistenzialmente parlando, e il suo exploit in materia furono le diciassette bottigliette di Campari soda che scolò una dietro l’altra pur di vincere una scommessa al bar Margherita (il ritrovo della bohème bolognese dell’epoca).

Democristiano confesso. Un capitolo a parte è rappresentato dalla folgorante carriera di Avati come intraprendente rappresentante della Findus (che sbarcava allora con i suoi surgelati alla conquista dell’Italia). Aveva deciso di mettere la testa a posto e aveva sposato Nicola. Sembrava avviato a una vita tranquilla ma la sirena del cinema fu più forte malgrado l’inizio fosse tra i più disastrosi con due flop colossali. Tanto che Avati decise di tagliare la corda. Caricò la famiglia sulla macchina (una Giulia) e fuggì nottetempo da Bologna per sfuggire a un destino che lo terrorizzava, quello della macchietta di provincia, la macchietta del regista fallito (ce n’era già uno di regista fallito sulla piazza, si chiamava Bill Balena, un monito ambulante per Pupi).
Dopo, come sappiamo noi, suoi estimatori, è andata decisamente meglio. E Avati è diventato il regista che conosciamo. Quello che ha scoperto e lanciato (riscoperto e rilanciato) tanti attori e attrici: da Diego Abatantuono a Mariangela Melato, da Renzo Delle Piane a Gianni Cavina, da Neri Marcorè a Nik Novecento. Per non parlare del suo Tognazzi che è stato, forse, il Tognazzi più intenso di tutti quelli visti dalla nostra vita di spettatori.
Finita di leggere, con divertimento e intenerimento (e anche, come si è visto, con qualche brivido), la sua autobiografia, Avati resta comunque un tipo difficile da definire. E non solo perché lui stesso mette in guardia, sin dalla prima riga dell’autobiografia, i lettori confessando di essere un gran bugiardo. Dove finisce l’invenzione e dove comincia la verità?
Di sicuro per capire chi è veramente Avati, bisogna pensare che è uno che aveva il coraggio di dirsi democristiano (e sfidare l’impopolarità che ne derivava) quando quasi non ammettevano di essere scudocrociati nemmeno i leader massimi del partito. Ma, allo stesso tempo, è uno che ha scritto la sceneggiatura di Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini, l’opera più maledetta nella storia del cinema italiano. E che di quell’esperienza conserva gelosamente, come una reliquia, il Meridiano di Baudelaire che Pasolini gli diede, tutto sottolineato con la sua penna stilografica, per trarne battute per il film.

Antonio D’Orrico