Lorenzo Cremonesi, Sette 8/3/2013, 8 marzo 2013
COSÌ LA BARBARIE UCCIDE ALEPPO, PERLA DELL’UMANIT
Quando tacciono le armi impera un silenzio irreale, totalizzante, ostile. Ogni tanto lo sgocciolare ritmato dalle grondaie bucate, il fruscio leggero del vento invernale tra le lamiere divelte, il miagolio rissoso di tre gatti che si contendono qualche cosa di marcio scavato tra le montagne di spazzatura. Ce ne sono a migliaia, per qualche strano motivo invece non si vedono cani che in genere prolificano indisturbati nelle zone di guerra e diventano una piaga pericolosa. Gli uomini sono rare ombre che corrono lungo i muri. Più ci si avvicina alle barricate di macerie presso l’immaginaria linea di confine, che cambia di ora in ora e dovrebbe segnare la separazione tra brigate ribelli e militari lealisti, più la distruzione aumenta. Dalle zone buie, i balconi nascosti, le finestre sventrate, i vicoli più stretti, incombe perenne la minaccia dei cecchini. Potrebbe essere Sarajevo venti anni or sono, oppure Beirut dieci anni prima, o Sirte solo due estati fa. I palazzi sono scheletri di cemento bucherellati dalle pallottole. Dove le bombe hanno infierito con più forza restano solo colline di detriti. Da quasi sei mesi è cessata qualsiasi raccolta sistematica dell’immondizia. Le strade, anche quelle più lontane dai quartieri al cuore della battaglia, ne sono invase. Su tutto domina l’olezzo dolciastro della decomposizione. «Adesso va ancora bene. Il freddo in qualche modo frena il diffondersi delle epidemie. Ma presto i primi caldi aggiungeranno tragedia alla tragedia», paventano tra la popolazione. La mancanza d’acqua pulita rende più difficile lavarsi, sono comparse le malattie della pelle tipiche del terzo mondo. Un bambino su tre ha il viso tumefatto da punture d’insetti ed eritemi.
Morte di una città storica. Così, giorno dopo giorno, muore Aleppo. La Perla della Siria, l’antico centro commerciale punto di passaggio tra Occidente e Oriente, si sta lentamente suicidando. «Uno dei poli urbani sulla Terra dove l’uomo ha risieduto in permanenza sin da cinque millenni prima di Cristo», come si legge sulle locandine turistiche locali, sta distruggendo uno dopo l’altro tutti i suoi tesori immensi, unici, insostituibili. Lo capisci presto, già al punto di passaggio sulla frontiera dalla Turchia al villaggio di Killis, che la situazione è al collasso. Subito incontri le tendopoli di profughi accampati nel fango. Cercano tutto, non hanno nulla. Cinque chilometri dopo arrivi alla moschea centrata dalle bombe dei jet di Bashar Assad nella piazza della cittadina di Azaz. Nel settembre scorso qui gli scontri erano quotidiani: lo testimoniano le carcasse della dozzina di carri armati lealisti bruciati dalle brigate ribelli. Aleppo è a meno di cinquanta chilometri: sono il calvario delle decine di migliaia di disperati in fuga verso nord. La stima è che oltre la metà dei quattro milioni di residenti nella seconda città del Paese sia fuggita. Circa 150.000 approdati in Turchia, il resto disperso nei villaggi della regione, accampato in ricoveri di fortuna per le campagne siriane che d’estate sono forse accettabili, ma d’inverno diventano antri gelati, affumicati dai fuochi dei bivacchi.
Infine sono le brigate dei ribelli locali a fare da scorta al visitatore che arriva dall’estero. Senza una valida guida sarebbe perduto, finirebbe facilmente vittima del dedalo di strade a rischio, colpito dai cecchini, dagli improvvisi scambi a fuoco, derubato, preso in ostaggio per denaro, oppure catturato dalla soldataglia della “shabiha”, la milizia pro-Assad che collabora strettamente con i gruppi dell’Hezbollah (il “Partito di Dio”) libanese sostenuto e finanziato dall’Iran ed interessato a “prigionieri eccellenti” da scambiare con i propri uomini caduti nelle mani delle brigate rivoluzionarie. I miliziani dell’Esercito Siriano Libero sostengono di controllare dai primi dell’anno circa il 60 per cento della città. In verità, la situazione cambia continuamente. La cittadella fortificata domina larga parte del mercato coperto e della città vecchia. È dall’inizio del braccio di ferro armato per il controllo di Aleppo, il 12 luglio 2012 (ben 15 mesi dallo scoppio delle rivolte nel Paese), che i ribelli cercano di prenderla. Ma inutilmente. Le sue torri merlate, le feritoie strette sugli spalti da cui è facile sparare restando protetti, le mura medioevali ben costruite sin dal periodo mammalucco circa 700 anni fa, costituiscono barriere tuttora formidabili. Da qui partono spesso incursioni delle pattuglie lealiste, che a ondate scacciano le forze nemiche. Le tipologie di combattimento ricordano quelle tra israeliani e palestinesi nella Striscia di Gaza e larga parte delle situazioni tradizionali di scontro all’interno di grandi zone urbane. I gruppi armati delle due parti si muovono di blocco in blocco tra i palazzi, scavando varchi nei muri tra le stanze per evitare di uscire all’aperto.
La scuola nel quartiere di Mustafa Al Alqab ha diverse classi bucate in questo modo. Ma il danno diventa particolarmente grave quando a farne le spese sono le antiche abitazioni in granito, marmo e legno nella città vecchia. Sono come ferite nelle vestigia della storia. Offese contro questo che è stato catalogato tra i grandi tesori dell’umanità, patrimonio dell’Unesco. Ci trovi i crocifissi delle varie comunità cristiane, i libri degli armeni, dei curdi, fotografie retaggio della tradizione di secolare convivenza pacifica tra fedi e gruppi diversi ora annientate dal conflitto. Polvere, vetri rotti, calcinacci, incendi, hanno fatto scempio dei tappeti; i mobili in cedro del Libano pregiato, gli arazzi damasceni sono sfregiati per sempre. Gli appartamenti appaiono abbandonati in fretta e furia. Resti di cibo sulla tavola, tovaglie e coperte al loro posto, stoviglie, posate, vestiti, giochi di bambini. Nel bagno spazzolino e dentifricio sono ancora sul lavabo. È ovvio che gli abitanti quasi sempre sono partiti senza preavviso. Si erano illusi di poter restare, oppure davvero non avevano un ricovero dove scappare. E hanno perduto tutto, compreso le vetture che sono diventate carcasse vuote ad arrugginire nella strada di fronte all’uscio sfondato, oppure inglobate nelle barricate tutto attorno.
Il castello crociato. Tra i quartieri più devastati è quello di Salahaddin, il primo che venne occupato dalle milizie rivoluzionarie tra luglio e agosto. Da qui, in autunno, lo scontro ha raggiunto il cuore delle zone che una volta erano tappa classica dei turisti in arrivo da Damasco e Palmira e destinati poi verso la costa e l’inevitabile Krak de Chevaliers, il più famoso castello dell’epoca crociata situato non lontano da Latakia e a sua volta danneggiato dalle bombe l’estate scorsa. Colpito il Baron, l’hotel costruito nel 1911 nel quartiere armeno dove Agatha Christie scrisse ispirata Assassinio sull’Orient Express. Qui soggiornò a lungo Lawrence d’Arabia. Nel registro rilegato in cuoio intarsiato leggi i nomi di Theodore Roosevelt e Winston Churchill. Il 10 ottobre è stata anche danneggiata la moschea Ommayade, eretta nel 715 dopo Cristo. Offesa prima dai mortai dei ribelli, poi dalle bombe lealiste. Da allora la situazione non ha fatto che peggiorare. Evacuati gli ospedali, presi a bella posta di mira per ordine di Assad. I ribelli hanno allora allestito una dozzina di cliniche di fortuna, dove si muore senza morfina. Ultimamente gli scontri più duri si svolgono nella zona dell’aeroporto internazionale. Il regime perde terreno e se la prende ancora di più con la popolazione civile, nella speranza che a sua volta questa reagisca esasperata contro le brigate ribelli. Così sono aumentati i tiri dei missili balistici Scud. Cadono a casaccio sulle abitazioni. Ad Aleppo ormai non c’è più area sicura e la barbarie impera sovrana.
Lorenzo Cremonesi
(Prima puntata - segue)