Vittorio Malagutti, Luca Piana, l’Espresso 8/3/2013, 8 marzo 2013
OGNI BANCA LA SUA CASTA
Mentre l’onda anomala grillina irrompe nel più giovane Parlamento della storia della Repubblica, c’è una casta di vegliardi che perpetua il suo potere. Sono i presidenti della fondazioni bancarie. Gestiscono un tesoro che vale decine di miliardi e pacchetti azionari decisivi per gli equilibri azionari di gran parte del sistema bancario, a cominciare da Unicredit e Intesa, insieme a molti altri istituti minori. È un plotone di personaggi a dir poco eterogeneo quello che tira le fila degli enti nati nel 1990 con la cosiddetta legge Amato che privatizzò le casse di risparmio. Ne fanno parte notabili locali, ex parlamentari, baroni universitari, politici trombati, banchieri in pensione. Li unisce, con poche eccezioni, una straordinaria resistenza agli eventi. La crisi finanziaria esplosa nel 2008 ha innescato ribaltoni ai piani alti delle principali banche nazionali. I vertici delle fondazioni, invece, sono ancora al loro posto. Tutti o quasi tutti. A Milano con la Cariplo, così come a Padova, a Treviso, Genova e Venezia, per citare solo i casi più eclatanti. Alcuni presidenti regnano da un paio di decenni e non hanno nessuna intenzione di mollare la poltrona. Anzi, si aggrappano a ogni cavillo legale per rimandare il pensionamento a data da destinarsi. I risultati contano poco o niente. Il bilancio tiene botta? Rinnovo assicurato con tanto di applausi di rito. Il conto economico galleggia a malapena? Tutto bene comunque. Il numero uno non si discute.
Ad aprile, per dire, è in calendario il rinnovo dei vertici della Cariplo, la fondazione più ricca e importante di tutte, grande azionista di Intesa. Cambia niente: salvo clamorose sorprese il presidente sarà ancora lui, Giuseppe Guzzetti, l’ex politico democristiano che dal 1997 siede sulla poltrona di presidente dell’ente milanese e guida anche l’Acri, l’influente associazione di categoria, una vera e propria lobby, che rappresenta le 88 fondazioni di origine bancaria. Guzzetti, classe 1934, ha 78 anni. Il suo nuovo mandato scadrà nel 2019, quando il numero uno di Cariplo arriverà a 84 primavere. Un’età veneranda, certo. A quanto sembra, però, non è abbastanza veneranda per dedicarsi finalmente ad altro. La pensano di sicuro in questo modo anche i consiglieri generali della Fondazione Cariparo (Padova e Rovigo), importante azionista di Intesa. Venerdì primo marzo i 28 grandi elettori dell’ente patavino hanno rinnovato il mandato al presidente uscente Antonio Finotti. Il quale, nato nel 1928, ha compiuto 84 anni nel novembre scorso. Nel 1997 Finotti era già segretario generale della fondazione di cui è diventato presidente nel 2003. Nel 2018, quando scadrà l’incarico, avrà quindi accumulato qualcosa come 21 anni ai piani alti dell’ente. Un record? Macché: l’ex parlamentare Dino De Poli comanda a Treviso addirittura dal 1987. Questo fatto non ha però impedito ai consiglieri della trevigiana Cassamarca (azionista Unicredit) di affidare a De Poli, classe 1929, altri sei anni di mandato, a partire dal dicembre 2012. La nomina, raccontano le cronache, sarebbe avvenuta addirittura per acclamazione.
I meccanismi stessi con cui vengono eletti i vertici delle fondazioni sembrano studiati apposta per scoraggiare le velleità di rinnovamento. Gli organi gestionali degli enti sono di solito espressione dei potentati locali (comuni, provincie, diocesi, camere di commercio), ma succede spesso che l’ultima parola sulle candidature spetti agli stessi componenti dei consigli da rinnovare. È vero che negli statuti di recente è stato introdotto un limite alla durata degli incarichi pari a due mandati. La regola però non è retroattiva. Ecco perché alcuni presidenti in carica da dieci anni e più hanno potuto candidarsi a successori di se stessi. Il rinnovamento può attendere. E intanto le fondazioni, anche loro colpite pesantemente dalla tempesta globale della finanza, si trovano a vivere la stagione più difficile della loro storia.
Tutti ormai conoscono il film dell’orrore che è andato in onda a Siena, dove la locale fondazione si è letteralmente svenata nel tentativo di non mollare la presa sul Monte dei Paschi. Anche altrove però non mancano le situazioni sul filo del rasoio. Banche grandi e piccole hanno ridotto o cancellato i dividendi. E questo ha finito per prosciugare la principale fonte di reddito degli enti azionisti. Peggio ancora: il crollo delle quotazioni dei titoli bancari ha scavato solchi profondi nei conti delle fondazioni. Perdite solo virtuali, per il momento, visto che le generose norme contabili in materia consentono di non adeguare il valore di bilancio a quello di mercato. Poco male, allora, se non fosse che con le casse vuote diventa difficile garantire sostegno al territorio, che poi sarebbe il compito principale delle fondazioni, nate come enti non profit e autonomi che "perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico", come spiega il sito Internet dell’Acri.
Le statistiche descrivono con chiarezza la crisi del sistema. Dal 2007 al 2011, ultimo anno di cui si conoscono i dati, i finanziamenti concessi dalle 88 fondazioni bancarie sono calati del 36 per cento, passando da 1,7 miliardi di euro a poco più di un miliardo (1.052 milioni). Meno soldi quindi, per centinaia di iniziative culturali e sportive, per il volontariato e la ricerca scientifica. E tutto questo in un periodo in cui la stretta sui conti pubblici sta mettendo a dura prova il welfare di Stato. Poteva andare anche peggio, come sottolinea l’ultimo rapporto dell’Acri, se si considera che nel 2011 gli avanzi di gestione delle fondazioni sono complessivamente diminuiti del 68 per cento. Come dire: abbiamo fatto il possibile. E anche di più.
Di fatto alla prova della crisi, invece, molte grandi fondazioni si sono fatte trovare impreparate. E il motivo è semplice: hanno concentrato la gran parte del loro patrimonio nelle azioni di un solo istituto di credito, quello di cui erano originariamente azionisti di controllo, la cosiddetta banca conferitaria, per dirla nel gergo degli addetti ai lavori. Nella maggior parte dei casi la stessa banca conferitaria, per via di aggregazioni successive, è stata poi assorbita da grandi gruppi di cui le fondazioni sono rimaste azioniste. È andata a finire, per fare solo due esempi, che ai valori di bilancio del 2011, gli ultimi disponibili, la quota del 3,5 per cento in Unicredit valeva quasi i due terzi del patrimonio di Cariverona. Mentre l’Ente Cassa di Firenze possiede il 3,3 per cento di Intesa che da solo assorbe quasi i tre quarti dei mezzi propri. In teoria le fondazioni avrebbero dovuto cedere poco per volta le loro partecipazioni nelle banche conferitarie per diversificare il rischio su un portafoglio più ampio di attività. Hanno avuto tutto il tempo di farlo all’epoca delle vacche grasse, nella prima metà del decennio scorso quando le quotazioni dei titoli creditizi viaggiavano al rialzo sull’onda del boom della finanza. E invece gli enti azionisti hanno preferito mantenere ben salda la presa su quelle quote strategiche, che assicurano potere e visibilità. «Avevo impostato un programma di diversificazione ma i titoli Intesa rendevano molto e valevano molto», ha spiegato qualche mese fa al "Corriere della Sera" il presidente della Fondazione Carisbo (Bologna), Fabio Roversi Monaco, che lascerà la poltrona il mese prossimo. Una scelta dalle conseguenze disastrose, perché a partire dal 2008, con il crollo dei listini azionari, quei tesoretti custoditi gelosamente in cassaforte hanno perso buona parte del loro valore. E a quel punto, anche volendo, diventava difficile smobilizzare anche solo in parte quelle quote azionarie, se non a prezzi di saldo e facendosi carico di minusvalenze pesantissime.
Peggio ancora. Nel 2011 grandi istituti come Unicredit e Intesa sono stati costretti a chiedere soldi agli azionisti per rafforzare il patrimonio così come richiesto dalle autorità di vigilanza. E alcune Fondazioni, pur di non mollare la presa, sono arrivate a indebitarsi pur di racimolare il denaro necessario a sottoscrivere gli aumenti di capitale. È il caso della Cariparo (Padova e Rovigo) e della già citata Carisbo. Entrambe hanno preso in prestito decine di milioni pur di non far mancare il loro sostegno a Intesa che nel 2011 ha chiesto mezzi freschi in Borsa. Debiti per comprare azioni. Una scelta che a prima vista non sembra in linea con la missione delle fondazioni, chiamate a sostenere il territorio di riferimento con i proventi della gestione delle attività. Non si ha notizia, però, di interventi delle autorità di vigilanza, a cominciare dal ministero del Tesoro, ai tempi retto da Giulio Tremonti, per richiamare all’ordine gli enti.
Alla fine la mina innescata anni prima è esplosa a Siena. Per ben due volte, prima nel 2008 e poi nel 2011, i vertici della Fondazione di palazzo Sansedoni non hanno trovato di meglio che chiedere soldi al sistema bancario per sottoscrivere gli aumenti di capitale varati dal Monte dei Paschi. Una scelta suicida, come si è visto. La banca, travolta da una gestione a dir poco avventata, ha accumulata perdite colossali, con il conseguente crollo del titolo. E la Fondazione ha visto precipitare il valore del principale asset in bilancio. Morale della storia: l’ente senese alla fine ha dovuto comunque rassegnarsi a scendere ben sotto la maggioranza assoluta del capitale Mps, fino all’attuale 37 per cento circa. Con la prospettiva di dover presto cedere altre azioni per far fronte ai debiti. La fondazione guidata da Gabriello Mancini si è tenuta stretta fino all’ultimo anche altre attività non proprio strategiche, come le quote in Banca Intesa e in Mediobanca. La prima delle due è stata in parte ceduta nel giugno del 2011 proprio alla Cariplo di Guzzetti che ha sborsato circa 104 milioni per lo 0,3 per cento circa dell’istituto milanese guidato da Giovanni Bazoli. Non proprio un affare, visto che in quei giorni la quotazione di Intesa si aggirava intorno a 1,8 e nei mesi successivi è scesa fin sotto quota un euro, mentre di questi tempi viaggia intorno a 1,2 euro. Ma per la Fondazione senese a corto di denaro quei 100 milioni erano una sorta di salvagente a cui aggraparsi. E così è scattato il pronto soccorso del collega Guzzetti. Con il senno di poi non è servito a granché.
Vittorio Malagutti
C’È UNA CONSOB NEL MIRINO –
Nella storia recente del Monte dei Paschi di Siena c’è un periodo di buio lungo un anno, cinque mesi e quindici giorni, sul quale sarà presto chiamata a indagare la magistratura. Un black-out durante il quale la Consob - l’autorità che vigila sui mercati finanziari - non ha usato i suoi poteri per far emergere le condotte dei vecchi dirigenti della terza banca italiana. Lo sostengono due differenti esposti presentati in questi giorni alle procure di Roma e di Siena da due associazioni di difesa dei risparmiatori, la Federconsumatori e l’Adusbef. Le quali, in autonomia l’una dall’altra, hanno ricostruito le lacune che si sono verificate nei controlli tra due momenti chiave dell’intera vicenda.
Tutto nasce dall’ormai famosa denuncia anonima inviata all’autorità presieduta da Giuseppe Vegas il 2 agosto 2011, nella quale un dirigente della banca descriveva varie operazioni su cui stanno ora indagando i pm senesi. Operazioni che, al pubblico, sono state rese note in modo compiuto solo a partire dallo scorso 16 gennaio, il giorno delle prime rivelazioni di stampa sulle perdite causate dai contratti Santorini e Alexandria.
Che cosa ha fatto la Consob nell’anno e mezzo dopo la denuncia anonima, durante il quale gli investitori sono rimasti all’oscuro di quanto avveniva a Siena? Vegas ha fornito le sue spiegazioni in un’intervista a "il Messaggero", raccontando che furono richieste informazioni prima all’istituto senese e poi alla Banca d’Italia, che «già aveva in corso un’ispezione». Ha anche rivelato che il 25 ottobre 2012 i nuovi vertici del Monte, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, si sono presentati da lui, facendo emergere gli ultimi segreti di quei contratti, che oggi pesano come macigni sui bilanci.
Le spiegazioni di Vegas, tuttavia, non sono bastate a Federconsumatori e Adusbef, che hanno deciso di chiedere alla magistratura di aprire un’indagine. Non viene ipotizzata solo l’omissione di atti d’ufficio ma, anche, il concorso nei reati per i quali sono indagati i vecchi dirigenti del Monte: dall’ostacolo alla vigilanza alla manipolazione dei mercati.
Entrambi gli esposti puntano il dito su un’apparente incongruenza nel comportamento di Vegas: è stato lui stesso a raccontare che, negli accertamenti seguiti alla denuncia anonima, a un certo punto si è rivolto alla Banca d’Italia «per acquisire informazioni circa le questioni su cui stavamo indagando». Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori, osserva però che la Consob ha in questa materia poteri di polizia giudiziaria paragonabili a quelli dei magistrati, negati alla Banca d’Italia. Ricorda, per di più, che la legge assegna sempre alla commissione di Vegas una competenza esclusiva quando si parla di falso in bilancio. E nota, infine, che la Consob aveva al suo interno dei super-esperti di derivati finanziari, impiegati nel cosiddetto «Ufficio Analisi Quantitative». «Questo ufficio, nel caso delle indagini sul Monte, non venne però mai coinvolto», scrive Trefiletti.
Fatto sta, dicono i due esposti, che il mercato non ebbe informazioni adeguate sui derivati incriminati. Lo prova un esame che la Federconsumatori fa dei report degli analisti pubblicati dopo la visita di Profumo e Viola in Consob, tutti più o meno positivi. E qui c’è spazio per un altro attacco a Vegas. Proprio nelle ultime settimane del 2012, quando già le autorità conoscevano la salute incerta della banca, si diffusero voci di una scalata e in Borsa il titolo del Monte cominciò a volare. La commissione fece sapere di «aver acceso un faro» per verificare queste ipotesi. «Sarebbe stato auspicabile che invece di accendere fari che hanno sortito l’effetto di alimentare false voci», è l’affondo di Trifiletti, «la Consob avesse diffuso i contenuti dell’esposto anonimo» arrivato l’anno prima. Altro che scalata: oltre ai soliti furbi, anche i risparmiatori avrebbero avuto chiaro che la banca camminava sul filo.
Luca Piana