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 2013  marzo 08 Venerdì calendario

MISTERO CERVELLO

Era il 1949 quando John Cade scoprì le proprietà sedative del litio. «E fu l’inizio di un’età dell’oro della psicofarmacologia»: parola del direttore del National Institute of Mental Health statunitense, Thomas Insel. Perché a partire da quel momento, in dieci anni, nacquero i capofila degli psicofarmaci attuali: antidepressivi, ansiolitici, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici per gli schizofrenici. Per le cure mentali fu una rivoluzione. I malati poterono lasciare i manicomi. Un’età dell’oro, appunto. Poi più niente, o quasi.
Gli psicofarmaci oggi non sono molto migliori di quelli di cinquant’anni fa. E le malattie neurologiche restano pressoché prive di terapie. Parkinson, Alzheimer, Sclerosi: nessuno sa veramente come affrontarle. Giacché il cervello è oggi il più grande mistero della medicina, arduo da curare perché è ostico da indagare.
Ma la "questione neurologica" è così urgente che lo stesso presidente Obama, nei giorni scorsi ha posto la mappatura del cervello umano come obiettivo scientifico prioritario per i prossimi 10 anni. Nella speranza che uno sforzo unitario sotto l’ombrello federale permetta di trovare il bandolo di una matassa inestricabile. Alla quale la Bibbia della scienza americana "Science" ha dedicato un numero speciale.
troppo difficile
Perché la mente sia così ostica da curare è il primo dei grandi misteri del cervello individuati da "Science". Perché proprio la sua unicità ne fa l’organo umano più arduo da studiare. e sul quale è praticamente impossibile sperimentare Di norma non si possono prelevare biopsie, e comunque un grumo di neuroni dice poco su come funzionano le reti di circuiti che scorrono dentro e sotto la corteccia. Le indagini sono per lo più indirette, con tecniche di visualizzazione come la risonanza magnetica o con test psicologici. In questo buio sarebbero essenziali i modelli animali. Ma nessuno ha un cervello come il nostro: alcuni centri nervosi hanno equivalenti in topi o scimmie, altri no. Così, in realtà non abbiamo veri modelli di una malattia. E per questo molte industrie stanno abbandonando il settore. Forse a torto, proprio ora che una schiera di nuove tecniche - dalla genomica che rivela nuovi bersagli per i farmaci, alle cellule staminali che ricreano in vitro neuroni malati - sta finalmente liberando l’immaginazione dalla lunga prigionia.
Perché così grande
A che ci serve un chilo e mezzo di cervello, il triplo di un gorilla o uno scimpanzé? Nel senso comune più materia grigia vuol dire più intelligenza, ma per gli scienziati la faccenda è più complicata. Da una ventina d’anni l’idea più in voga è quella del "cervello sociale", formulata dallo psicologo di Oxford Robin Dunbar, secondo cui il cervello sarebbe cresciuto per gestire la fitta rete di relazioni sociali che caratterizzano la vita dei primati, e soprattutto dell’uomo: tener traccia di chi è chi, chi ci ha fatto cosa, che relazioni hanno gli altri, cosa attendersi da ciascuno. La capacità di elaborazione imporrebbe un limite al numero di consimili con cui si hanno rapporti significativi, che per noi umani oscilla sui 150, è il "numero di Dunbar", che egli spiega nel libro "Di quanti amici abbiamo bisogno?" (Raffaello Cortina, 2011).
Dunbar cita a sostegno parecchie osservazioni negli animali e nell’uomo, persino sugli amici di Facebook. E un fatto altrimenti strano: il cervello, il 2 per cento della massa corporea, consuma il 20 per cento dell’energia a riposo; e molti circuiti sono più attivi mentre non facciamo niente che non quando leggiamo o ragioniamo, e si attivano ancor più durante attività sociali. La nostra prima preoccupazione, insomma, sembra quella di monitorare di continuo l’ambiente sociale. E le altre specie senza questa esigenza lo avrebbero tenuto piccolo per risparmiare energia.
Ci sono però dati in controtendenza: gli oranghi dal grande cervello vivono in gruppi piccoli, e l’opposto vale per iene e pipistrelli. C’è quindi chi propone alternative più articolate, che includono fra i motori dell’evoluzione anche capacità pratiche, come produrre strumenti e procurarsi il cibo, o culturali, come trasmettere le conoscenze ai figli.
cosa ci rende unici
In che modo i geni e le esperienze rendono ciascun cervello unico? Un punto fermo c’è: per quasi ogni aspetto, dall’intelligenza all’estroversione al rischio di malattie, geni ed esperienze hanno entrambi un ruolo. «La sfida fra eredità e ambiente si è chiusa in pareggio», dice "Science". Ma in che modo i due motori cospirino a plasmare la nostra mente resta da chiarire.
Le interazioni sono complicate. Un esempio è l’intelligenza: le differenze dipendono al 20 per cento dai geni nei bambini, ma fino all’80 negli anziani, come se l’influsso genetico iniziale si autoalimentasse attraverso l’ambiente, con la scelta di attività che sviluppano o meno l’intelletto. «Forse c’è chi è propenso a leggere libri e chi a lobotomizzarsi alla tv», azzarda il genetista comportamentale Robert Plomin del Kings College London. Inoltre l’IQ sembra legato a dimensioni e vivacità di alcuni centri cerebrali, ma in persone con pari punteggio queste aree sono sviluppate in modi diversi: i vari cervelli trovano vie distinte per la stessa meta.
A complicare tutto si aggiunge il caso. Si è scoperto che anche due gemelli, cresciuti nello stesso utero con genomi identici, sono un po’ diversi nei meccanismi che accendono e spengono i geni a seconda delle situazioni (le cosiddette modifiche epigenetiche). Questi meccanismi sono poco precisi, e generano una variabilità che porta genomi uguali, per puro caso, a funzionare diversamente.
Insomma, il rebus è più che intricato anche perché caratteri complessi come emozioni e comportamenti sono influenzati da migliaia di geni.
Ricordi futuri
Fra ciò che ci rende unici ci sono i ricordi. «È sempre stata l’area di studio più importante: tutto il cervello è memoria», concorda Alfonso Caramazza, un decano della neuropsicologia cognitiva, docente ad Harvard e direttore fino al novembre 2012 del Centro interdipartimentale mente/cervello all’Università di Trento, dove resta ricercatore: «Che non è tanto un mezzo per conoscere il passato quanto per figurasi il futuro».
Tra i tanti enigmi, il più profondo è come i ricordi vengano recuperati. Che non è come prendere una foto da un cassetto. Ricordare è ricostruire: la memoria di un evento è frammentata in zone diverse del cervello, e recuperarla significa rimetterne insieme i componenti (visioni, odori, suoni…). Resta però da capire come il cervello vada a ripescarli.
Ricordare è rivivere: nel farlo riattiviamo gli stessi meccanismi e circuiti usati per vivere l’esperienza reale, le aree visive per le immagini, quelle motorie per i percorsi e così via. Ma soprattutto, ricordare è riplasmare. Ogni volta che richiamiamo alla mente un ricordo, poi torniamo ad archiviarlo un po’ alterato. Ciò è essenziale per integrare le nuove informazioni nell’architettura delle nostre conoscenze, ma altera i ricordi vecchi, che perciò non sono sempre affidabili.
Lo voglio più plastico
La capacità del cervello di plasmarsi in risposta all’ambiente è massima nell’infanzia, come sa ogni adulto che studi una lingua. Come mai? E c’è modo di recuperare la plasticità quando serve? Nei topi la capacità di creare nuove connessioni fra i neuroni, cioè imparare, con l’età non scompare nel nulla, ma è bloccata da precisi segnali molecolari. Eliminandoli con manipolazioni genetiche, gli animali acquisiscono una straordinaria capacità di recupero da ictus o cecità temporanea. Resta da capire che guai abbiano in cambio: un cervello troppo pronto a riorganizzarsi per esempio sembra maggiormente colpito da crisi epilettiche.
Meno drasticamente, i freni sembrano allentati anche da certi farmaci, in sperimentazione per il recupero dall’occhio pigro e dall’ictus. Ma anche le esperienze possono fare molto, come mostrano gli studi nei ciechi. «Qui abbiamo i dati più interessanti», dice Caramazza: «Stiamo scoprendo che nei ciechi le aree visive sono usate per elaborare altri stimoli, ma mantenendo la loro organizzazione. Una regione che elabora gli stimoli della lettura, per esempio, è attivata da stimoli tattili o uditivi, ma continua a codificare le informazioni secondo i suoi principi, come fossero visive. Studiare la plasticità quindi ci avvicina anche a capire il funzionamento intimo del cervello».
Terre di nessuno
Ci sono poi una serie di questioni irrisolte sulle quali gli scienziati non hanno ipotesi consolidate. Ad esempio, si sa che nel cervello non ci sono solo neuroni , ma ci sono parecchi altri tipi di cellule nervose. Fra questi gli astrociti, che formano quasi metà del cervello: si sa che partecipano alle attività dei neuroni, intervengono nelle loro comunicazioni e sono danneggiati in varie malattie, ma poco altro. Come, mentre alcune regioni cerebrali sono studiatissime, altre restano tuttora quasi inesplorate. I loro nomi sono poco noti, come habenula o corteccia retrospleniale. Ma a qualcosa dovranno pur servire.
Le strutture cerebrali ancora misteriose sono diverse: ad esempio ci sono molecole-segnale che fanno da freno alla rigenerazione del cervello nei mammiferi e glielo impediscono. A che servono? Come funzionano? E soprattutto come possiamo rimuoverle nei malati con lesioni spinali o cerebrali? E poi: il sistema immunitario interagisce in molti modi con quello nervoso, e molte proteine immunitarie agiscono anche nel cervello, ma ben poco si sa di come i due sistemi cooperano e si influenzano l’un l’altro.
Infine, il mistero che ha a che fare con la più umana delle attività cerebrali, l’accumulo di informazione. Che si tratti di percepire, ricordare, ragionare o decidere, il cervello funziona elaborando informazioni. Ma è buio fitto sui modi in cui l’informazione è codificata nella sua attività, nelle successioni spaziali e temporali dei neuroni che si accendono e si spengono.