Rita Cirio, l’Espresso 8/3/2013, 8 marzo 2013
IL TEATRO SECONDO LUCA
Ottant’anni compiuti l’8 marzo, sessanta trascorsi nel teatro. Luca Ronconi ci racconta qualcosa di sé e molto della passione della sua vita. Ci diamo del tu.
Si sa tutto del tuo teatro, che vivi per e nei teatri, ma cosa fai nei rari intervalli? Leggi, viaggi?
«Sono bloccato con la salute da cinque anni. Superata l’età della pensione e oltre mi piacerebbe vedere i posti che non ho avuto tempo di visitare, tornare in Africa, dove sono nato, nell’Africa francofona. Ho fatto, per rivincita sulla dialisi, un viaggio nei fiordi, perché in certe crociere puoi fare anche la dialisi. Leggere l’ho fatto sempre, adesso leggo un trattato sulle formiche. E poi rileggo, serve a prendere le distanze da com’eri quando hai letto la prima volta un testo. Al cinema vado poco, a teatro vedo quello che passa il convento».
Amici?
«Pochi, sempre meno, selezione naturale».
Una qualità che ti riconosci?
«La pazienza».
Credevo la curiosità, si capisce dal tuo lavoro.
«Certo quella sempre, ma per mantenere viva la curiosità per quello che succede ci vuole una bella dose di pazienza».
Della malattia hai parlato tu. Come ti ha cambiato?
«Cinque anni fa, quando sono stato lì lì, ho come tirato un catenaccio, la frattura è stata molto forte, ho capito che mi erano dati a credito dei tempi supplementari, non è male mettersi tra parentesi, vedere se hai ancora forze sufficienti per considerarti un’altra persona e vivere in maniera ottimistica gli inconvenienti della vita».
Mi pare che hai accentuato un tuo lato ironico.
«L’ho sempre avuto e man mano che il territorio in cui operi perde importanza, è più agevole osservare con occhio disincantato».
Premesso che il teatro è il grande amore della tua vita, ti ha mai fatto soffrire?
«Non parlo di vocazione, ma fin da piccolino non ho avuto dubbi, quello era il mio mondo. No, non mi ha mai fatto soffrire, perché è stato sì gran parte della mia vita, ma non è la cosa più importante del mondo. Non ho mai pensato, come si diceva negli anni Sessanta, che il teatro può cambiare il mondo, è un’esperienza minoritaria, un lampo di conoscenza che ha la durata di un lampo di magnesio».
Può essere terapeutico o patogeno.
«Per me è stato terapeutico, generoso anche se ho patito qualche botta. È un vantaggio incommensurabile essere sempre discusso invece di un successo plebiscitario. Essere discussi rende resistenti alla frustrazione: un eccesso di frustrazione è atroce e allora diventa patogeno. Spesso sono stato molto antipatico e a volte l’antipatia per la persona si è spostata sulla antipatia per l’opera e viceversa».
Come si è evoluto il rapporto con la critica?
«La critica è un fenomeno storico, a volte tende a dire oggi queste cose si fanno o non si fanno. Chi ha fatto teatro per 60 anni come me non può non essere un continuo alto e basso. Le mode teatrali durano cinque o sei anni. Io sono stato fuori moda per anni, fin troppo di moda con l’"Orlando", poi, durante il Laboratorio di Prato fuorissimo di moda, del tipo "queste cose non si fanno"».
Esempio di teatro patogeno: cosa non andava nel tuo essere attore anche se eri una giovane speranza?
«Non corrispondevo all’idea di attore che c’era allora e poi non inseguivo il successo, cosa che per me è stata salvifica. Il tipo di teatro allora erano le commedie americane in jeans che non mi interessavano».
Sei stato anche Arlecchino, chissà com’eri.
Nella "Buona moglie" ero in un costume a pezzi, un Arlecchino ubriacone, manesco, picchiavo la moglie, finivo sotto un tavolo, ma niente commedia dell’arte, Soleri e quelle cose lì».
Un insospettabile come Kevin Costner ai Cesar per la carriera ha detto che fare il regista gli ha salvato la vita, lo ha aiutato a conoscere il mondo e se stesso.
« Posso sottoscrivere, ho imparato a conoscere il mondo attraverso il teatro. Da adolescente ero completamente chiuso su me stesso. Poi facendo il regista, non l’attore, ho imparato a conoscere gli altri e me stesso».
Una volta mi hai raccontato i tuoi sogni, banalissimi, il contrario delle tue regie, roba da drammaturgia minimalista. E adesso, come sono cambiati?
«Si sogna quello di cui si ha paura. Da quei sogni minimalisti sono passato ad altri, come fare un viaggio senza meta, non trovare la via di casa, non la casa in Umbria, ma quella dove stavo con mia madre a Roma in via Monserrato. Se è vero che la casa è l’identità come mi dicono...».
Quanto è stata importante tua madre, anche nel tuo lavoro, visto che tuo padre l’hai incontrato solo due volte?
«È lei che ha cominciato a portarmi a teatro fin da bambino. Ha fatto di tutto per seguirmi nel lavoro ma io l’ho sempre esclusa. Era molto orgogliosa quando le cose andavano bene».
Nella maratona tv dedicata a te ci saranno anche tue regie televisive, come fai quando tu stesso riprendi il tuo teatro, tre, quattro, cinque telecamere?
«Semplice, dispongo gli attori di qua e di là da una linea centrale dove piazzo una pedana e un carrello, e poi riprendo con continuità come se fosse per un solo spettatore. A parte l’"Orlando" che era un film, per me il teatro in tv non deve essere cinema. Cerco di conciliare lettura, rappresentazione, singolarità dello spettatore. L’unità del pubblico a teatro è una chimera, sono tanti pubblici e ogni singolo presta un’attenzione intermittente allo spettacolo».
A proposito di attenzione intermittente, a volte te la cerchi con spettacoli di durata inusuale. Va bene che anche Shakespeare è scritto per ammettere intermittenza...
«La complessità di certe drammaturgie la presuppongono. Lo spettatore prende dallo spettacolo quel tanto che può prendere. A me piace che ci sia un confronto tra due forme di libertà».
Allora aveva ragione Flaiano quando diceva: è uno spettacolo che fa pensare. Fa pensare ad altro.
«È vero. Aveva ragione. Ogni tanto si può pensare anche ad altro».
Torniamo al teatro in tv. Si può fare?
«Bisognerebbe trovare un tipo di drammaturgia fatta apposta per la tv, un ibrido, tanto ormai i generi sono mescolati. Per esempio : guardando e zippando tra i canali dove si commentava il dopo elezioni, si poteva costruire un tipico esempio di drammaturgia televisiva, stessa storia vista in modi diversi».
Sei uno dei registi più importanti del mondo. Cos’è un regista e cos’è la regia?
«È un gran bel mestiere. La buona regia è riuscire a trarre dalle persone, cioè gli attori, il meglio indipendentemente dall’attaccamento alla loro immagine, tirar fuori le potenzialità delle persone, di un testo, dello spazio, di un pubblico. Un modo di vedere il mondo da un angolo diverso. Sono abbastanza critico sulla regia "creativa" che mette la propria attività davanti a tutto».
Ho una certa nostalgia dei tuoi spettacoli che facevano un uso alternativo dello spazio, uso da cui venivano fuori nuovi significati. In questi ultimi anni mi sembri più concentrato sui testi.
«È per via dell’oggettivo condizionamento delle produzioni. Oggi il pallino è passato alla gestione amministrativa. Quello che abbiamo fatto con l’"Orlando" l’"Orestea", "Infinities" o la "Katchen von Heilbron" sul lago di Zurigo sono esperienze non più ripetibili».
Crisi e soldi a parte, quali altri punti di sofferenza per il nostro teatro?
«Oggi c’è una quantità di teatro dieci volte maggiore che cinquant’anni fa e non è un male ma il male è piuttosto la precarietà, il talento è deperibile, e troppa precarietà fa male ad attori, registi, pubblico. Non invoco più teatri stabili ma forse una ridiscussione della loro funzione. E si dovrebbe garantire una continuità di nucleo artistico permanente, non solo di regia».
Come il "dramaturg" nei teatri tedeschi?
«È una funzione che in Germania risale alla fine del Settecento per un teatro più fondato sul concetto che sul personaggio, praticamente una continua rilettura di classici. Brecht è stato soprattutto un "dramaturg" che come supporto aveva il "Coriolano" di Shakespeare piuttosto che la "Giovanna d’Arco" di Schiller, mentre da noi a volte la drammaturgia classica è perfino difficile da far stare in piedi, c’è poco da rielaborare. Si dovrebbe pensare a una riqualificazione dell’autore, da noi ogni autore è una singolarità, vizio d’origine del teatro italiano dell’800. E poi riqualificazione dell’attore come capacità di lavorare insieme e non ciascuno per sé, che porta inevitabilmente a una ripetitività di ruoli».
E la nostra drammaturgia attuale?
«Mi chiedo: il costruttore di copioni ha ancora una funzione determinante in una situazione condizionata dalla comunicazione televisiva? Il linguaggio può essere quello falsamente quotidiano della televisione? Leggo troppi copioni che si basano su quel modello. La voglia di essere rappresentati e alla moda non aiuta la drammaturgia. Penso come sarebbero stati i "Sei personaggi" se Pirandello avesse scritto secondo la rappresentabilità degli anni Venti il tinello borghese e così via».
Ronconi addestratore di attori. Mi ha colpito una frase di Franco Branciaroli: "Con Ronconi ho imparato ad addentrarmi nella foresta delle parole trovando sempre sentieri e senza perdermi mai". Non male come omaggio al maestro.
« Ho l’impressione che sempre più, mentre si va impoverendo, la lingua cerca asilo politico nel teatro. È molto importante aprire ai giovani le molteplicità di significati linguistici perché le forme linguistiche mediano e comunicano modi di essere, la scoperta dei modi contenuti all’interno di una struttura linguistica è motivo di felicità oltre che di sorpresa».
I tuoi maestri chi sono stati?
«Orazio Costa all’Accademia mi ha trasmesso l’importanza della disciplina, da cui il senso di responsabilità. E poi Squarzina che mi ha messo in teatro come attore. Anche se poi ho l’impressione di essermi un po’arrangiato per conto mio».
Hai diretto una cinquantina di opere, all’opera appena sposti una virgola tutti se ne accorgono, sei solito dire.
«Adesso per trasgredire ci vorrebbero anche punti e virgola e molti esclamativi. Non si stupisce più nessuno. Anzi l’opera usata come terreno di trasgressione è tale che tra un po’di anni moto e auto in scena saranno obsolete e si tornerà a corni, trecce, alabarde, come una volta».
Progetti?
"Pornografia", il romanzo di Gombrowicz che io stesso riscrivo per il teatro per il Festival di Spoleto ma nel teatrino di Bevagna. L’ho conosciuto Gombrowicz a casa sua a Vence molti anni fa, dopo l’"Orlando", volevo fare il suo "Operetta". Andavo a chiedere i diritti e lui un po’arcigno mi offrì delle ciliegie "Voulez vous goûter des cerises?"».
Cos’è l’impegno a teatro e il teatro impegnato?
«Il teatro didascalico non mi è mai interessato e dunque neanche l’impegno in quel senso. Il primo impegno è di rispetto al teatro, solo se noi rispettiamo il nostro territorio teatrale con la disciplina e con il lavoro possiamo accedere a un tipo di impegno vero, che diventa anche politico. Se è solo esteriormente politico, ci sono forme espressive molto più efficaci del teatro».
Allora c’è speranza per il teatro, dammi il raggio di sole come chiedevano i produttori nel finale a Fellini!
«Sì, non bisogna pensare che le colpe siano tutte da una parte, che i soldi non ci sono. Il teatro si può fare con poco, non dico con niente, ma è una delle poche forme d’arte che si può praticare anche con poco».