Attilio Bolzoni, la Repubblica 8/3/2013, 8 marzo 2013
TRATTATIVA STATO-MAFIA BOSS E POLITICI A PROCESSO
UN GIUDICE ha deciso che devono andare tutti a processo. E sarà un processo davvero inedito, mai visto in Italia. Paragonarlo ad altri – per esempio quello celebrato contro il senatore a vita Giulio Andreotti – sarebbe troppo semplice e scontato. Allora si processava la mafia e la politica, oggi si processa la mafia e lo Stato. È la prima volta. Tutti alla sbarra, nessuno escluso. Ex ministri e alti comandi, capi di Cosa nostra, ambasciatori del mondo imprenditoriale- criminale, sicari.
TUTTI insieme per avere agito a favore dello Stato e contemporaneamente tramato contro lo Stato, tutti con l’obiettivo di evitare “altro sangue” e insieme consapevoli del prezzo da pagare per un negoziato che si stava consumando fra bombe e stragi.
A cosa servirà questo processo? Ad accertare più pienamente colpe e responsabilità (e anche estraneità), a scoprire qualcosa di più sugli attentati del 1992, in ogni caso ci avvicinerà a una verità che non abbiamo mai conosciuto. Sui mandanti di Capaci. Sui mandanti di via D’Amelio. Chi ha voluto la morte di Giovanni Falcone? Chi ha voluto la morte di Paolo Borsellino? Il verdetto del giudice di Palermo arriva dopo quasi cinque anni di complicate indagini sulla trattativa, quella che alcuni avevano rappresentato come un “teorema” di pubblici ministeri trascinati nel gorgo di sospetti, assediati in quel bunker siciliano dove da decenni si sprigionano veleni e volano corvi. E con sorpresa dei più la sentenza di Piergiorgio Morosini ha recepito sostanzialmente l’impianto accusatorio («Gli imputati hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato e in particolare del governo della Repubblica») della procura e dell’ispiratore dell’intera inchiesta,
l’ex aggiunto Antonio Ingroia che ha lasciato qualche mese fa Palermo per lanciarsi nell’avventura politica.
Ma il giudice dell’udienza preliminare non si è limitato ad accogliere tutte le richieste di rinvio a giudizio ma — con una critica tanto irrituale quanto aspra, qualcuno dice abnorme — ha censurato i suoi colleghi per un’indagine definita «disorganica » e per «la memoria che non affronta le fonti di prova». In pratica il giudice dà atto ai pm di avere avuto un’intuizione felice ma di avere svolto malamente l’inchiesta, che ha dovuto ordinare lui stesso per portare a giudizio gli imputati. Così si è pronunciato. Per poi riprendere tutti i fili della loro indagine e spingersi (quasi) oltre le ipotesi avanzate dalla stessa procura, riproponendo una trattativa fra Stato e mafia inserita nei “sistemi criminali”: dentro una strategia della tensione provocata non solo da Cosa Nostra ma anche da frange della destra eversiva, massoneria deviata, ambienti dei servizi segreti, gruppi indipendentisti, ’ndrangheta.
Fin qui le conclusioni del giudice. Il resto lo verremo a sapere nel corso del processo. Soltanto lì capiremo meglio chi ha trattato e per conto di chi ha trattato, se lo Stato ha davvero ceduto al ricatto dei Riina e dei Bagarella con la promessa della fine degli attentati, se il carcere duro è stato cancellato come segno di distensione, se i “garanti” del patto sono stati prima Vito Ciancimino e poi Marcello Dell’Utri.
Il processo ci farà innanzitutto scoprire se la catena di comando dei reparti speciali dei carabinieri (quelli del tempo, oggi c’è un altro Ros che non è
certo quello degli Anni Novanta) si è mossa in autonomia o se i generali Subranni e Mori hanno ricevuto un impulso politico per incontrare gli emissari dei Corleonesi. Scaricare tutto sugli ufficiali
dei carabinieri — come sino ad ora da più parti si è tentato di fare — avrebbe il significato di trasformare la trattativa in una solitaria scorribanda sbirresca.
Avrà modo di difendersi e di
raccontare la sua verità — magari ritrovando la memoria perduta su alcuni episodi — anche l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza per avere negato,
chiamato in causa dall’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, di conoscere gli abboccamenti di quei carabinieri con l’ex sindaco Ciancimino. Chissà se il dibattimento ci offrirà qualche
elemento in più anche sul ruolo di Marcello Dell’Utri, l’ombra di Silvio Berlusconi nella Palermo dagli Anni Sessanta fino ad oggi. Come è subentrato a Vito Ciancimino, su mandato di chi, in cambio di cosa?
Poi ci sono loro, i signori e i sicari di Cosa nostra. Pentiti come Giovanni Brusca, l’uomo che ha premuto il pulsante del telecomando a Capaci. Probabilmente non ha detto tutto quello che sapeva sull’uccisione di Giovanni Falcone. E non ha mai aperto bocca Totò Riina, il capo dei capi. Solo allusioni, avvertimenti. Ora che anche lui si ritrova imputato con ex ministri della Repubblica e con generali dell’Arma, ora che sarà rinviato a giudizio con un pezzo di Stato, fianco a fianco con rappresentanti delle Istituzioni, chissà se anche il vecchio di Corleone decida un giorno in questo processo di fare una sorpresa a tutti.