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 2013  marzo 08 Venerdì calendario

DOSSIER CONCLAVE


[La Repubblica 1 pezzo di Paolo Rodari; L’Espresso 1 pezzo di Sandro Magister; Sette 3 pezzi di Pier Luigi Vercesi e due di Marco Merola]

PERQUISITI E PIANTONATI IL VOTO BLINDATO DEI CARDINALI PER EVITARE UN ALTRO VATILEAKS –

CITTÀ DEL VATICANO È QUESTA la soluzione estrema decisa dal Vaticano per affrontare il primo Conclave in tempo di Vatileaks. Il timore della fuga di notizie è reale dopo che Benedetto XVI ha scoperto, ormai quasi un anno fa, che il corvo che diffondeva all’esterno documenti riservati era il maggiordomo papale Paolo Gabriele. Per evitare che la storia si ripeta, i gendarmi procederanno con controlli quotidiani direttamente sulle eminenze. Probabilmente, a fianco dei gendarmi incaricati di perquisire, vi saranno dei cerimonieri pontifici, dei sacerdoti che garantiranno che le operazioni si svolgano in modo discreto. Ma la sostanza resta, ed è che il Vaticano, sentendosi sotto assedio, fortifica le proprie mura con misure restrittive.
Del resto, già in questi giorni di sede vacante, i cardinali hanno vissuto in prima persona l’introduzione di nuovi accorgimenti. Anzitutto il fatto che ogni volta che hanno lasciato a piedi il recinto delle mura leonine dopo le Congregazioni generali — i summit
pre Conclave — sono sempre stati scortati da due gendarmi. Fino a che i giornalisti non desistevano dal porre domande, i due gendarmi rimanevano al fianco dei porporati facendo loro strada.
Durante il Conclave le misure di sicurezza si faranno più pressanti. Oltre alle perquisizioni,
la prima soluzione adottata — in via d’installazione in queste ore — è la “Gabbia di Faraday” su tutta la Santa Marta e sulla Sistina. La residenza dove alloggiano i cardinali, come anche la Cappella dove verranno chiusi “cum clave” (letteralmente “con la chiave”), appunto la Sistina, saranno entrambe
protette da un contenitore fatto di materiale ad alta capacità conduttiva di corrente, che isolerà gli ambienti da qualsiasi campo elettrostatico che può esserci non solo all’esterno, ma anche all’interno. In sostanza, se dentro la Sistina o la Santa Marta ci sono delle cimici, il sistema adottato dalla gendarmeria
ne dovrebbe garantire la non funzionalità.
Anche il tragitto con diversi pulmini che scorteranno i cardinali dalla Santa Marta fino alla Sistina sarà seguito con le dovute precauzioni. Su alcune Citroen blu, auto già in dotazione della gendarmeria, sono state posizionate delle grandi antenne. Ogni pulmino sarà scortato da due di queste macchine, una davanti e una dietro. Al loro interno un sistema Jammer impedirà a qualsiasi strumento elettronico di funzionare. Tanto che una volta accompagnati i cardinali, le macchine continueranno a girare nei giardini vaticani per garantire un ulteriore controllo durante le sedute del Conclave. Ciò che s’intende impedire è qualsiasi tipo di comunicazione dei porporati verso l’esterno. Il rischio per i cardinali che chiamano fuori, infatti, o anche soltanto che usano twitter per comunicare con l’esterno, è quello di incorrere nella scomunica istantanea. Per tutto il Conclave i cardinali debbono sparire al mondo: anche i vetri della Sistina, non a caso, sono stati oscurati. Il nascondimento totale al mondo, ovviamente, non può esserci in questi giorni di Congregazioni generali: ieri il cardinale statunitense Roger Mahony, in barba ai richiami del camerlengo che chiedeva silenzio assoluto, twittava da dentro l’Aula Paolo VI spiegando che «le Congregazioni si avviano alla fine, la data d’inizio del Conclave è vicina, un senso di emozione prevale fra i cardinali».
In queste ore diversi restauratori
stanno preparando la Sistina. La Cappella sarà arredata
con 115 sedie di ciliegio, contrassegnate dal nome e cognome di ciascun cardinale elettore, e dodici tavoli di legno grezzo coperti da un panno beige e satin bordeaux. Insieme, stanno adagiando per terra una struttura piana in legno allineata al secondo gradino dell’altare. Anche i restauratori, come gli infermieri che nel caso vi sia qualche cardinale che necessita di supporto notturno abiteranno dentro Santa Marta, sono obbligati a giurare di non rivelare a nessuno tutto quello che sentono e vedono nei giorni di Conclave.

Paolo Rodari

L’Espresso dell’8 marzo, 1 pezzo di Sandro Magister

UN AMERICANO A SAN PIETRO –
La scommessa più facile è che il prossimo papa non sarà italiano. Ma nemmeno europeo, africano, asiatico. Per la prima volta nella bimillenaria storia della Chiesa il successore di Pietro potrebbe venire dalle Americhe. O a voler azzardare una previsione più mirata: dalla Grande Mela.
Timothy Michael Dolan, arcivescovo di New York, 63 anni, è un omone del Midwest dal sorriso radioso e dal vigore straripante, proprio quel «vigore sia del corpo che dell’animo» che Joseph Ratzinger ha riconosciuto di aver perduto e ha definito necessario per il suo successore, al fine di bene «governare la barca di Pietro e annunciare il Vangelo». Nell’atto di rinuncia di Benedetto XVI c’era già il titolo del programma del futuro papa. E a molti cardinali tornò presto in mente la vivacità visionaria con cui Dolan sviluppò proprio questo tema, col suo italiano «primordiale», parola sua, ma scintillante, nel concistoro di un anno fa, quando egli stesso, l’arcivescovo di New York, si apprestava a ricevere la porpora.
Fu un concistoro molto criticato, quello del febbraio 2012. Da settimane, documenti scottanti prendevano il volo dalle stanze vaticane e persino dalla riservatissima scrivania del papa per rovesciare in pubblico avidità, contrasti, malefatte di una curia alla deriva. Eppure, tra i nuovi cardinali creati da Benedetto XVI, un buon numero erano italiani, erano di curia e, peggio, erano legati a filo doppio al segretario di Stato, Tarcisio Bertone, universalmente ritenuto il principale colpevole del malgoverno. Ratzinger aggiustò il tiro qualche tempo dopo, in novembre, con altre sei nomine cardinalizie tutte extraeuropee, compresa quella dell’astro nascente della Chiesa d’Asia, il filippino con madre cinese Luis Antonio Gokim Tagle. Ma la frattura rimaneva intatta. Da una parte i feudatari di curia, in strenua difesa dei rispettivi centri di potere. Dall’altra l’ecumene di una Chiesa che non tollera più che l’annuncio del Vangelo nel mondo e il luminoso magistero di papa Benedetto siano oscurati dalle tristi narrazioni della Babilonia romana.
È la stessa frattura che caratterizza l’imminente conclave. Dolan è il candidato tipo che rappresenta la svolta purificatrice. Non l’unico ma certamente il più rappresentativo e audace. Sul fronte avverso, però, i magnati di curia fanno muro e contrattaccano. Non spingono avanti qualcuno di loro, sanno che così la partita sarebbe persa in partenza. Fiutano l’aria che tira nel collegio cardinalizio e puntano anch’essi lontano da Roma, al di là dell’Atlantico, non al nord ma al sud dell’America. Guardano a San Paolo del Brasile, dove c’è un cardinale nato da emigrati tedeschi, Odilo Pedro Scherer, 64 anni, che in curia conoscono bene, che è stato per anni a Roma a servizio del cardinale Giovanni Battista Re, quando questi era prefetto della congregazione per i vescovi, e che oggi fa parte del consiglio cardinalizio di vigilanza sullo Ior, la "banca" vaticana, riconfermato pochi giorni fa, con Bertone suo presidente.
Scherer è il candidato perfetto di questa manovra tutta romana e curiale. Non importa che in Brasile non sia popolare, nemmeno tra i vescovi, che chiamati ad eleggere il presidente della loro conferenza, due anni fa, lo bocciarono senza appello. Né che non brilli come arcivescovo della grande San Paolo, capitale economica del Paese. L’importante, per i magnati curiali, è che sia docile e grigio. L’aureola progressista che ammanta la sua candidatura è di derivazione puramente geografica, ma giova anch’essa per accendere in qualche ingenuo porporato il vanto di eleggere il "primo papa latinoamericano". Come nel conclave del 2005 i voti dei curiali e dei sostenitori del cardinale Carlo Maria Martini si riversarono assieme sull’argentino Jorge Bergoglio, nel tentativo fallito di bloccare l’elezione di Ratzinger, anche stavolta potrebbe avvenire un analogo connubio. Curiali e progressisti uniti sul nome di Scherer, con quel pochissimo che resta degli ex martiniani, da Roger Mahony a Godfried Danneels, entrambi oggi sotto tiro per la cedevole loro condotta nello scandalo dei preti pedofili.
Il papa che piace ai curiali e ai progressisti è per definizione debole. Piace ai primi perché li lascia fare. E ai secondi perché dà spazio al loro sogno di una Chiesa "democratica", governata "dal basso". Non deve stupire che un esponente di grido del cattolicesimo progressista mondiale, lo storico Alberto Melloni, abbia auspicato sul "Corriere della Sera" del 25 febbraio che dal prossimo conclave esca non un «papa sceriffo» ma «un papa pastore», abbia deriso il cardinale Dolan e abbia indicato proprio in quattro magnati di curia i cardinali a suo giudizio più «capaci di comprendere la realtà» e di determinare «l’esito effettivo del conclave»: gli italiani Giovanni Battista Re, Giuseppe Bertello, Ferdinando Filoni «e ovviamente Tarcisio Bertone». Cioè esattamente quelli che stanno orchestrando l’operazione Scherer. Ai quattro andrebbe aggiunto l’argentino di curia Leonardo Sandri, del quale si fa correre voce che sarà il futuro segretario di Stato.
Per una curia siffatta, la sola ipotesi dell’elezione di Dolan è foriera di terrore. Ma Dolan papa imprimerebbe una scossa anche a quella Chiesa fatta di vescovi, di preti, di fedeli che non hanno mai accettato il magistero di Benedetto XVI, il suo ritorno energico agli articoli del "Credo", ai fondamentali della fede cristiana, al senso del mistero nella liturgia. Dolan è, nella dottrina, un ratzingeriano a tutto tondo, con in più la dote del grande comunicatore. Ma lo è anche nella visione dell’uomo e del mondo. E nel ruolo pubblico che la Chiesa è chiamata a svolgere nella società. Negli Stati Uniti è alla testa di quella squadra di vescovi "affermativi" che hanno segnato la rinascita della Chiesa cattolica dopo decenni di soggezione alle culture dominanti e di cedimenti al dilagare degli scandali. In Europa e nel Nordamerica, cioè nelle regioni di più antica ma declinante cristianità, non esiste oggi una Chiesa più vitale e in ripresa di quella degli Stati Uniti. E anche più libera e critica rispetto ai poteri mondani. È svanito il tabù di una Chiesa cattolica americana che si identifica con la prima superpotenza mondiale, e quindi non potrà mai esprimere un papa.
Anzi, ciò che stupisce di questo conclave è che gli Usa offrono non uno, ma addirittura due "papabili" veri. Perché oltre a Dolan c’è l’arcivescovo di Boston, Sean Patrick O’Malley, 69 anni, con saio e barba da bravo frate cappuccino. Il suo appartenere all’umile ordine di san Francesco non è d’ostacolo al papato né è senza precedenti illustri, perché anche il grande Giulio II, il papa di Michelangelo e di Raffaello, era francescano. Ma ciò che più conta è che Dolan e O’Malley non sono due candidati tra loro contrapposti. I voti dell’uno possono convergere sull’altro, se necessario, perché sono entrambi portatori di un unico disegno. Rispetto a Dolan, O’Malley ha un profilo meno risoluto per quanto riguarda le capacità di governo. E ciò potrebbe renderlo più accettabile ad alcuni cardinali, consentendo a lui di varcare quella soglia decisiva dei due terzi dei voti, 77 su 115, che potrebbe essere invece preclusa al più energico, e quindi molto più temuto, arcivescovo di New York. Lo stesso ragionamento si potrebbe applicare a un terzo candidato, il cardinale canadese Marc Ouellet, anche lui di salda matrice ratzingeriana e ricco di talenti simili a quelli di Dolan e O’Malley, ma ancor più incerto e timido di quest’ultimo nelle decisioni operative. In un conclave che sul riordino del governo della Chiesa punta molte sue aspettative, la candidatura di Ouellet, pur presa in considerazione dai cardinali elettori, appare la più debole fra le tre nordamericane.
Col suo guardare da Roma al di là dell’Atlantico, l’imminente conclave prende atto della nuova geografia della Chiesa. Il cardinale Ouellet è stato da giovane missionario in Colombia. Il cardinale O’Malley parla alla perfezione spagnolo e portoghese e ha sempre avuto come sua attività preminente la cura pastorale degli immigrati ispanici. Il cardinale Dolan è il capo dei vescovi di un Paese che ha raggiunto le Filippine al terzo posto per numero di cattolici, dopo Brasile e Messico. E sono "latinos" un terzo dei fedeli degli Stati Uniti, anzi, già la metà tra quelli sotto i 40 anni. Non sorprende che i cardinali dell’America latina siano pronti a votare questi confratelli del nord. E con loro altri porporati di peso: l’italiano Angelo Scola, l’arcivescovo di Parigi André Vingt-Trois, l’australiano George Pell. Chiuse le porte del conclave, nel primo scrutinio potrebbero cadere su Dolan già molti voti, non i 47 di Ratzinger nella prima votazione del 2005, ma pur sempre parecchi. Il seguito è ignoto.

Sandro Magister


[3 pezzi di Sette: Pier Luigi Vercesi, e due di Marco Merola]

CARDINALI A CACCIA DI UN PAPA MISSIONARIO. E DI UNA CURIA CHE FACCIA FINALMENTE PULIZIA DI CORVI E LOBBY–

Dopo aver pronunciato la formula canonica che si conclude con lo scarno «accepto», il 266mo successore di San Pietro, vicario di Dio in terra, guida spirituale di un miliardo di anime, si incamminerà verso una porticina nascosta. Guardando l’affresco di Michelangelo, il pertugio è sulla sinistra, dalla parte in cui l’uomo, nudo di tutto, si protende per toccare Dio. Dietro a quell’universo di Bene e di Male, scaturito dal tormento e dall’estasi di chi l’ha dipinto a perfetta rappresentazione della Chiesa, c’è una modesta sagrestia. Poche cose, un inginocchiatoio di legno con il cassettino dove sono ancora conservate le caramelle di Benedetto XVI. Attraverso un breve cunicolo, si raggiunge una stanza con le pareti tappezzate di stoffa rosso-cupo. Siamo nella Camera lachrimatoria, dove il nuovo pontefice si ritira per rimanere solo con Dio e la propria coscienza, prima di abbandonare la porpora e vestire l’abito bianco. Verrà poi presentato al mondo con il rituale che ben conosciamo, l’Habemus papam, svelando solo l’apparenza di ciò che è accaduto nel chiuso della Sistina. E nessuno conoscerà il mistero di questa piccola stanza – per chi ci crede, toccata dal sovrannaturale – dove al Papa è concesso di piangere mentre si carica sulle spalle il fardello della Chiesa e invoca quella forza che solitamente credono di avere i cardinali pronti per il soglio pontificio ma non quelli che lo Spirito Santo, alla fine, sceglie.
Il fardello, questa volta, è più pesante delle altre, richiede un uomo che assommi in sé una forza spirituale sovrumana e un polso di governo eminentemente terreno. Un uomo, dicono nei corridoi, come Montini, Paolo VI, che ereditò l’opera visionaria di Giovanni XXIII, il Concilio Vaticano II, e riuscì a portarla a compimento nonostante le imboscate di ogni giorno. Il nuovo Papa trova ad attenderlo un lavoro altrettanto faticoso e per nulla esaltante: dovrà realizzare la purificazione avviata dal suo predecessore dopo aver spalancato le finestre e mostrato al mondo quanta umana miseria albergava nella Chiesa. Lui solo potrà leggere, a giorni, il dossier redatto dai cardinali-investigatori che ha convinto Ratzinger a concludere, in vita, il proprio pontificato. Dicono, tra le mura millenarie, che l’azione di Benedetto XVI e la decisione finale abbiano messo a repentaglio la sua stessa sicurezza personale. La scelta di una residenza monacale all’interno dei giardini vaticani risponderebbe alla necessità di proteggerlo. Perché più d’un giudice americano sarebbe pronto a spiccare il mandato di cattura internazionale non appena, ritornato semplice uomo di chiesa, si fosse stabilito sul territorio italiano. L’accusa è di essere – come capo supremo della Chiesa cattolica rea di aver coperto le centinaia di casi di pedofilia – il responsabile ultimo di quei crimini. Da qualche settimana, faldoni su faldoni, migliaia di dossier con storie aberranti di preti, sono nelle mani della polizia americana, consegnati dall’arcidiocesi di Los Angeles: saranno il materiale di lavoro per i tribunali americani nei prossimi anni.
Per tenere saldo il timone della Chiesa nella burrasca tutt’altro che passata, quindi, occorre un polso fermo, non la mano tremante di un uomo anziano e di contemplazione. Così Papa Ratzinger si è preso giusto il tempo per sistemare le cose principali – questo in America, quell’altro lontano dalle sacre stanze; poi una condanna e un perdono – e ha deciso di passare la tiara a un nuovo pastore. Dicono senza interferire.

Trasparenza e sospetti. L’avesse anche fatto, è noto che lo Spirito Santo difficilmente tiene in considerazione i desideri dei papi precedenti. Nei dialoghi avuti in questi giorni e soprattutto nelle cene private tra cardinali, il desiderio di conoscere e la paura di nominare simili episodi (le parole di Gesù tuonano sulle loro teste: il peggior delitto è quello perpetrato contro i bambini) hanno reso il clima teso e sospettoso. Benedetto XVI ha esplicitamente vietato di far circolare il documento prima del Conclave, ma la presenza dei tre porporati che l’hanno redatto ha ingenerato ambiguità, reso le loro parole, i loro sospiri, persino i loro sguardi pesanti come macigni. Questo inciderà sulle scelte del Conclave che si sta aprendo. Ma non è il solo tema di riflessione.

Potere e ricchezza. La Chiesa non ha paura di confrontarsi con il denaro, avverte un prelato che – è scontato – chiede l’anonimato. Molti storici dell’economia concordano che il capitalismo come strumento di crescita (non di sfruttamento) è figlio dei monaci medioevali. I Padri della Chiesa prima e i benedettini poi parlano dei talenti umani come monete da investire per dare frutto. Sant’Agostino vede addirittura Gesù come il «mercante celestiale» che a «prezzo» del suo corpo ha «comprato» la salvezza dell’anima.
«Figuriamoci se abbiamo paura a discutere di denaro: un elogio della buona amministrazione è contenuto in questo documento, conservato qui, negli archivi vaticani». È di Bernardo di Chiaravalle, il più famoso monaco cistercense. Scrive a papa Eugenio III per esortarlo all’accuratezza amministrativa che deve contraddistinguere il buon pontefice.
Forse aveva in testa questo, monsignor Carlo Maria Viganò, segretario generale del Governatorato fino a pochi anni fa, quando avviò la caccia alle streghe che avvelenò i corridoi vaticani generando, come un domino, i recenti vatileaks e risvegliando corvi, rancori personali e trasversali. Alla fine ha pagato un cameriere, perdonato prima dell’atto supremo da Benedetto XVI. Viganò era alle prese con i bilanci della Santa Sede, minati dal primo affacciarsi della crisi internazionale nel 2008. I conti presentavano un significativo segno negativo (7,8 milioni nel 2009) e, incalzato dal monito di Bernardo, si presentò come il risanatore, il “moralizzatore” dell’economia vaticana. L’anno successivo, infatti, i bilanci mostravano già il segno positivo: 21 milioni. In realtà, la gran parte (14 milioni) era dovuta al contributo dei Musei Vaticani, in forte sviluppo sotto la guida del professor Antonio Paolucci e del suo braccio destro don Paolo Nicolini (soprattutto grazie all’informatizzazione della biglietteria e all’aumento di un milione di visitatori). Il resto era figlio di una tecnica forse poco cristiana appresa dai commissari liquidatori di società private in difficoltà: tagli unilaterali ai compensi pattuiti con i fornitori. Accettare o chiudere con il Vaticano.
Alla gragnuola di proteste, il segretario di Stato Tarcisio Bertone avrebbe reagito proponendo a Viganò la direzione della Prefettura degli Affari Economici, tipica promozione-rimozione in uso nella Santa Sede. Ma Viganò, ritenendosi mortificato nonostante i “grandi meriti acquisiti” (ambiva alla presidenza del Governatorato, che avrebbe comportato il berretto cardinalizio, come del resto l’altra carica propostagli da Bertone), dichiarò guerra. Il caso venne portato sulla troppo frequentata scrivania del pontefice e da lì originò rivoli di vendette e rese dei conti. Insomma, la banalità del male.

La finanza che corrompe. Poi c’è lo Ior, una piccola storia ignobile con la quale molti cardinali vogliono chiudere definitivamente. È la banca vaticana che dal dopoguerra tanti dispiaceri dà ai Santi Padri. È stata anche utile, nessuno lo nasconde, ma la trasparenza non può più attendere. Non è necessario ripercorrerne la storia, perché è sotto gli occhi di tutti da mesi. Pare che attraverso l’istituto passi denaro sporco: nero proveniente da evasione fiscale e proventi del malaffare mafioso.
Fonti bene informate stimano il denaro amministrato in poco meno di 20 miliardi: 3 quarti sarebbero da ascrivere alla cassa delle varie congregazioni, denaro della Chiesa, pulito; un quarto a fonti ambigue. I cardinali meno avulsi dalle tematiche economiche chiedono l’esternalizzazione del servizio. «Scegliamoci una banca di fiducia e affidiamole la gestione della nostra tesoreria. Perché dobbiamo rimanere in quest’ambiguità e comunque, foss’anche tutto esagerato, di non trasparenza? Se dobbiamo mandare denaro in Inghilterra per restaurare una nostra proprietà, per esempio, è bene farlo sotto gli occhi di tutti, cosa abbiamo da nascondere? È una mentalità vecchia, superata», si sfoga il prelato. Già, non ci sono nemmeno più regimi comunisti da contrastare…

Mettere ordine in casa. C’è poi la Curia da rimodernare. Serve una riforma, per snidare i piccoli potentati, i corvi che hanno avvelenato il pontificato di Benedetto XVI e avevano fatto il nido alla corte di Giovanni Paolo II. È un sistema pletorico, ridondante, tutto è raddoppiato, triplicato, con costi e dispersioni inutili. Se n’era discusso nel precedente Conclave, insieme all’uso e all’abuso del corpo del pontefice. Si erano confrontati il cardinale Carlo Maria Martini e l’allora cardinal Ratzinger. Il primo più intransigente; il secondo, per sua natura, conservatore ma conciliatore. È spettato a quest’ultimo mettere in pratica il pensiero del grande arcivescovo di Milano.

E ora cosa succederà. Tutte queste riflessioni, questi temi, questo tirarsi di tonaca non hanno ancora chiarito le idee a molti cardinali che vengono da lontano. Dicono, qui, che sarà comunque questione di pochi giorni, perché lo Spirito santo tiene conto fino a un certo punto delle miserie terrestri. Se così non fosse, faticherebbe a trovare un cardinale tanto immacolato da non attirarsi una calunnia, un’insinuazione, un cattivo pensiero. Media, piuttosto, con il respiro del tempo, con la Storia che cambia, con la necessità di evangelizzare un mondo avviato alla deriva spirituale. Nel migliore dei casi alla secolarizzazione intellettuale.
Lo Spirito Santo, suggeriscono nelle antiche stanze, dovrà tenere conto del dialogo con le altre religioni, innanzitutto con l’Islam, che dove è estremo martirizza il cristianesimo, ma anche di un Oriente incalzante e, prevedibilmente, imperante. Un eminente prelato stava dando alle stampe un libro proprio su questi temi ma ne ha sospeso la pubblicazione, per non influire sul Conclave.
In pochi credono che la scelta cadrà su un cardinale italiano. È passato il tempo di un papa dell’Est e di un pontefice tedesco; qualcuno suggerisce che non è ancora giunto quello di un Pietro espresso dai movimenti. Probabilmente è l’epoca dell’evangelizzatore, di un missionario che venga da terre lontane, dicono con frase sibillina. Avrà al suo fianco un braccio destro italiano, buon conoscitore della Curia. Il Santo Padre evangelizzerà, il suo segretario modernizzerà. Ma queste sono solo le intenzioni di chi si avvia oltre quella porta. Quando si chiuderà, potrà essere tutta un’altra storia.

Pier Luigi Vercesi



LA SCELTA DEL PONTEFICE, SECOLI DI STORIE TORMENTATE–

1059 Papa Niccolò II stabilisce che il corpo elettorale chiamato a scegliere il Pontefice sia composto solo da cardinali in quanto rappresentanti della “Chiesa di Roma”.

1179 Con la Costituzione apostolica Licet de evitanda discordia Alessandro III fissa a 2/3 la maggioranza dei voti necessari a eleggere il Papa.

1198 L’assemblea che elegge Innocenzo III si svolge al Septizonium, un antichissimo edificio di Roma (fatto costruire, pare, da Settimio Severo nel 203 d.C.) che si ergeva «nel luogo in cui la via Appia conduce al Palatino», dice la tradizione. Dopo essere stato inglobato in un fabbricato medioevale il Septizonium scompare del tutto nel 1588, quando ne viene demolita la facciata.

1268-1271 Trentatré mesi, la più lunga sede vacante della storia. Si celebra la riunione elettorale di Viterbo ma i cardinali non riescono ad accordarsi su alcun nome. Il popolo, inferocito per l’attesa, arriva a scoperchiare il tetto del Palazzo nel quale sono rinchiusi, ma senza risultato: dopo la riparazione del tetto trascorre ancora un anno prima dell’elezione, che vede la scelta di un arcidiacono che non era porporato e neanche sacerdote: Tedaldo Visconti, poi Gregorio X.

1276 Si svolge ad Arezzo il primo vero conclave ed entrano in vigore le nuove disposizioni per velocizzarne i lavori. Nel caso le cose fossero andate troppo per le lunghe ai cardinali sarebbe stata ridotta progressivamente la razione di cibo col passare dei giorni e i loro guadagni sarebbero stati confiscati dal capo del Collegio che li avrebbe poi consegnati al neo-eletto Papa. Ma non ce n’è bisogno perché il conclave aretino si conclude in tempi record: un solo giorno.

1378 Dopo la morte di Gregorio XI, il Papa che aveva riportato la Curia pontificia a Roma dall’esilio avignonese, l’atmosfera è a dir poco tesa. Il popolo non vuole più pontefici francesi e urla «Romano lo volemo, o almanco italiano!». I cardinali entrano in conclave con la corazza sotto i paramenti. Bande armate riescono a entrare nel palazzo ma vengono respinte dalle milizie.

1513 Il Conclave si svolge per la prima volta nella Cappella Sistina, dal 4 al 9 marzo. Saranno 24 i Papi scelti sotto la volta michelangiolesca. È stato Giovanni Paolo II, nel 1996, a fissare in quel luogo la sede permanente dell’assemblea cardinalizia, perché, disse, «alimenta la coscienza della presenza di Dio».

1621 Gregorio XV era stato eletto “per ispirazione”, una modalità in vigore già da parecchi secoli. Avviene così: prima i porporati si esprimono con voto quasi unanime poi parte un applauso coinvolgente che certifica il consenso di tutti. Si sente, tuttavia, la necessità di modificare le regole. Il Papa introduce il voto segreto e scritto. In futuro a tutti i cardinali sarà data una scheda e, in caso di elezione per acclamazione, questa dovrà poi essere confermata per iscritto, all’unanimità.

1799-1814 Ben due papi, Pio VI e poi Pio VII vengono imprigionati e trasferiti in Francia dalle truppe transalpine. Il primo muore all’estero mentre il secondo riesce a tornare a Roma dopo la destituzione di Napoleone. Emerge la necessità di fare una legislazione di emergenza per evitare che, in futuro, altri pontefici cadano in mani nemiche. Viene così stabilito che se un Papa è fatto prigioniero scatti automaticamente la “sede vacante” e luogo e tempo del conclave siano decisi indipendentemente dalla sua morte.

1878 Uno dei conclavi più difficili della storia, convocato per la morte di Pio IX. Sette anni prima lo Stato pontificio è stato invaso e annesso al Regno d’Italia e gli animi sono ancora molto inquieti. Visto il forte sentimento antirisorgimentale che si respira nei sacri palazzi qualcuno teme addirittura che in conclave possano infiltrarsi italiani travestiti da cardinali. Stando a fantasiose ricostruzioni dell’epoca viene ipotizzato che i porporati possano raggiungere il Vaticano in mongolfiera, in maniera da aggirare il blocco imposto delle truppe occupanti.

1903 Si consuma l’ultimo caso di veto da parte di una potenza straniera. Il diritto, appannaggio di tutti i sovrani cattolici d’Europa, prevedeva la possibilità di esprimere dissenso (vincolante) sulla scelta del cardinale papabile. Nell’occasione si cerca di far fuori il povero cardinale Rampolla del Tindaro, accusato dall’Imperatore Francesco Giuseppe di essere filo-francese. Il papa eletto, Pio X, dispone la nullità di qualsiasi futuro veto.

L’AREA
I porporati voteranno nella Cappella Sistina e alloggeranno nella Casa di Santa Marta. Non potranno essere avvicinati da estranei.

GLI ELETTORI
Sono i cardinali che hanno diritto di eleggere il Pontefice. Devono avere meno di 80 anni: l’ucraino Ljubomyr Huzar li compirà il 26 febbraio e sarà escluso. Joseph Ratzinger, che ha 85 anni, non voterà.

LE NUOVE REGOLE
La votazione, a scrutinio segreto, deve iniziare entro 20 giorni dal 28 febbraio. Perché l’elezione sia valida è necessaria una maggioranza di due terzi. Questo limite è stato reintrodotto da Benedetto XVI nel 2007.

I TELEFONINI
I cardinali non possono avere con sé telefonini, tv, radio o portatili. È prevista una perquisizione fatta da due periti, alla presenza del Camerlengo e di tre cardinali assistenti.


LA PROCEDURA
L’ultimo cardinale diacono sorteggia tre Scrutatori, tre Revisori e tre Infirmarii.

I Cerimonieri consegnano almeno due o tre schede
bianche a ogni elettore, poi abbandonano la Sistina.

Ogni cardinale compila in
segreto la scheda. La piega a metà e tenendola sollevata si reca all’altare.

Il cardinale giura «Chiamo a testimone Cristo Signore, il quale mi giudicherà, che il mio voto è dato a colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto». Depone la scheda su un piatto e la fa scivolare dentro il calice-urna.

A fine votazione il primo scrutatore agita più volte l’urna e il terzo scrutatore trasferisce le schede, a una a una, dentro un altro calice.

Gli scrutatori si siedono davanti all’altare. Il primo apre una scheda e legge il nome; il secondo ripete la procedura. Il terzo annota il nome e lo legge a voce alta, poi fora le schede con un ago sulla parola “Eligo” e le lega insieme con un filo.

Marco Merola



LE SFIDE CHE ATTENDONO IL SUCCESSORE DI BENEDETTO–

Quando si saranno spenti gli echi della “sindrome Sistina” dipinta da Nanni Moretti e il totonomina di bookmakers più o meno informati, la Chiesa, forse, avrà fatto il primo passo verso quella rivoluzione che in tanti si augurano.
Tre parole aleggeranno in Conclave: Rinnovamento, Inclusione e soprattutto Decentralizzazione. Sfide rinviate per troppo tempo che il nuovo Papa dovrà accogliere. Le delicate questioni ereditate dalla gestione di Benedetto XVI attendono soluzioni radicali ma è altrettanto urgente ridimensionare la potentissima Curia romana, su cui incombono il dossier Vatileaks e gli scandali degli ultimi mesi. Curia rea, stando alle lamentele che provengono da ordini, congregazioni, associazioni e movimenti – cardinali nordamericani in testa – di aver relegato al ruolo di chiese di periferia le (popolose) comunità di Paesi che invece reclamano identità forte e maggiore considerazione da parte dell’establishment vaticano.
Se fino a ieri “cambiamento” era una parola sussurrata a orecchie amiche, il coraggioso gesto di Ratzinger, un “umile servo nella vigna del Signore”, ne ha fatto oggi un proclama da urlare urbi et orbi. «Bisogna seguire la strada indicata da Benedetto XVI», spiegano autorevoli esponenti dell’Opus Dei, «andare direttamente alla fonte, a colui che la Chiesa l’ha fondata, cioè Gesù. Come rinnoverebbe Gesù? Questa è la vera domanda che il Papa ci incoraggia a porci. Una questione di fede più che di organizzazione». Ecco i temi cari alla Prelatura, forte nel mondo di 90 mila fedeli: «Il ritorno all’essenziale, all’abc della fede, non solo come conoscenza profonda della dottrina, ma come vita vissuta giorno per giorno, come relazione personale con Dio».
«I cardinali in Conclave», spiega Padre Francesco Occhetta, gesuita di Civiltà Cattolica, «dovranno riflettere su laicato, ruolo delle donne, rapporto con la stampa. E poi le grandi domande della modernità, il celibato dei preti, la ridefinizione di ciò che è famiglia». La via gesuitica si snoda su un duplice binario. «Auspichiamo un ritorno al governo spirituale, mentre quello istituzionale va riformato, va alleggerita la struttura. E le procedure devono essere trasparenti».
L’immutabilità è un lusso ormai anacronistico, insostenibile. Lontano, molto lontano da Roma, in Sudamerica (19 cardinali elettori), Asia (11) o Africa (12), si avverte meno il peso degli scandali bancari e dei “comportamenti inappropriati” dei preti e molto di più quello della persistente incomprensione. Modelli culturali del primo e del terzo mondo ecclesiastico continuano a scontrarsi invece di incontrarsi. «La Chiesa non deve essere in antagonismo con i popoli, ma deve avere un atteggiamento inclusivo», dice Padre Giulio Albanese, missionario comboniano. «Prendiamo la liturgia romana, è un faro, certo, ma è altrettanto importante che le chiese locali sviluppino il loro modo di pregare. Così com’è importante che la gestione del diritto canonico, oggi appannaggio della chiesa latina e orientale, venga allargata ad altre realtà. Va tenuto nel giusto conto che ci sono altri continenti con le proprie peculiarità e problematiche, sia nel campo della vita familiare che ecclesiale, senza per questo travisare il dogma».

Il profilo giusto. Il contrasto più forte evidenziato dai sostenitori della comunità cristiana universale è quello tra le chiese giovani, vive, dotate di grande spinta propulsiva, che sono ancora capaci di dare da mangiare ai poveri e finanziare il microcredito, e quelle occidentali, stanche, che sembrano aver tirato un po’ i remi in barca. «L’Italia, per esempio, oggi si è molto raffreddata sul missionarismo», spiega il comboniano proprio mentre, ironia della sorte, riempie una borsa che dovrà portare con se in Kenya. «Il numero dei missionari è passato dai 24.200, di cui 800 laici, del 1990 ai 10.000 di quest’anno, di cui un terzo sono laici. Il problema, dunque, non è solo dei vertici. Nella storia della Chiesa i cambiamenti non sono venuti mai dall’alto ma sempre dal basso... Il nemico vero è l’inaridimento del tessuto ecclesiale, dovuto al secolarismo».
«Preti, laici, uomini, donne, anziani e giovani sono tutti chiamati all’azione», rilancia la Conferenza Episcopale Italiana che ha sottoscritto l’impegno a «sfrondare il superfluo e la sovrastruttura per tornare alla fede». In un contesto di crisi generalizzata, dei portafogli e delle coscienze, nessuna istituzione vive di rendita e tutte devono rigenerarsi valorizzando innanzitutto le risorse interne.
Benedetto XVI è stato salutato come un profeta, ha abbattuto la prima tessera del domino confidando che l’onda possa arrivare sino all’ultima.
Anche i movimenti più rigorosi attendono, ora, un Papa sensibilmente diverso dal precedente, per età e modo di approcciare le questioni. «Qualità necessaria del nuovo Papa mi sembrerebbe la capacità di esercitare il ministero in maniera collegiale», a parlare è Maria Voce, presidente del Movimento dei Focolari, sodalizio laico nato una settantina d’anni fa che annovera decine di migliaia di estimatori in tutto il mondo ed è ben rappresentato nel collegio cardinalizio. Ecco l’identikit: «Un Pontefice dal timbro pastorale ma che sia sostenuto nel prendere le decisioni dal consiglio dei suoi collaboratori. Soprattutto che abbia le forze fisiche necessarie al suo compito, quindi non troppo anziano né troppo provato da esperienze sfibranti».
È arrivato il tempo di offrire al Pontefice un serio sostegno morale e materiale. Uno staff dinamico, reattivo, come quello del presidente degli Stati Uniti o del capo di una grande corporation. L’idea piace. Oltre che nelle residenze romane se ne parla anche tra i boschi del Piemonte dove sorge dal 1965 la comunità di Bose del “mistico” Padre Enzo Bianchi. «La Chiesa cattolica dovrebbe affiancare al Papa una forma sinodale», spiega, «per tre anni i vescovi condividerebbero con lui il peso delle responsabilità, per non farlo sentire isolato».

Meno tecnologia, più spirito. Padre Bianchi una piccola rivoluzione l’ha già fatta, in casa sua. Ha messo insieme 90 cattolici, 50 uomini e 40 donne, 4 protestanti e 2 ortodossi. E con loro vive una spiritualità assoluta, può «respirare con tutti i polmoni del cristianesimo». La scelta dell’inclusione gli ha procurato tanti consensi, ma anche qualche critica dagli ambienti cardinalizi. Lo scorso ottobre, poi, è arrivata la consacrazione. È entrato a far parte degli Adiutores Secretarii Specialis (sorta di esperti) del Sinodo che aveva all’ordine del giorno «la nuova evangelizzazione per la trasmissione della fede cristiana».
Il fatto che Roma abbia scommesso su uno come lui, campione dell’ecumenismo militante, che fa dialogare ogni giorno Oriente e Occidente, è un altro inequivocabile segno dei tempi.
Del resto il tracollo delle vocazioni, i giovani che si allontanano dalla fede e dai luoghi di preghiera non saranno problemi nuovi ma oggi rappresentano un pantano dal quale la Chiesa non sa evidentemente come uscire. Si è riposta eccessiva fiducia nell’apostolato via Facebook o Twitter, ma l’incursione nei domini-cult della gioventù digitale è risultata essere un flop. Troppo lontani dai canali tradizionali e dal consolidato sistema delle parrocchie dove vince ancora il contatto umano ed è possibile risvegliare in ognuno quella che Azione Cattolica chiama “la tensione alla santità”, la voglia di avvicinarsi al Vangelo, ma prima ancora di stare insieme.
«E invece», si lamentano i gesuiti, «le nuove cattedrali dove la gente celebra la vita sono i centri commerciali». Non è blasfemo consigliare al nuovo Papa di mettere in agenda corsi di marketing e comunicazione per parroci e pastori d’anime. La società cambia con rapidità impressionante, e con essa i linguaggi. L’affanno della Chiesa è palpabile, pure sugli argomenti che toccano i temi dell’esistenza, dal concepimento al fine vita.
Eppure ci sono ambiti in cui, strano a dirsi, i religiosi portano avanti battaglie dottrinali ed etiche d’avanguardia ottenendo risultati importanti. Non in Italia, negli Stati Uniti.
Padre Paolo Benanti è un francescano che vive tra Roma e Assisi, ma visto che sotto il saio batte un cuore (e un cervello) da ingegnere meccanico, vola frequentemente oltreoceano per andare a offrire assistenza al Darpa, il Dipartimento per la difesa che si occupa di sviluppare nuove tecnologie in ambito militare.
Gli americani chiedono a lui di pronunciarsi sulla eticità o meno delle armi non convenzionali che producono. Molti altri al posto di Padre Paolo avrebbero rifiutato l’incarico, lui no. Ha visto in questo lavoro l’opportunità di praticare una lenta e indolore “cripto-evangelizzazione”, tradotto significa porre le basi per costruire una solida coscienza cristiana nelle persone (militari a stelle e strisce inclusi), senza arringare le folle, ma sfruttando il mezzo offerto dalle pubblicazioni scientifiche. L’ultimo caso sottopostogli riguardava dei neuro-farmaci di ultima generazione che inducono lancinanti dolori nel cervello e vengono usati come forma preferenziale di tortura, perché non lasciano segni.
«Partecipare alle commissioni etiche mi dà l’opportunità di esprimere giudizi su cose che incidono sulla vita degli uomini, è una grande responsabilità», spiega, «mi piacerebbe che un giorno la Chiesa prendesse parte al progresso senza rincorrerlo, che partecipasse alla governance tecnologica del mondo. Che ci dicesse se è il caso di investire in una tecnologia che dia modo a pochi che hanno i soldi di vivere a lungo, piuttosto che investire per curare la moltitudine».
Forse i tempi sono maturi, forse il nuovo Papa scoprirà che stare al passo con il futuro aiuta a capire meglio il presente.

Marco Merola

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Corriere della Sera 08/03/2013
MASSIMO FRANCO
IL FARDELLO DEI CARDINALI - Il Conclave che sta per cominciare ha già assunto contorni epocali: se non altro perché arriva sull’onda della rinuncia di Benedetto XVI al papato. Per questo le attese della Chiesa cattolica, e non solo, sono così grandi da apparire a volte sproporzionate. La distanza fra la comunità dei fedeli e il Vaticano è più vistosa del passato: al punto da prefigurare una contraddizione, se non una frattura, fra la dimensione religiosa e quella del governo della Santa Sede. Ma è soprattutto sul concetto di trasparenza che le due realtà risultano sconnesse. Dal basso, e anche dai vertici di alcuni episcopati mondiali, arrivano richieste radicali di chiarezza e di pulizia che finora sono state respinte e frustrate.
Ma il risultato è che il dossier dei tre cardinali incaricati mesi fa di indagare sulle fughe di notizie e sul malaffare dentro le Sacre Mura galleggia come una mina vagante intorno alla Cappella Sistina. Gli appelli a rivelarne il contenuto sono stati inutili; e questo impedisce di scegliere avendo a disposizione tutte le informazioni sui «papabili». Eppure, sarebbe disastroso coprire una verità a conoscenza di un pugno di persone della Curia, col rischio che ne vengano usati impropriamente spezzoni per colpire l’uno o l’altro candidato; e per influenzare l’andamento o addirittura l’esito del Conclave. Può darsi che si tratti di notizie non degne di nota, ma allora tanto vale consegnarle agli «elettori».
Se invece, come sembra, il dossier descrive una realtà ingombrante, di fatto ritenuta inconfessabile, l’esigenza di condividerlo con i cardinali risulta ancora più impellente. Più ci si avvicina alla data di inizio con gli ultimi arrivi a Roma, più filtrano voci velenose di inchieste giudiziarie, scandali «in sonno», «incompatibilità» riguardanti l’uno o l’altro candidato al soglio di Pietro. Contro il pericolo di condizionamenti e di manovre, sembra prevalere la cultura del segreto, presentata nobilmente come tutela del diritto alla riservatezza. Ma si tratta di un riflesso difensivo antico quanto pericoloso in una fase così convulsa.
La trasparenza ha un costo. L’opacità, però, potrebbe averne uno molto superiore, e alla fine devastante. Rischia di gettare ombre su tutto il Collegio cardinalizio; e di inquinare, perfino a dispetto della verità, un’elezione che dovrebbe essere soprattutto in questo momento libera, consapevole e senza ombre. Basta pensare ai contraccolpi che rivelazioni pilotate provocherebbero nel corso del Conclave; o, peggio, dopo l’elezione del nuovo pontefice. L’idea che la Chiesa cattolica emerga meno credibile di prima da questa fase definita di «purificazione», fa spavento e va respinta. Ma è un’eventualità da non escludere, se non si farà nulla per evitare che i sospetti lievitino.
In quel caso il controverso, drammatico sacrificio di Benedetto XVI risulterebbe non la risorsa estrema per provocare la riforma, anzi la palingenesi del cattolicesimo. Verrebbe ridotto a un gesto di impotenza, addirittura di disperazione, di fronte a una realtà così terrena da umiliare e schiantare anche i propositi più spirituali.
Massimo Franco

GIAN GUIDO VECCHI
RIUNITI TUTTI I 115 CARDINALI MA IL CONCLAVE PUO’ SLITTARE — Alla fine ieri pomeriggio è arrivato e ha giurato pure l’arcivescovo di Ho Chi Minh, il cardinale vietnamita Jean-Baptiste Pham Minh Man, 79 anni appena compiuti, l’ultimo dei 115 elettori che mancava all’appello. E così, ora che ci sono tutti, il collegio dei cardinali al completo — votanti e ultraottantenni — potrà decidere la data del Conclave: che non è affatto scontata e potrebbe essere meno «affrettata» del previsto.
Finora le date ritenute più probabili erano il 10 o l’11 marzo, domenica e lunedì; per non sovrapporre la Messa della domenica a quella Pro eligendo Pontifice, che la mattina anticipa l’ingresso pomeridiano della Sistina, prevaleva l’ipotesi dell’11. Ma l’attesa di ieri è andata delusa, ancora niente data, i cardinali si stanno studiando, nel corso di sei riunioni ci sono già stati 83 interventi e altri si sono prenotati, c’è una quantità di temi da discutere. Il Collegio potrebbe decidere la data oggi o domani ma Oltretevere a questo punto si ritiene «difficile» che, nel caso, scelgano alla fine della settimana di entrare nella Sistina già lunedì.
L’inizio del Conclave potrebbe insomma slittare di qualche giorno, rispetto alle previsioni, nel corso della settimana prossima. La tensione fra i cardinali sulla data, del resto, risale a prima della Sede vacante. Fin da quando Benedetto XVI, l’11 febbraio, aveva dichiarato la «rinuncia» al pontificato dalla sera del 28, alcuni cardinali di Curia avevano «sollecitato» una deroga alla Costituzione che prevede di attendere «dai 15 ai 20 giorni» a partire dall’inizio della Sede vacante, visto che la norma era stata in sostanza pensata per la morte improvvisa del Pontefice, non per le dimissioni. Il 25 febbraio era stato così pubblicato un Motu proprio del Papa che non indica nuovi termini né dispone l’anticipo del Conclave ma permette ai cardinali di deciderlo, se vogliono. Di qui l’ipotesi che si potesse già iniziare lunedì, dopo una settimana di congregazioni.
Ma il punto è che i cardinali in arrivo dal resto del mondo, per lo più, non hanno alcuna fretta. Si discute di riforma della Curia, più che mai necessaria dopo lo scandalo Vatileaks; del coordinamento tra i dicasteri e del rapporto tra Papa e vescovi; di nuova evangelizzazione e così via. Ieri si è parlato anche delle questioni finanziarie con gli interventi dei tre cardinali a capo dei dicasteri economico-amministrativi: Giuseppe Bertello (Governatorato), Giuseppe Versaldi (Affari economici) e Domenico Calcagno (Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica).
Del resto anche un giorno o due può essere decisivo per far maturare o svanire una candidatura. I più netti sono stati gli undici statunitensi: «Molti cardinali sono preoccupati, se non c’è tempo sufficiente nelle congregazioni, se si taglia il tempo per la discussione e il discernimento, allora ad allungarsi potrebbe essere il Conclave», aveva spiegato il cardinale cappuccino di Boston, Sean O’Malley. La tensione con i curiali, che l’altro giorno ha portato i cardinali Usa a cancellare i briefing quotidiani con la stampa, nasce anche da questo. La situazione, peraltro, non sembra aver scosso il contestato cardinale Roger Mahony. Tra una riunione e l’altra, ieri, è riuscito a mandare pure un messaggio su Twitter: «Giorni di congregazioni generali si avviano a conclusione. Si avvicina scelta di data del Conclave. Atmosfera di entusiasmo prevale tra i cardinali».
Sarà, ma sulla data resta il disaccordo. Al cardinale Decano Angelo Sodano, «primus inter pares», spetta il compito di proporre la votazione sull’inizio del Conclave («Ci ha chiesto di parlare con calma di tutto ma di decidere in tempi brevi», raccontava il cardinale Donald Wuerl nel penultimo briefing) ma deve valutare la situazione. Lo diceva anche padre Federico Lombardi: «La valutazione di quando stabilire la data è molto importante e capisco che il Decano la voglia porre solo quando sentirà che i tempi sono maturi...».
G. G. V.

ALBERTO MELLONI
IL DOSSIER SEGRETO E LE MANOVRE SULLA SCELTA - La strada per il Conclave ha davanti a sé l’ultimo dilemma procedurale: quello della data d’inizio del Conclave. Un dilemma di sostanza e di potere che introduce una votazione non segreta, esterna al Conclave, dalla quale emergeranno una maggioranza e una minoranza. Dietro a quella votazione si nascondono nodi di sostanza e di potere. Nelle congregazioni generali si parla. Si formano umori, orientamenti che confidenti zelanti e ingenui giornalisti fanno diventare numeri e rumors sui «trenta voti a Scola» o sui «trenta a Scherer». In un cozzo di chiacchiere nelle quali si tocca con mano l’infinita abilità di un potere allo stato puro dove fra ciò che si dice, ciò che si pensa e ciò che si vuole ci sono connessioni contorte, bizantine, a volte perverse.
Per iniziare a votare il nuovo Papa le norme del 1996 dicevano di attendere almeno quindici giorni di sede vacante: cioè dal 28 febbraio al 14 marzo. Le modifiche ratzingeriane, come ormai tutti sanno, lasciano per la prima volta al collegio cardinalizio la potestà di anticipare l’inizio delle votazioni «se consta della presenza di tutti i cardinali elettori». E viceversa la facoltà di tardare, anche se tutti fossero presenti, «se ci sono motivi gravi», senza comunque superare il ventesimo giorno. Quindi oggi, con centoquindici elettori presenti, il decano Sodano (non elettore) potrebbe far votare i cardinali con meno di ottant’anni sulla anticipazione.
Chi vuole iniziare presto sostiene che due porporati che di certo non verranno a Roma non impediscano di decidere: giacché le norme vigenti stabiliscono che se, senza certificare la propria malattia, «qualche cardinale avente diritto al voto rifiutasse» di arrivare e partecipare «gli altri procederanno liberamente alle operazioni dell’elezione, senza attenderlo».
Il cardinale di Giakarta ha fatto sapere che per motivi di salute non può viaggiare: dunque non rifiuta il suo dovere e se gli elettori ne «comprovano» il certificato giurato, non va atteso, nemmeno per decidere sulla data. Invece il cardinale di Glasgow O’Brien s’è dimesso da ordinario dopo che alcuni uomini hanno denunciato di essere stati vittime di sue molestie sessuali: ma non s’è dimesso da cardinale, né Benedetto XVI gli ha tolto, come era suo potere, la porpora cardinalizia, lasciandogli tutti i doveri di elettore.
È dunque O’Brien che rifiuta di adempiere al proprio dovere di cardinale per non lasciare l’ombra di ciò che di lui s’è scoperto o si scoprirà sulla veste del nuovo Papa. Un atteggiamento a suo modo serio, al punto da apparire un suggerimento ad altri che per consimili motivi potrebbero non entrare a Santa Marta o non andare a votare nella Sistina o non esercitare nella Sistina il proprio diritto-dovere per il bene della Chiesa.
Chi ha fretta e soprattutto chi vuole una agenda semplice per far Papa una specie di Netturbino I, dedito alla sporcizia della Chiesa anziché al Vangelo, dice che si può decidere di anticipare, dato che O’Brien ha perso il proprio diritto all’elettorato rifiutandosi di venire. Chi ha un senso più stretto della disciplina e cerca un pastore è più perplesso: se si accettasse che un cardinale si rifiuti da lontano per un motivo non canonico qualunque governo, in un domani, potrà costringere un porporato a non venire a Roma e alterare così la fisionomia del collegio.
Su tutto poi aleggia la Relatio sulle malebolge vaticane di cui i cardinali sanno già praticamente tutto, inclusi quelli che ne sono vittime. Tutti loro hanno il diritto e forse il dovere di essere informati in luoghi più consoni dei corridoi. Ma anche di essere attenti al rischio che quel documento di fetori adempia la funzione opposta a quella che una specie di puritanesimo mediatico gli attribuisce. In quelle pagine non ci sono segreti strutturali sulla curia romana che vive da sempre di carriere e di cordate; e nemmeno segreti sulle persone, delle quali nel chilometro quadrato vaticano sanno tutti tutto.
Lì c’è un tentativo di mettere al centro dell’agenda papale cose secondarie: che figure ambigue e lascive vadano cacciate è ovvio; che dello Ior il papato possa fare a meno come fa a meno di un potere temporale è evidente; e che il detto di Gesù sulla mano che dà scandalo e va tagliata possa tornare utile è palese. Ma per far tutto questo servirebbero o serviranno circa tre-quattro minuti: un pontificato dura parecchio di più e deve misurarsi con problemi aperti.
Per quanto ancora il Papa può fare a meno di un organo di comunione collegiale coi vescovi? Poco: dopo decenni nei quali s’è temuto che la collegialità danneggiasse il papato, il tempo ha mostrato che è vero il contrario e che è la mancanza di collegialità che spossa il vigore del papato. Per quanto tempo il segretario di Stato può evitare di avere un consiglio di coordinamento di una Curia pletorica e costosa? Anche qui poco: manca un sostituto d’Europa, manca una visione d’insieme che liberi dalla illusione che le questioni bioetiche siano il cuore e il grosso dell’annuncio cristiano. Per quanto tempo la Chiesa può fare a meno di riflettere su ciò che dice della fede una condizione storica ormai tutta spostata fuori dall’area archeologica della secolarizzazione? Ancor meno: ci sono chiese vive che si misurano con grandi culture e richiedono un nuovo universalismo della fede capace di far posto a linguaggi nuovi nella preghiera e nella dottrina.
Il nuovo Papa c’è già: è seduto con uno zucchetto rosso in mezzo ai cardinali. Ha ancora due giorni per ascoltare un collegio singolare come quello cardinalizio, se una maggioranza (la sua?) lo anticiperà. Oppure forse sei giorni se si starà alle regole vecchie. In un caso e nell’altro, non ha tempo da perdere.
Alberto Melloni

CARLOTTA DE LEO
SUL BLOG VATICAN2013 LE POSSIBILI «PRIMARIE» - La mancanza di cardinali «di peso». E di candidati altrettanto carismatici in grado di catalizzare i consensi. È per questo che il conclave che verrà (e di cui non si conosce ancora la data) potrebbe aver bisogno di una sorta di «primarie» e, alla fine, potrebbe riservare sorprese. Di certo, la votazione sarà meno scontata di quella che portò nel 2005 Ratzinger ad affacciarsi dal Palazzo apostolico e per cui bastarono appena un giorno e mezzo di Sistina. È questa la sintesi dell’originale analisi di Jean-Marie Guénois, vaticanista del quotidiano francese Le Figaro, online da questa mattina su Vatican2013 (http://pope2013.corriere.it/) il blog multi autore in lingua inglese del Corriere della Sera che segue giorno per giorno le delicate fasi che porteranno i cardinali all’elezione del Pontefice. E lo fa moltiplicando i punti di vista grazie a una squadra di esperti internazionali come Gian Guido Vecchi, vaticanista del Corriere e John L. Allen, giornalista americano, corrispondente per il National Catholic Reporter, Cnn e National Public Radio. Sempre oggi, i lettori di Vatican2013 potranno leggere l’analisi di Paul Badde (corrispondente da Roma e dal Vaticano per il quotidiano tedesco Die Welt) che si sofferma ancora sulle dimissioni di Benedetto XVI: una scelta criticata e paragonata al «grande rifiuto» di Celestino V che Dante, nella Divina commedia, collocò all’Inferno. Una comparazione che, secondo il vaticanista tedesco, è sbagliata oltreché storicamente infondata. E ora, Vatican2013 ha un suo spazio ben visibile nel nuovo speciale #Conclave (http://www.corriere.it/esteri/speciali/2013/conclave/) che il sito Corriere.it ha deciso di dedicare a questo evento storico con opinioni, approfondimenti, video e gallery.
Carlotta De Leo

GIAN GUIDO VECCHI
I TIMORI DEGLI STRANIERI CHE SIA STATO GIA’ TUTTO DECISO — «Il problema serio, a questo punto, è la valutazione dei candidati, la scelta del Papa». Il che può sembrare lapalissiano, alla viglia di un Conclave, ma è pur sempre un modo per dire che tutto ciò che si dice o accade in questi giorni ha a che fare in ultima analisi con la ragione della presenza dei 115 elettori a Roma: «È la scelta più importante della nostra vita». I cardinali che escono dall’aula nuova del sinodo ostentano un’aria serena ma il loro sguardo si fa di giorno in giorno più teso, concentrato. Si sta arrivando al dunque. Per questo la decisione sulla data non è affatto un dettaglio. Il problema non è sapere quando dovranno fare i bagagli e traslocare tutti quanti nelle stanze (da sorteggiare) a Santa Marta. Il problema è conoscersi. Nei primi giorni si vedevano porporati sfogliare con interesse il fascicolo con curriculum e foto degli elettori nella Sistina. Molti non si sono mai incontrati. Tra loro dovranno scegliere il successore di Pietro, al quale affidare un potere assoluto. E il tempo è prezioso. In Vaticano si ripete che nella storia si sono fatti e disfatti Papi anche in ventiquattr’ore.
Molti «stranieri» sono arrivati a Roma sospettando che i «curiali» — i quali, a torto o a ragione, non godono di ottima fama tra i confratelli — avessero già predisposto tutto, che i giochi fossero già fatti. Non che sia facile, il nuovo Papa dovrà avere i due terzi dei voti. Ma un candidato che parte con un buon numero di preferenze può «sfondare» in pochi scrutini, se non ci sono antagonisti. In questo clima le «voci» vanno prese con le molle. Da diversi giorni si dice che in Curia sarebbero pronti a sostenere il brasiliano Odilo Pedro Scherer, 63 anni, arcivescovo di San Paolo, che potrebbe avere al suo fianco un segretario di Stato «solido» come Mauro Piacenza o Leonardo Sandri. Ma c’è anche chi sospetta come la «voce» dell’appoggio curiale — che non garantisce il massimo della popolarità e postula un’unità della Curia che non esiste — possa essere un modo di «bruciare» un candidato di primo piano: l’America Latina e il Brasile in particolare hanno il maggior numero di cattolici al mondo; il primo viaggio del nuovo Papa sarà dal 23 al 28 luglio per la Gmg di Rio de Janeiro.
L’aria è questa. Ed è in questo quadro che si tende a far rientrare anche la recrudescenza delle polemiche e dei veleni di Vatileaks. Chiaro che lo scandalo dei documenti rubati dall’Appartamento del Pontefice abbia un ruolo importante. Benedetto XVI ha voluto che il «dossier» segreto della commissione fosse consegnato «unicamente» al suo successore, ma i tre cardinali che hanno condotto le indagini hanno avuto la possibilità di dare «informazioni utili» ai confratelli. Per lo più negli incontri «informali» tra le congregazioni. È quello che stanno facendo in questi giorni. In aula non si sono fatti nomi. E, per quanto si sa, gli «orientamenti» dei tre cardinali riguardano le «disfunzioni» della Curia emerse nell’inchiesta. Ore, del resto, i nomi diventano impliciti. Ma anche qui si torna sempre allo stesso punto: «Ci vuole tempo, molti di noi non hanno idea di che cosa è successo né la curiosità di chiederlo», sospira un porporato.
La scelta dei cardinali Usa di sospendere i loro briefing suona come una polemica contro gli «spifferi» curiali sulle congregazioni. Ieri il cardinale Francis George, in chiara polemica con la «vecchia Curia», ha sillabato: «Chi difese Maciel (il fondatore pedofilo del Legionari di Cristo ndr) non può essere Papa» E poi ci sono i veleni ricorrenti di Vatileaks. Posto che, oltre al Papa emerito, nessuno conosce davvero il dossier (salvo tre cardinali e il segretario della commissione, tutti al di sopra di ogni sospetto) Oltretevere si pensa che le «voci» arrivino dalla «vecchia guardia» che ha fatto resistenza sorda al pontificato di Ratzinger, fin dall’inizio: il «corvo» cominciò a rubare carte dal 2006. I veleni diffusi anche in questi giorni potrebbero mirare a convincere il collegio a chiudere in fretta le congregazioni ed entrare in Conclave. Non che i cardinali sembrino turbati: per lo più hanno l’aria di volersi prendere ancora qualche giorno. «Ci sono da discutere i problemi della Chiesa universale». E c’è da scegliere un Papa.
Gian Guido Vecchi

PAOLO CONTI
ANCHE LE SUORE CHIAMATE A GIURARE SULLA SEGRETEZZA - Ieri padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, è stato chiaro e perentorio: oltre ai cardinali chiamati al voto in Conclave, e che risiederanno nella Casa di Santa Marta in Vaticano, ci saranno altre persone chiamate a prestare formale giuramento di segretezza. E tra loro c’è un congruo numero di donne. Semplicemente perché si tratta delle suore di Santa Marta, addette alla gestione della residenza per le loro eminenze: amministrazione, centralino, organizzazione della mensa. In più c’è il personale femminile di sala e per le pulizie degli alloggi. Quindi ci sono i segretari dei cardinali, gli infermieri di turno, i due medici fissi che gravitano intorno al Parlamento della Chiesa Cattolica chiamato a eleggere il nuovo Pontefice di Roma. Nel caso di violazione del segreto, qualsiasi esponente del microcosmo di Santa Marta rischia la scomunica latae sententiae. Per un cattolico praticante e osservante si tratta della peggiore minaccia possibile: l’esclusione immediata dalla comunità dei fedeli, la perdita di ogni beneficio legato all’appartenenza alla Chiesa cattolica, il divieto di ricevere o di amministrare (nel caso dei sacerdoti) i sacramenti. Il termine latae sententiae indica che in quel caso la scomunica non deve essere nemmeno notificata all’interessato, come avviene talvolta con i prelati nel caso di mancanze gravissime: per il solo fatto di aver violato l’obbligo di segretezza al Conclave si viene automaticamente scomunicati. Il giuramento è sempre stato previsto. Ma stavolta siamo di fronte al primo Conclave con un Papa emerito ancora in vita perché ha scelto di dimettersi. Il Collegio cardinalizio è ben lontano da un’intesa. Chiunque sarà eletto Papa rappresenterà, alla fine, un elemento di sorpresa. C’è da prevedere che tv di tutto il mondo e grandi gruppi editoriali, finito il Conclave, si metteranno alla caccia di chi ha assistito a discussioni, confronti, magari liti. Materia straordinaria per un best seller milionario. Terribili tentazioni terrene in agguato.
Paolo Conti


[La Stampa: 4 articoli, Giacomo Galeazzi, Gerard O’Connell, An. Tor, Marco Bardazzi - Andrea Torniello]

LA PAURA DI VATILEAKS ENTRA IN CONCLAVE -
Nuova «fumata nera» per l’inizio del conclave. Anche negli interventi di ieri si sono ascoltate critiche alla gestione della Curia. Vatileaks, mancanza di coordinamento, difficoltà nei rapporti con gli episcopati sono stati al centro di alcuni interventi. A difendere la Curia è stato il sodaniano Lajolo, mentre un altro curiale (Rodè) ha condiviso le critiche. Slitta ancora l’avvio: non c’è accordo. Ma l’americano Mahony commenta: «Congregazioni verso la fine, la data è vicina». E il francese Barbarin conferma: «Non tarderemo a decidere». Dopo le dimissioni di Benedetto XVI i porporati devono dimostrare al mondo di aver recepito il suo monito contro le «divisioni che deturpano il volto della Chiesa». Dunque i nodi (Ior, scandali , governance) vanno sciolti prima dell’ingresso in conclave, altrimenti con ripetute votazioni a vuoto si darebbe al mondo un’immagine di scarsa unitarietà d’intenti e di visione. «I mass media abbondano di papabili dai nomi esotici, ma poi chi li vota?» sorride il curiale italiano davanti alla Basilica di San Pietro. Non si sa ancora quando comincerà il conclave ma il recinto dell’elezione pontificia (cappella Sistina e residence Santa Marta) è da giorni «sotto bonifica». Si vuole scongiurare il ripetersi dello «strappo» del 2005 quando un cardinale tedesco riuscì a comunicare all’esterno l’elezione di Joseph Ratzinger permettendo a una tv in Germania di dare l’annuncio prima dell’«Habemus Papam» del protodiacono. Per questo verrà attivata la «gabbia di Faraday», un sofisticato dispositivo in grado di disturbare le trasmissioni delle cimici. Contro il furto di documenti i Sacri Palazzi sono infestati di microspie. Il conclave ai tempi di Vatileaks è anche un gioco di specchi tra quelli che hanno messo le cimici e quelli che debbono rimuoverle. Occorre conciliare due esigenze: la sicurezza della Curia e la segretezza dell’elezione pontificia. In Segreteria di Stato spiegano che è «come per la conversione post-bellica». La caccia ai «corvi» ha legittimato misure eccezionali che in sede vacante si rivelano una minaccia alla riservatezza. Un apparato «pesante» da «tempi di guerra» che ora va riadattato alla delicatissima fase «pacifica» della scelta del Pontefice. Già adesso è schermata l’Aula del Sinodo dove si svolgono gli incontri pre-conclave per impedire l’utilizzo dei cellulari ed è stata disattivata la rete wireless al punto da provocare il black out comunicativo nelle vicine postazioni-stampa. Durante l’elezione pontificia sarà sorvegliato il percorso degli elettori tra Santa Marta e la Cappella Sistina e si sta pensando anche alla loro perquisizione. Il rischio è una fuga di notizia anche con mezzi informatici o tecnologici. A tutte le persone (laici ed ecclesiastici) che stanno allestendo il seggio elettorale più prestigioso del mondo viene richiesto il giuramento di segretezza. Intanto nelle congregazioni ci sono alcune eminenze interessate a capire il ruolo della Gendarmeria, che ha assunto un notevole rilievo rispetto al passato e che è per questo oggetto di accuse che i dirigenti del corpo definiscono calunnie. In risposta alla crisiVatileaks, la polizia pontificia ha acquisito poteri di controllo, intercettazione e pedinamenti: alle dirette dipendenze del segretario di Stato e della segreteria particolare del Papa. Nel sacro collegio si riconosce alla Gendarmeria il merito di aver efficacemente condotto le indagini che hanno portato alla sbarra Gabriele e Sciarpelletti, però adesso si vogliono rassicurazioni. L’apparato di sicurezza non deve tramutarsi in un «grande occhio» che tolga «privacy» ai momenti (necessariamente discreti) precedenti l’elezione pontificia. Con l’arrivo del vietnamita Pham Minh Man tutti i 115 conclavisti attesi sono arrivati a Roma. Non ci sono più impedimenti all’anticipo del conclave autorizzato dal Motu proprio. Però la Curia non vuole più dare l’impressione di affrettare i tempi. Non si trovano le fila per produrre candidature «forti» con un serbatoio già consistente di voti. E si rinvia la decisione sulla data. A Santa Maria Maggiore è cominciato il triduo di messe «Pro Eligendo Pontifice».

Giacomo Galeazzi


"PER IL FUTURO DELLA CHIESA SERVE UNA CHIARA CATENA DI COMANDO" -
L’intervista è stata concessa prima del silenzio imposto dal Vaticano

Donald Wuerl, arcivescovo 72enne di Washington, è uno degli undici cardinali dell’autorevole gruppo dei porporati elettori statunitensi. Spera nell’elezione di un papa con una visione spirituale e moderna, in grado di condurre la chiesa nel futuro e promuovere la fede anche attraverso un utilizzo dei nuovi media per essere presente nel mondo.

Quali sono le principali sfide della chiesa?

«Sono essenzialmente tre. La prima riguarda il rapporto e la complementarietà della fede con la ragione, un percorso rilanciato dalla teologia di Benedetto XVI sul quale c’è ancora molto da costruire. La seconda è la sfida pastorale: rilanciare l’essenza del messaggio del vangelo. La terza sarà riconsiderare il modo in cui il ministero petrino si è svolto fino ad oggi e come si configurerà in futuro».

Pensa ad una maggiore «collegialità» tra papa e vescovi?

«Una delle cose che abbiamo imparato dagli ultimi due pontificati è la necessità per il papa di raggiungere globalmente i cattolici di tutto il mondo, non solo attraverso le lettere encicliche ma anche grazie al sostegno dei vescovi suoi confratelli nell’azione apostolica nei loro paesi. Una presenza fisica ma anche virtuale perché la chiesa si confronterà sempre di più con il mondo anche attraverso i nuovi strumenti della comunicazione».

Il caso Vatileaks dimostra che è necessaria una vera riforma della curia?

«Non ho una conoscenza sufficientemente approfondita di quello che sta succedendo. Posso solo parlare dalla mia esperienza personale per dire che è molto importante che ci sia una visione comune in qualsiasi ufficio, si tratti di una curia locale o di quella romana e soprattutto una chiara catena di commando».

La nazionalità è un elemento importante nella scelta del Papa?

«Non credo, è fondamentale la visione spirituale del nuovo pontefice. Il problema più urgente sarà come il papa condurrà la chiesa nel rispetto della parola del vangelo».

Il conclave durerà a lungo?

«Non sarà breve. Molto dipenderà dai primi giorni, anche perché non c’è ancora una scelta chiara sui candidati. Io cerco di informarmi come fanno i miei confratelli attraverso il confronto all’interno e all’esterno delle congregazioni. Tutto è nelle mani di Dio».

Gerard O’Connell


E SCOLA TORNA PAPABILE CON LUI ANCHE GLI AMERICANI -
Dopo quattro giorni di discussioni e sei congregazioni generali, in aula ma ancor di più nei colloqui a tu per tu che avvengono lontano da occhi indiscreti sembrano delinearsi meglio i gruppi e i «papabili» più forti. Tra questi è in crescita il nome dell’arcivescovo di Milano Angelo Scola. Considerato fin dall’inizio uno dei possibili candidati al Soglio, su di lui potrebbero convergere i voti di diversi cardinali americani e di altri elettori europei, dalla Germania ai Paesi dell’Est, oltre che di qualche italiano. Non va poi dimenticato che anche grazie all’iniziativa della Fondazione Oasis, il porporato ambrosiano ha intessuto rapporti pure con le Chiese orientali, ad esempio con il patriarca libanese Bechara Rai.

Scola è stato tenuto in particolare considerazione da Benedetto XVI, che l’ha trasferito dalla sede patriarcale di Venezia a quella di Milano. Una decisione inedita letta da più di qualcuno come una segnalazione. E non è un mistero che Papa Ratzinger, condividendo il suggerimento del cardinale Camillo Ruini, aveva pensato a lui anche nel 2007 per l’incarico di presidente della Conferenza episcopale italiana. Allora fu il neo-Segretario di Stato Tarcisio Bertone a opporsi e la nomina fu lasciata cadere. Scola è dunque percepito come estraneo alla Curia romana e alla gestione che l’ha caratterizzata in questi ultimi anni. A motivo della sua conoscenza internazionale potrebbe essere uno dei due candidati forti fin dalla prima votazione nel conclave che si aprirà la prossima settimana.

L’altro candidato che al momento si prevede possa partire con un buon numero di voti, è il brasiliano Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo, che vanta una lunga esperienza curiale e vaticana e avrebbe il sostegno di alcuni autorevoli porporati della Curia, dall’ex Prefetto dei vescovi Giovanni Battista Re al decano Angelo Sodano (che però non entrerà nella Sistina a votare).

Bisognerà vedere quanto peso avranno le discussioni di questi giorni, le critiche alla gestione curiale, la voglia di rinnovamento. E anche quanti saranno i voti convogliati su altri candidati, come il canadese Marc Ouellet, l’ungherese Peter Erdö, i latinoamericani Bergoglio, Robles Ortega e Rodriguez Maradiaga; gli outsider Ranijth, Tagle e O’Malley (quest’ultimo legato a Scola da rapporti di stima).

Tutte le possibilità sono aperte. Ma già dal secondo giorno di conclave gli equilibri potrebbero cambiare e come avvenne nella seconda elezione del 1978, potrebbe profilarsi una sorpresa.

[An. Tor]


"DOPO GIOTTI BASTA ITALIANI" COSI’ LO IOR FINI’ AD UN TEDESCO -
"Lo Ior non è San Marino. Può provare a essere il L i e c h t e n st e i n , che è riuscito a ripulire la propria immagine. La sfida è ardua, la cattiva pubblicità di questi tempi non si cancellerà facilmente».

Il Torrione di Niccolò V racchiude le sale ovattate dell’Istituto per le Opere di Religione. Chi ci lavora non ama parlare con nome e cognome. Ma c’è voglia di far sapere che la «banca vaticana», è stanca di vedere il proprio nome associato a scandali e misteri. E ora che sono passati nove mesi dalla burrascosa uscita di scena di Ettore Gotti Tedeschi ed è stato nominato il successore, si fa trapelare come si è arrivati a investire il tedesco Ernst von Freyberg del ruolo di «banchiere del Papa».

La sfida che lo attende, spiegano a La Stampa fonti che lavorano a contatto con i vertici dello Ior e della Segreteria di Stato, sarà quella di accelerare sulla strada del cambiamento. Vincendo resistenze interne che nessuno nega. Già, il cambiamento. La trasparenza. Passi voluti da Benedetto XVI. Che nel settembre 2009 era stato scelto Gotti, banchiere del Santander, cattolico dalla spiritualità vicina all’Opus Dei.

Non tutti Oltretevere sono d’accordo ad aprire le porte della finanza vaticana alle valutazioni di Moneyval. C’è chi teme che il Vaticano metta a rischio autonomia e sovranità. C’è un management della «banca vaticana» che non vuole abbandonare protezioni e privilegi. Le resistenze si sono viste quando Bankitalia e magistratura hanno aumentato la pressione sullo Ior per ottenere informazioni. Gotti si è trovato sempre più isolato a partire dal Natale 2011, e in disaccordo sulla linea scelta per rispondere alle richieste di adeguamento alle norme sulla trasparenza.

La legge antiriciclaggio per il Vaticano che avevano scritto esperti a lui vicini è stata rivista. Una task-force che includeva anche l’avvocato americano Jeffrey Lena e un giurista di fiducia del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, ne ha riscritto diverse parti. Tutto fatto in fretta, senza coinvolgere gli estensori della prima versione. Bisognava rispondere alle richieste di Moneyval. «Ma nella riscrittura - confiderà Gotti - si è andati ben al di là». In effetti, con la nuova legge il potere dell’Aif, l’autorità di informazione finanziaria presieduta dal cardinale Attilio Nicora, viene ridimensionato, mentre aumenta quello della Segreteria di Stato. Decisioni che la Santa Sede sarà costretta a rimangiarsi. Sono le settimane cruciali dell’inizio di Vatileaks: tra le carte fatte uscire c’è anche un appunto del cardinale Nicora, che lamenta la riduzione dei poteri ispettivi dell’Aif.

Poi tutto precipita per Gotti. E gli eventi hanno ancora tratti oscuri. Il 24 maggio 2012 il presidente dello Ior viene sfiduciato dai quattro colleghi del board. Il documento con le motivazioni viene consegnato ai media. È un atto d’accusa durissimo contro Gotti, al quale si imputano «incapacità» e «mancanza di prudenza». Lo si sospetta anche di aver avuto un ruolo nella diffusione dei documenti. Gli si mette accanto, di nascosto, uno psichiatra che riferirà al direttore dello Ior Cipriani. Si tenta di distruggerlo anche come uomo.

«Il problema è che con Gotti le cose si erano messe così male che non si è riusciti a dargli la possibilità di un’uscita in sordina», spiega una fonte autorevole. L’idea era stata quella di concordare un percorso per fargli lasciare l’incarico. «Ma lui ha rotto, non ha voluto ascoltare le contestazioni e ha divulgato la notizia della sfiducia. A quel punto bisognava pubblicare anche le motivazioni di quella sfiducia. Non è stato possibile muoversi con più prudenza».

La notizia del defenestramento fa il giro del mondo e sembra di assistere a una lotta all’ultimo sangue tra chi vuole la trasparenza e chi la teme. La realtà è più complessa. Tutti Oltretevere sono consapevoli che lo Ior ha bisogno delle norme antiriciclaggio se vuole continuare a operare. Lo scontro è su come agire: con l’uscita di scena di Gotti vince il fronte di chi ritiene siano eccessive le «ingerenze» della Banca d’Italia nelle vicende finanziarie vaticane.

È stato Bertone a volere il licenziamento di Gotti? «Il cardinale è stato solo informato prima dal board dello Ior su quanto stava per accadere» racconta una fonte che ha partecipato all’operazione. Difficile però immaginare che uomini scelti dal Segretario di Stato per guidare l’Istituto abbiano agito senza il suo placet. La commissione cardinalizia che sovrintende allo Ior si trova così davanti al fatto compiuto: chiede spiegazioni, vorrebbe conoscere anche la versione di Gotti. Sono mesi di tensioni tra alcuni porporati e il board.

Il processo per arrivare alla nomina del nuovo presidente sarà lungo. La parola d’ordine implicita: niente italiani. «Un candidato italiano avrebbe creato problemi - svelano le voci dal Torrione - vista la situazione con Bankitalia e i rapporti che poteva avere con il sistema bancario locale».

Il Vaticano si affida alla società internazionale «Spencer Stuart» per individuare il successore di Gotti. La ricerca è accuratissima e si è arriva, negli ultimi giorni del pontificato, alla nomina di von Freyberg, cavaliere di Malta. Non è dato di sapere a quanto ammonti la parcella pagata dal Vaticano per scegliere il candidato ideale.

Ora diversi cardinali prima del conclave vogliono essere bene informati su queste vicende. Ieri alla congregazione generale hanno parlato tre porporati curiali per spiegare lo stato delle finanze vaticane. Ma la questione non è chiusa. E forse qualche eminenza si porrà la domanda se sia davvero indispensabile possedere una banca interna, con tutta la «pubblicità negativa» che ciò comporta.

Marco Bardazzi - Andrea Torniello