Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 07 Giovedì calendario

ZINGALES: «IO LEADER DI FARE? SE ME LO CHIEDONO NON LO ESCLUDO»

Luigi Zingales per 10 giorni ha incassato insulti su Twitter e Facebook («sei come Scilipoti», «servo di Berlusconi»), ma anche attestati di stima. Né gli uni né gli altri hanno niente a che fare con il suo lavoro alla University di Chicago School of Business. Ovviamente, riguardano uno dei colpi di scena della campagna elettorale: quando Zingales si è dimesso da Fare per fermare il declino e ha fatto sapere che il suo leader, Oscar Giannino, non aveva mai preso un master a Chicago come invece sosteneva.
Professor Zingales, quando si è accorto della discrepanza?
«Non mi ero mai preoccupato se avesse un master, per me non è questo che conta. Il punto è l’aver mentito. Il mio errore è stato non aver controllato, non aver fatto la due diligence come insegno ai miei studenti. La prima volta che ho avuto un dubbio è stato il 12 febbraio, quando mi è arrivata un’email dall’ufficio stampa di Booth: diceva che un giornalista italiano si occupava di una voce di Wikipedia secondo cui Giannino ha un master».
Non l’ha colpita che dall’Italia si indagasse?
«Mi ha colpito due giorni dopo un’email da un mio collega di Chicago che aveva avuto una richiesta da un altro italiano, sempre sullo stesso punto. Aveva il link alla video intervista in cui Giannino dice che ha un master. Era giovedì 14 febbraio. Lì sono sobbalzato. Ho chiesto conferma alla mia università che non avesse quel titolo, poi ho parlato con le persone con le quali ho più dimestichezza nel movimento e ho scritto a Giannino per chiedere chiarimenti».
Lui e gli altri come rispondono?
«Il primo giorno Oscar non risponde. Gli altri cercavano di minimizzare».
Il fatto che in due dall’Italia facessero ricerche su Giannino alla sua università non l’ha insospettita?
«Sul momento sì. Ho cercato di capire chi fossero. Il primo è un giornalista, Alex D’Agosta, collaboratore del Sole 24 Ore nel settore auto. L’altro è un ingegnere appassionato di Wikipedia e questa storia dimostra che Wikipedia è meravigliosa: due fazioni si combattevano sul web sul master di Giannino e entrambi volevano sapere la verità. Poi se qualcun altro da dietro ha mosso Wikipedia non so, ma mi parrebbe una cosa da servizi segreti. Improbabile».
Basta questo a spiegare la vostra rottura?
«In realtà a un certo punto mi illudevo che potesse anche essere un fatto positivo. Oscar poteva ammettere i propri errori, eventualmente lasciando, e noi avremmo mostrato che siamo un movimento serio e trasparente. Non come gli altri che si ritrovano case intestate a loro insaputa. Ma Oscar ha rifiutato di ammettere qualsiasi cosa, mentre io sospettavo già che sarebbe venuto fuori altro. Bisognava spiegare subito, per fermare altre speculazioni. E anche il gruppo dei fondatori mostrava dubbi sull’idea di fare chiarezza».
A quel punto lei che fa?
«Chiedo a Oscar di lasciare che un gruppo di persone decida sul da farsi. Lui mi risponde: "Non interrompo la campagna elettorale per farmi giudicare da un sinedrio". A quel punto io non ci ho visto più. All’interno, ho dato le dimissioni per provare a sbloccare l’impasse. In nove della direzione mi hanno risposto che Oscar stava facendo tanto per il partito e bisognava andare avanti».
Di qui la rottura. Non era meglio aspettare fino a dopo le elezioni?
«Lo rifiuto. Noi ci siamo presentati come un movimento nuovo: non potevamo non vivere secondo i nostri stessi criteri. E se fossimo stati zitti per raggiungere il quorum, quale sarebbe stata la conseguenza di lungo periodo? Avremmo distrutto la nostra immagine. Dopo come avremmo potuto attaccare gli altri? Non era neanche chiaro che Giannino, una volta eletto, si sarebbe poi dimesso. E devo dire sono rimasto di sasso di fronte alla reazione timida degli altri fondatori, anche quando ho cercato di gestire il caso coordinandomi con loro».
La sua università la stava mettendo sotto pressione?
«Per niente, non è questo il punto»
La prossima volta non è più sicuro se si candida lei come leader?
«Non mi sento leader, sono un intellettuale».
Dunque escluso?
«Non lo escludo nella misura in cui ciò nasce dalla domanda delle persone e non dal mio desiderio personale. L’importante è avere un gruppo dirigente all’altezza, ma fin qui non c’è stata neanche una dichiarazione per dire che ho fatto bene a fare chiarezza. Abbiamo lasciato che Grillo facesse la campagna chiara e trasparente che dovevamo fare noi».
Federico Fubini