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 2013  marzo 07 Giovedì calendario

E D’ALEMA RILANCIA LA TEORIA DELL’INCIUCIO


BEPPE Grillo ha appena cominciato a denunciarlo, mentre c’è ancora chi da quasi vent’anni lo nega e al tempo stesso si adopera per nobilitarlo. L’inciucio. E un senso di già visto e stravisto, ai confini della nausea, aleggia sulle speranze e le illusioni con l’aggravante della crisi. Per cui anche ieri l’ipotetico ciu-ciu-ciù tra finti nemici è risuonato – se mai ve ne fosse bisogno illuminando la miniaturizzazione e l’immiserimento della politica.

NELLA scivolosa ambiguità lessicale della Seconda e forse adesso anche della Terza Repubblica, per quanto riguarda il Pd l’inciucio è tale da potersi rivolgere, con eguale esito e pari ripugnanza, tanto a Berlusconi che ai parlamentari del M5S.
O almeno: nel corso della direzione D’Alema si è rivolto, come sempre gli succede, al centrodestra, ma sono giorni che i grillini si sentono «adescati », addirittura, e sempre per restare al linguaggio il verbo usato indica un ulteriore salto: dal cortile degli scambi pettegoli al marciapiede.
Dubbia è l’origine di questa parola onomatopeica che viene senz’altro da Napoli, là dove «inciuciare» è voce che appartiene per lo più alle abitudini del volgo. E tuttavia l’uso politico, secondo alcune lectiones, si deve ad Alessandra Mussolini che con la consueta sua delicatezza la gettò in pasto ai giornalisti nell’estate del 1994.
Ciò detto, l’entrata in circolo del lemma è merito e demerito di D’Alema, da poco divenuto segretario del Pds, e come tale attorniato da un gruppo di assistenti, detti «lo staff», tra cui spiccava la fantasia di Claudio Velardi, napoletano senza complessi né remore, che l’inciucio deve aver instillato nell’animo del suo baffuto stratega.
Il quale stratega, secondo l’omonimo libro di Travaglio-Gomez, (Rizzoli, 2005) utilizzò per la prima volta l’espressione in un’intervista a Repubblica nell’ottobre del 1995. E la circostanza può anche far riflettere, ma quando fiorì sulla bocca di D’Alema l’inciucio non solo era una brutta cosa, ma già grossa e grassa, o meglio era «l’inciucione».
Come e perché fosse cresciuto in così poco tempo è già più complicato dire. Ma in linea di massima anche a quel tempo il leader Maximo cercava di guadagnare spazio proponendo accordi alti e nobili al Cavaliere. E su che cosa? Diamine: sulle riforme istituzionali, che mai si fecero. Le famose regole del gioco su cui un paio di generazioni di giornalisti politici si sono inutilmente e ridicolmente dannati. In realtà si trattava di tenere a bada Prodi, oltretutto prima insidiato con Dini e poi con Maccanico.
Però Prodi vinse lo stesso. Ma D’Alema che, pure qualche merito lo aveva, anche se non era stato invitato sul palco della vittoria, tanto disse e tanto fece da farsi nominare presidente della Bicamerale. Che divenne — guarda guarda — il grande teatro dell’inciucio, dopo essere entrato negli Annali del Lessico contemporaneo e nel 1997 anche nel Dizionario Treccani.
Con qualche sintomatica forzatura si arrivò a scrivere che Veronica Berlusconi regalò marmellatine del suo orto alla famiglia D’Alema. Ma certo, e senza inoltrarsi sul terreno degli interessi televisivi, l’intesa fu sanzionata in un patto siglato sulla tavola di casa Letta, tanto da prendere il nome di una certa crostata. Ma poi patapùnfete, saltò tutto. Meno la voglia di intrigare, impastrocchiare e comunque trattare sottobanco, che pure in qualche misura è implicita nell’agire politico.
Diabolico semmai è il perseverare, e a tale proposito si potrebbe chiedere conferma a Prodi, che di nuovo restò vittima di qualche confuso accordo, più o meno malamente orchestrato; mentre Fini, dall’altra parte, dixit: «La parola che ha fatto più male alla politica è stata l’inciucio».
Ma a quel punto il linguaggio si era ormai definitivamente allentato, e con esso il decoro del potere. I politici non erano in grado nemmeno più di inciuciare. E tutto già preannunciava il grande e buffo disastro di oggi.