Francesco Merlo, la Repubblica 7/3/2013, 7 marzo 2013
GENOVA PER LORO LA NUOVA CAPITALE
GENOVA per noi … è l’Italia di oggi. Ad ogni stagione della politica, infatti, l’Italia diventa una città. Questo è il tempo della Genova di Beppe Grillo e dei tanti genovesi di successo e di qualità, talenti debordanti e senza regole come la loro città-mondo. Non sono clan e non sono cosca, ma si vogliono bene attraverso i cieli carichi e le primavere leggere di questa nuova capitale politica che ha conquistato l’egemonia.
O — se preferite l’inglese del cretino cognitivo — ha preso il posto trendy e cool che fu via via della Milano di Berlusconi e della Lega, della Roma di Andreotti e del Papa, della Palermo di Falcone e Borsellino, della Bologna di Prodi, Casini e Fini ma anche di Dalla e Morandi.
Ebbene oggi Grillo è per la smodata Genova un’idea come un’altra, la faccia buffa che ha preso un’antica indignazione carbonara, quella italianissima ma antipiemontese che partì appunto da qui, dalla scogliera di Quarto, con i soldi degli inglesi. Anche Paolo Villaggio che lo aveva maltrattato — «Grillo non è una politica, è una cazzata» — dopo il successo elettorale ha riacceso il cuore genovese e lo ha paragonato a Mao: meglio di Mao, «un Mao allegro». E non credo che Fantozzi- Fracchia sia uno dei tanti che, flaianamente neogrillini, stanno saltando sul carro, il diciottesimo canto di Alessio Interminei da Lucca, e da poco più di una settimana “non hanno mai la lingua stucca”.
All’inverso Genova per lo smodato Grillo è Giuseppe Mazzini e Renzo Piano, le eccellenze maltrattate in Italia e amate all’estero perché italiane. Anche il grande architetto, che lavora moltissimo nel mondo ma in patria poco e tra mille ostacoli, è a suo modo un ghibellin fuggiasco, accudito a Parigi, dantesco e ramingo come il “cuore battente” del Risorgimento, il massone della loggia segreta ‘Speranza’ alias fratello Strozzi alias dottor Brown, che fu accudito a Londra.
E per chi ama la tricostoriografia, cioè la storia a partire dai peli, c’è probabilmente anche una barba genovese, quella di Piano e di Mazzini appunto, ma anche di Grillo, e di Antonio Ricci per esempio, che su “Striscia la notizia” ha anticipato il grillismo, con la satira d’inchiesta, la gogna, il gabibbo che è già un vaffanculo, il tapiro, il qualunquismo antipartito, le veline che diventano militanti; persino la rotazione dei capigruppo sembra ispirata alla rotazione dei conduttori, Greggio e Iachetti come Roberta Lombardi e Vito Crimi. Un’altra barba genovese è quella di Ivano Fossati che fu l’aedo dell’Ulivo di Veltroni con la sua “Canzone popolare” e ora canta “Cara democrazia” che sembra l’inno della cospirazione grillina: ‘cara, cara democrazia / sono stato al tuo gioco / anche quando il gioco si era fatto pesante / così mi sento tradito / o sono stato ingannato …’.
Quella genovese non è la barba saggia dell’autorevolezza, la barba, che so, di Platone e di … Cacciari, ma una maschera che nasconde e che rivela, cospiratrice dunque e mai troppo folta com’è invece quella apertamente rivoluzionaria di Marx o di Gesù o di Castro. E’ la barba della società segreta, metodica e tenace, è appunto il populismo di Grillo che, come Genova, è una babele di lunga durata, una barba accudita e coltivata da anni, una barba carsica nella Rete. Più che a Scientology somiglia alla carboneria e alla massoneria, roba genovese appunto, con i gradi di iniziazione, gli apprendisti, i maestri e gli illuminati. E come in ogni loggia la “tegolatura”, che sarebbe la trasformazione della pietra grezza in un vero affiliato, è affidata ad un fratello terribile che, in questo caso, è il milanese Gianroberto Casaleggio, visionario e apocalittico Vecchio della Montagna che, in disparte, comanda con cenni di assenso e di diniego. Nella sua ‘Casaleggio associati’ impiega sedici persone che compongono il famoso staff, una specie di corpo di polizia internauta, e molti di loro sono pendolari Milano-Genova.
La Liguria, dove il Movimento 5 stelle è stato più votato, si sottrae alla macroregione del Nord sognata da Maroni (Lombardia), Cota (Piemonte), Zaia (Veneto) e Tondo (Friuli), ma esprime in un modo tutto italiano, risorgimentale e cosmopolita, il sentimento di ostilità verso la politica. Il governatore è il diessino Burlando mentre il sindaco Marco Doria è sinistra fuori dagli schemi, il marchese rosso, un’altra invenzione, un’altra conferma che è questo il laboratorio vincente, la polis che non è provincia, la patria bellissima delle personalità dilatate che acchiappano il mondo ma si ritrovano nel dialetto, la città che subentra a Milano il cui declino sembra purtroppo inarrestabile: la tipicità genovese al posto di quella milanese dove si sono arroccati Berlusconi e Maroni. Milano è stata la città municipio, la fucina delle scorciatoie, imbevuta del mito di se stessa come piccola grande patria cittadina, la modernità coniugata con l’eterno brambillismo dell’arricchirsi innanzitutto, la semplificazione, l’amore per la roba e la corruzione anche morale di Craxi, di Berlusconi, di Penati, di Formigoni e della Lega, una corruzione smodata che rimanda alla puzza delle case dei marescialli dell’esercito, la grettezza come odore perso nell’umidità e nella nebbia, un che di rancido della città italiana che è la più vicina all’Europa ma non è Europa perché in quella vicinanza c’è l’estraneità, una voglia di essere che, in quanto voglia, non è essere. Milano è ancora oggi piena di Beccaria, intelligenze europee e comportamenti sordidi, una scintillante metropoli preannunciata da boari puzzolenti di letame vaccino, una città internazionale che trasuda la ruralità padana egoista e razzista, il celodurismo che si rivela gelatina.
Milano Municipio dunque, da sempre contrapposta a Roma-Stato, imprendibile e inspiegabile, come il suo Andreotti. Ormai non esiste un italiano che non sogni di processare Roma, sentina di tutti i vizi, la città Stato della dissipazione, degli sprechi, del vacuo, della corruzione e del potere, «la città tomba» diceva Stendhal.
Dopo Milano-Municipio, Roma-Stato e Palermo-Antistato, ora tocca a Genova-Mondo, la città di Colombo con tutti i suoi moderni artisti anarcoidi. Luigi Tenco, per esempio, che fu personaggio stendhaliano, precursore dei disagi del sessantotto e poi Gino Paoli, che con il suo pessimo umore e la sua scontrosità genovesi, è stato il poeta di quell’Italia adolescente che cercava il suo linguaggio adulto tra mille pregiudizi e mille tormenti. Il ruvidissimo Paoli è stato uno dei più grandi interpreti dell’amore nell’Italia repubblicana, la donna delle sue canzoni è figlia e sorella della donna di Pavese, di Fenoglio, di Bianciardi.
Se il milanese Berlusconi ricorse ai professori per cercare legittimazione e mitigare la sua rozzezza, al genovese Grillo basta esibire gli chansonnier che nell’Italia moderna valgono molto più degli accademici. E se vuole indicare un capo dello Stato c’è il suo amico Renzo Piano, che ovviamente si sottrae con eleganza, ma lo accarezza, è lontano dal suo estremismo ma non capisce come si possa giudicare pericoloso per la democrazia il vecchio Beppe, così simpatico, così divertente, così genovese. Anche il turpiloquio, l’autoritarismo un po’ squadrista e le strampalate proposte economiche e politiche diventano «il buono che fa la faccia cattiva», sono il mugugno del genovese, esagerazioni e belinate, protesta anarchica, il codice del carattere mazziniano e garibaldino insieme, perché e vero che Garibaldi era di Nizza ma Nizza e Genova sono sorelle di mare e di terra.
E Grillo era amico di De Andrè che sta alla canzone come Leopardi sta alla poesia: “Bocca di rosa” è “A Silvia” e “Via del Campo” è “L’Infinito”. In Italia il canto ha preso il posto del romanzo di formazione e Genova è stata la patria dei cantautori, tutti sovversivi grilloidi e agitatori, soprattutto gli introversi che neppure salutano per strada, visi abbronzati e nasoni, focacce e malinconia virile, anche Lauzi, anche Bindi… Importavano gli chansonnier ribelli mentre Berlusconi cantava quelli da crociera, Brassens contro Trénet, Brel contro Chévalier.
C’è un santuario del populismo grillino, è la Genova degli artisti fuori misura, le personalità che oltrepassano i saperi definiti. Anche quel barbutissimo professore Becchi, ordinario di Diritto privato, che rilascia interviste da ideologo del grillismo, si confessa bordighiano che è una specie superstite solo a Genova, dove sicuramente ci sono seguaci persino di Rosmini e di Gioberti intorno al cardinale Bagnasco, non grillino di militanza, ma grillino di carattere.
E’ dunque il momento di Genova, «parenti ci sentiam /di quella gente che c’è là / e come noi è forse un po’ selvatica», Genova perché le città, almeno in Europa, non sono neutrali, tutte figlie di Atene e Sparta, più importanti persino degli Stati, e infatti se diciamo “Francoforte” diciamo Banca e Bruxelles è l’Europa, l’autorità delle sue leggi … L’Italia è il Paese del mondo più ricco di polis. Lo storico Le Goff ce le invidia insieme alla cucina. Ma non le abbiamo provate tutte e mentre «ci chiediamo / se quel posto dove andiamo / non ci inghiotta e non torniamo più» ci viene in mente che ci sono, come direbbe Calvino che era ligure, anche le città invisibili, le città del forse, come la Firenze di Renzi per esempio dove magari si può andare senza la faccia un po’ così.