varie (la Repubblica; Corriere della Sera; La Stampa; il Fatto Quotidiano; il Giornale 7/3/2013), 7 marzo 2013
DOSSIER CHÁVEZ
[la Repubblica: 2 pezzi, Daniele Mastrogiacomo e Moisés Naím]
LACRIME E SOLDATI IN STRADA A CARACAS UNA FOLLA OCEANICA DIETRO LA BARA DI CHÁVEZ–
Il lutto si respira nell’aria, pesante e oppressivo. Si coglie nello sguardo della gente, spento, triste, sconfitto. Si sente tra le case e le vie improvvisamente silenziose. Niente musica, niente grida dei bambini che adesso, con il sole che inclina ad ovest, tornano a giocare nei cortili quasi sottovoce. Perfino nei bar e nei ristoranti, di solito assordanti di chiacchiere e di discussioni, il rispetto impone qualcosa che è estraneo a una popolazione solare e colorata. Sarà così per una settimana. Tra le 21 salve di cannone che esploderanno due volte al giorno e poi scandiranno l’orazione funebre di domani.
Il dolore per la morte di Hugo Chávez, per la scomparsa di quello che resta per tutti comunque il presidente, fa spazio all’orgoglio ferito di un popolo che a maggioranza credeva in un progetto politico e sociale diverso. La rabbia esplode solo in alcune manifestazioni di intolleranza. I militanti bolivariani non sopportano le critiche accettate fino a qualche giorno fa. Adesso è diverso: è il momento del dolore, del rispetto. Con la mente proiettata verso il futuro che appare incerto e per molti confuso. Senza più una guida politica, senza più un padre della Patria, i venezuelani sembrano orfani allo sbando. Restano in attesa di quello che accadrà. Sullo sfondo si agitano i fantasmi di uno scontro che potrebbe trasformarsi in una battaglia finale tra chi è rimasto al potere per 14 anni e chi non è riuscito a proporre una alternativa convincente. Ma è la stessa opposizione, simboleggiata da Henrique Capriles, grande sconfitto alle ultime elezioni, a placare gli animi. Nessuna vendetta, nessuna offesa. È il momento dell’unità. Domani tutto il Venezuela si stringerà attorno all’uomo che ha voluto emulare Simon Bolivar, el Libertador. Per chiudere un’era e pensare a costruirne un’altra.
Lo hanno accompagnato in lacrime nel cuore di Caracas, tra una marea di maglie e cappellini rossi, cantando l’inno e piangendo: trasportata a braccia dagli ufficiali della guardia d’onore, la bara di Hugo Chavez ha lasciato ieri l’Ospedale Militare avvolta in una bandiera. Dopo una breve preghiera e una benedizione impartitagli da un sacerdote, alle 11 di ieri mattina il feretro coperto di fiori gialli e bianchi ha attraversato il piazzale davanti all’ospedale gremito dalla folla, sotto le telecamere della televisione pubblica che ha trasmesso la cerimonia sottolineandola con un sottotitolo fisso: “Hasta la victoria siempre, comandante Chavez”. Poi via, trasportato da un carro funebre e accompagnato da militari, chavisti e familiari, dalla madre Elena de Chavez e da una folla oceanica in strada e sui tetti, sulle scale antincendio e dietro finestre e terrazze. Dagli altoparlanti si leva ancora una volta la sua voce, il suo canto: “Patria, patria, patria querida, tuya es mi alma, tuyo es mi amor...”, la canzone intonata l’8 dicembre nell’ultima apparizione pubblica prima di tentare il miracolo medico a Cuba, inesorabilmente fallito.
Ora toccherà al vicepresidente, Nicolas Maduro, raccogliere l’eredità politica del Caudillo. Ma, in base a un’interpretazione controversa della sentenza della Corte Suprema di Giustizia del gennaio scorso, se Maduro indicato da Chavez come suo successore ideale e come nuovo leader del “Chavismo”, vorrà diventare presidente del paese seduto sul secondo giacimento di petrolio al mondo, dovrà rinunciare alla vicepresidenza prima di iniziare la campagna elettorale. Poi dovrà vedersela con il governatore dello Stato di Miranda, Henrique Capriles, dato comunque per sfavorito.
La tensione, intanto, cova sotto la brace. Martedì notte, dopo l’annuncio della morte del presidente, la folla in piazza a Caracas ha aggredito una troupe dell’emittente televisiva colombiana RCN TV, ferendo al volto e costringendo a fuggire la giornalista Carmen Andrea Rengifo e il cameraman Samuel Sotomayor: Chavez ha più volte accusato il presidente colombiano Uribe di collaborare con il potere imperialista americano, e i due paesi sono ai ferri corti. In città molte saracinesche restano abbassate nel timore che la piccola criminalità, sempre più aggressiva e pericolosa, approfitti della situazione per rapinare in libertà. E la Farnesina avverte gli italiani di evitare accuratamente «manifestazioni e assembramenti » ricordando che «la situazione di sicurezza nel Paese risulta molto precaria, con fenomeni di criminalità largamente diffusi».
E se a Caracas la folla piange il suo Caudillo, la notizia della morte del “dittatore” è stata festeggiata per tutta notte con musica, canzoni e balli nelle comunità di venezuelani residenti negli Stati Uniti, soprattutto in Florida: «È brutto celebrare la morte di una persona, ma noi abbiamo sofferto molto a causa di Chavez», dice Beatriz dalla sua casa di Tampa, emigrata negli States 20 anni fa con il marito Paul, stappando birre con i vicini per celebrare: «Adesso si potranno finalmente convocare elezioni veramente libere, con la speranza che finisca il tempo della tirannia».
Ai funerali, venerdì, hanno già confermato la presenza una decina di presidenti latinoamericani. I presidenti di Argentina, Uruguay e Bolivia — Cristina Fernandez de Kirchner, José Mujica ed Evo Morales — sono arrivati già martedì notte, altri sono atterrati ieri. Ci sarà anche il leader iraniano Ahmadinejad. Washington, per ora, fa sapere di sperare che adesso le relazioni tra i due Paesi possano migliorare.
La comunità internazionale, intanto, offre il suo cordoglio: «Nel ricordo dell’impegno del presidente Chavez per il progresso sociale del suo popolo, formulo i migliori voti per la sua persona e per la nazione venezuelana», dice il presidente Giorgio Napolitano. Persino il re di Spagna, Juan Carlos, che nel 2007 lo zittì platealmente con un “perché non taci?” durante una seduta della Camera iberoamericana in cui Chavez interrompeva continuamente il premier spagnolo Zapatero, gli ha inviato un telegramma di condoglianze ricordandone «l’impegno e la dedizione a favore del Venezuela e di tutta l’America latina». E il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha osservato un minuto di silenzio. Chavez potrebbe essere sepolto accanto ai resti di Simon Bolivar nel grande mausoleo che gli stava facendo costruire, ormai quasi pronto.
Daniele Mastrogiacomo
IL BUONO, IL BRUTTO E IL CATTIVO–
ANCORA prima di morire Hugo Chávez era già entrato nel pantheon dei leader latinoamericani noti in tutto il mondo, al fianco di Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara.
E al pari degli altri due anche Chávez è un personaggio fortemente controverso, oggetto di una profonda ammirazione, che trascende facilmente in venerazione entusiasta, e di un’ostilità che spesso si tramuta in un odio altrettanto intenso.
È inevitabilmente difficile tracciare un bilancio obiettivo del suo operato, come succede con tutti i personaggi che suscitano sentimenti radicalmente contrapposti, da Mao a Perón. Tuttavia, anche se le azioni di Chávez alimenteranno un dibattito senza fine, ci sono alcuni aspetti incontrovertibili del suo lascito, che illustrerò qui di seguito suddividendoli in tre tipologie ispirate al titolo del celeberrimo film di Sergio Leone (ma mettendo il “brutto” per ultimo), più una quarta di mia aggiunta.
Il buono. Il lascito più duraturo e positivo di Chávez è l’aver dichiarato guerra alla coesistenza pacifica del Venezuela con la povertà, la disuguaglianza e l’esclusione sociale. Non è stato il primo leader politico a mettere i poveri al centro del dibattito nazionale. E non è stato nemmeno il primo a usare un’impennata dei proventi petroliferi per aiutare i poveri. Ma nessuno dei suoi predecessori lo ha fatto in modo così aggressivo e con tanta insistenza. E nessuno è riuscito come lui a impiantare così in profondità questo obiettivo nella psiche della nazione, e addirittura a esportarlo nei Paesi vicini e ancora più in là. E la sua capacità di dare ai poveri l’impressione che al potere c’era uno di loro è qualcosa che non ha precedenti.
Un altro aspetto positivo della sua eredità è l’aver messo fine a decenni di indifferenza e apatia verso un sistema dominato da partiti politici ormai corrotti. Il risveglio politico della nazione innescato da Chávez ha coinvolto abitanti delle baraccopoli, operai, studenti universitari, ceti medi e – purtroppo – anche militari. E qui comincia l’eredità negativa di Chávez.
Il cattivo. Dopo 14 anni al potere, Chávez non si lascia dietro una democrazia più forte o un’economia più prospera. E questo nonostante rivendicasse in continuazione di essere stato quello che finalmente aveva dato potere ai poveri, da tempo esclusi, e che sotto di lui i proventi del petrolio erano cresciuti più a lungo e in modo più prorompente che in tutta la storia del Venezuela.
Chávez e i suoi seguaci facevano notare che con lui al potere si sono tenute 15 fra elezioni politiche e referendum, e che i suoi programmi sociali hanno favorito la partecipazione e la democrazia “diretta”, o “radicale”. Ma la democrazia, come ha osservato Scott Mainwaring, uno stimato studioso americano, richiede «l’elezione libera e imparziale del governo e dei parlamentari, la garanzia del diritto di voto alla quasi totalità della popolazione adulta, la tutela dei diritti politici e delle libertà civili e il controllo delle forze armate da parte delle autorità civili. Il regime chavista lascia alquanto a desiderare sulla prima e la terza di queste caratteristiche fondamentali della democrazia: la contesa elettorale è fortemente condizionata e i diritti dell’opposizione sono sempre meno rispettati. Le forze armate sono molto più politicizzate e coinvolte nella politica di quanto non succedesse prima di Chávez».
La realtà è che il presidente è stato uno dei primi e più abili esecutori di una strategia politica che è diventata comune, dopo la fine della guerra fredda, in molti Paesi che i politologi definiscono «regimi autoritari competitivi»: si tratta di regimi dove i leader conquistano il potere attraverso elezioni democratiche e poi modificano la Costituzione e altre leggi per limitare i controlli e contrappesi al potere dell’esecutivo, garantendo in questo modo la continuità e la quasi totale autonomia del regime, ma conservando una patina di legittimazione democratica. Non è un caso che Chávez sia il capo di Stato da più in tempo in carica nelle Americhe.
L’altra cattiva – e paradossale – eredità di Hugo Chávez è un’economia a soqquadro. Paradossale perché la sua permanenza al potere è coincisa con un boom dei prezzi delle materie prime e la presenza di un sistema finanziario internazionale traboccante di liquidi e più che disposto a prestare denaro a Paesi come il Venezuela. Si aggiunga a questo il fatto che il presidente è stato libero di adottare tutte le politiche economiche che voleva. Eppure, nel momento della sua morte, pochi altri Paesi presentano distorsioni economiche paragonabili a quelle che affliggono il Venezuela. Che ha un disavanzo di bilancio e un tasso di inflazione fra i più alti del mondo, uno dei peggiori squilibri del tasso di cambio, una delle crescite più rapide del debito pubblico o uno dei tracolli più drammatici della capacità produttiva, inclusa quella del fondamentale settore petrolifero. Inoltre, durante l’era di Chávez, la nazione è precipitata agli ultimi posti nelle classifiche che misurano la competitività internazionale, la facilità di fare impresa o l’attrattività per gli investitori esteri, mentre al contrario è salita ai primi posti nelle classifiche della corruzione. Quest’ultimo dato è un altro paradosso di un leader che aveva conquistato il potere sull’onda della promessa di sradicare la corruzione e schiacciare l’oligarchia. La borghesia bolivariana – i boliburgueses, come viene chiamata dai venezuelani la nuova oligarchia formata dai fedeli alleati dei leader del regime e i loro amici e parenti – ha accumulato ricchezze enormi grazie ad accordi illeciti con il governo. Anche questo fa parte dell’eredità infelice che lascia Chávez.
Il brutto. Il presidente Chávez lascia una società fortemente polarizzata. Le divisioni sociali sono sempre esistite, ma la strategia politica di Chávez ha attizzato fin troppo il risentimento, la rabbia e la rivalsa. Ci vorrà molto tempo e sforzi immensi per sanare le ferite lasciate dalle dosi massicce di conflittualità sociale che Chávez ha incoraggiato e sfruttato a suo vantaggio.
Un altro aspetto brutto del chavismo è che il Venezuela è diventato uno dei Paesi con il più alto tasso di omicidi del mondo. Kabul o Bagdad sono meno pericolose di Caracas, dove omicidi e rapimenti sono diventati un elemento della vita quotidiana. Inoltre, gli organismi giudiziari internazionali additano il Venezuela come rifugio sicuro per falsari, riciclatori di denaro sporco e trafficanti di persone, armi e, ovviamente, droghe. Secondo le Nazioni Unite il Venezuela è diventato il principale fornitore di droga dell’Europa. Il Dipartimento del tesoro degli Stati Uniti ha indicato otto esponenti di primo piano del governo Chávez, tra cui l’ex capo dei servizi segreti e il ministro della Difesa, come personaggi chiave del narcotraffico. In mezzo a tutto questo Chávez si è dimostrato insolitamente silenzioso e passivo. La sua acquiescenza mentre la nazione precipitava in un vortice di omicidi e criminalità rimarrà uno degli aspetti più brutti e imperdonabili dei suoi anni di potere.
L’occasione mancata. Il popolo venezuelano aveva dato a Chávez un assegno politico in bianco, e il prolungato boom dei prezzi del petrolio gli aveva garantito un assegno in bianco anche dal punto di vista finanziario. Pochi altri capi di Stato hanno potuto contare per 14 anni, come Chávez, sull’effetto combinato di un vastissimo consenso popolare e risorse finanziarie smisurate. Il controllo totale che esercitava su tutte le leve del potere lo metteva nelle condizioni di poter fare quello che voleva. E lo ha fatto: ha cambiato il nome del Paese, ha cambiato la bandiera nazionale, ha imposto un nuovo fuso orario unico. E molto di più. Quello che non ha fatto è stato lasciare il Paese in condizioni migliori di quando era diventato presidente. Hugo Chávez merita di essere ricordato come un’occasione mancata.
Moisés Naím
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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[Corriere della Sera 07/03/2013: 2 pezzi, Rocco Cotroneo e Giovanni Caprara]
ROCCO COTRONEO
IL LUNGO ADDIO DI CHAVEZ «SEPOLTO ACCANTO A BOLIVAR» — I singhiozzi in silenzio della madre Elena, piegata sulla bara; le figlie, i fedelissimi del regime e l’amico boliviano Evo Morales, il più svelto ad arrivare. E poi il primo bagno di folla per il feretro, un serpentone rosso fuoco per le strade di Caracas. L’addio a Hugo Chávez sarà lungo, sette giorni di lutto nazionale, e un funerale che si prevede colossale domani. Qualcuno ha già coniato l’espressione «scomparsa fisica», che il popolo chavista nelle strade — o urlando nei microfoni delle radio e delle tv — già coniuga con l’idea di eternità. Dall’hasta siempre! della mitologia cubana, al «Chávez vive!» di oggi, il Venezuela al potere si prepara a una soluzione nordcoreana, almeno per qualche tempo. Un leader che guarda dall’alto e non è mai morto, per vegliare sulle prossime elezioni, molto ravvicinate. E per rimuovere il dubbio ricorrente: può esistere un chavismo senza Chávez? Nell’esercito si fa strada l’ipotesi di far riposare il leader scomparso al Pantheon nazionale, a fianco al suo mito, il libertador Simon Bolivar. Una decisione forte, ma non ancora presa. Chávez avrebbe chiesto difatti di essere sepolto nella sua cittadina natale, Sabaneta, sotto un albero che amava da bambino. Ieri mattina c’è stata la prova generale del funerale. Il feretro di Chávez ha percorso le strade di Caracas, ben 13 chilometri, dall’ospedale militare fino all’accademia dell’esercito dove ci sarà oggi la camera ardente. Centinaia di migliaia di persone lo hanno accompagnato, vestiti con la tradizionale maglietta rossa. Molti in lacrime. A fianco ai familiari la prima linea del potere, Nicolas Maduro, Diosdado Cabello e Rafael Ramirez, la triade politica, militare e petrolifera che regna sul Venezuela. Insieme a Morales.
Tutti gli altri leader dell’America Latina stanno arrivando per l’ultimo saluto a Chávez. Aldilà della prossimità ideologica di uno o l’altro al leader scomparso, è una perdita che coinvolge tutto il continente, e in modo inedito. Basti pensare che il lutto nazionale è stato proclamato anche in Brasile, Ecuador, Panama oltre che a Cuba. L’età non permetterà a Fidel Castro di salutare colui che considerava un figlio e l’erede politico. Ma ci sarà il fratello Raul. L’attesa a Cuba per i prossimi eventi politici in Venezuela è spasmodica, perché la dipendenza economica dal chavismo è molto forte. La probabile vittoria di Maduro alle prossime elezioni rassicura per ora il castrismo. Ma gli aiuti sono un costo che a un certo punto potrebbe non essere più sostenibile, e non sono troppo popolari in Venezuela, nemmeno tra i sostenitori di Chávez.
L’opposizione rispetta il lutto, e il dolore sincero che milioni di persone sentono in queste ore. Ma è già pronta a questionare le prime mosse del dopo Chávez, a partire dal sorprendente passaggio dei poteri al vice Maduro. Secondo la Costituzione sarebbe Cabello, leader del Congresso, a dover ora gestire il Paese e convocare le prossime elezioni. Perché cominciare una nuova fase con questa forzatura? Vero è che Chávez è stato esplicito, nominando Maduro come suo erede politico nell’ultimo discorso pubblico. Può darsi quindi che escludere Cabello anche da una simbolica presidenza ad interim, di poche settimane, sia un segnale di un regolamento dei conti avvenuto, e concluso. Da qui la voce, tornata in forze ieri, di una morte di Chávez avvenuta tempo fa e nascosta fino alla fine della battaglia di successione. Come avvenne per Mao, insomma.
Rocco Cotroneo
GIOVANNI CAPRARA
QUELLA NOTTE ROMANA A MONTE SACRO TRA I SEGUACI IN FILA PER ACCAREZZARLO — Hugo Chávez Frias non è stato soltanto un personaggio che prima di diventare capo di Stato in Venezuela aveva indossato l’uniforme di colonnello dei paracadutisti e aveva tentato due golpe. Comunque lo si giudichi, è stato un demagogo di particolari capacità e di sicuro ingegno. Accumulava nelle sue mani parecchio potere non soltanto per avere avuto dimestichezza con l’uso della forza: da militare era riuscito a riconvertirsi in artigiano della politica.
Una notte del 2005 volle andare a Monte Sacro. Era il 16 ottobre. Chávez aprì il programma di una delle sue visite a Roma dentro un parco pubblico, dopo il tramonto, salendo su una collinetta per rievocare una storia che in tanti non ricordavano più. Due secoli prima l’indipendentista latino-americano Simón Bolívar (1783-1830) aveva giurato lì di impegnarsi a combattere la dominazione spagnola. La figura di questo rivoluzionario (generale e dirigente politico, a sua volta) serviva da tempo al nazionalista Chávez per dotare di un’aureola di mitologia e di un ancoraggio a tradizione le sue teorie sul «Socialismo del siglo XXI», ideologia populista in un’era con pochi numi. Davanti a decine di immigrati venezuelani convogliati sulla collina dall’ambasciata della República Bolivariana de Venezuela il presidente non si accontentò di appagare il proprio narcisismo, simile a quello di molti personaggi pubblici, incassando applausi dai circa 300 radunati, in parte ammiratori, in parte precettati.
«¿Cómo te llamas?», come ti chiami?, domandava puntualmente ad alta voce l’ex paracadutista ai fan più calorosi che lo circondavano per stringergli la mano, chiedergli un autografo, pregarlo di accarezzare un figlio. Il venezuelano di turno rispondeva, per esempio: «Fernando, Presidente!». Consapevole di quanto convenga a un politico dare importanza a un cittadino comune, che ne ricava gratificazione, Chávez rilanciava: «¿De dónde eres?», di dove sei? Fernando, per esempio, rispondeva: «Sierra Imataca». E giù allora domande sulla situazione in Sierra Imataca. Stessa scena con la persona successiva. «¿Cómo te llamas?». «Maria Gabriela». «¿Cuántos hijos tiene usted?», quanti figli hai? La domanda successiva virava sui nomi dei figli, le età e così via.
Avere presa a distanza sul pubblico delle televisioni serve, ma non basta. Benché da propagandista del XXI secolo conducesse un programma in tv, Aló, Presidente, Chávez lo sapeva. Aveva imparato che oltre a stringere patti, marpioneggiare e tenere la scena occorre farsi toccare dal vivo da qualcuno del popolo per essere eletti in via diretta capo dello Stato, come gli era riuscito nel 1999 e nel 2002. Nell’ostentare la vicinanza al pueblo, spesso, si toglieva un gusto: far accartocciare il protocollo, il cerimoniale, altrui.
In una delle trasferte a Roma per incontri bilaterali e interventi alla Fao (volle anche cantare con Al Bano, nell’agenzia dell’Onu), l’ex parà nazionalista si piazzò all’hotel Parco dei Principi, vicino alla residenza dell’ambasciatore degli Stati Uniti. Arrivarono politici, l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, potenti vari. El Presidente costrinse più d’uno a lunghe anticamere. Per dare udienza, prima, a una delegazione di studenti romani «in lotta».
È forse anche per la comune tendenza a irridere i cerimoniali che il presidente venezuelano ogni tanto giocava a gatto e topo con Silvio Berlusconi. Una volta il Cavaliere, di centro-destra, gli porse la mano. La destra, come si usa. Chávez gli diede la sinistra, «perché la izquierda è migliore». Non ne nacque un incidente: il Venezuela era tra i principali produttori di petrolio. Berlusconi, in un incontro del 2005, per accorciare le distanze con un interlocutore coriaceo ricorse ad Aida Yespica, venezuelana dell’Isola dei famosi. Le telefonò e gliela passò.
L’anno seguente, avendolo intervistato in precedenza, chi scrive chiese a Chávez un’altra intervista. El Presidiente decise di parlare sull’auto che lo portava all’aeroporto di Ciampino. Una delle domande fu con quali armi pensasse di combatte la «guerra di resistenza» che aveva ipotizzato se attaccato da George W. Bush. Chávez si voltò verso l’interprete, Costanza Gruber. E rispose: «Una donna ha tante armi, alcune sono segrete. Hanno intuizione, intelligenza, poi altre che non posso dire. Noi, una strategia di difesa basata su militari, riservisti...».
Maurizio Caprara
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il Fatto Quotidiano del 7 Marzo 2013 1 pezzo di Maurizio Chierici
LA RIVOLUZIONE PERMANENTE DELLO SPACCONE DONCHISCIOTTESCO DIVENUTO PADRE DELLA PATRIA –
La vita pubblica di Hugo Chávez comincia il 4 febbraio 1989: sta per compiere 34 anni. Non spara sulla folla in rivolta contro il presidente socialdemocratico Andrés Carlos Perez: aveva raddoppiato il prezzo del pane e la gente urla in piazza. Chávez volta le armi contro il palazzo. Golpe improvvisato, subito arrestato. Diventa un mito per i diseredati dei barrios, migliaia di baracche nelle colline affacciate sulla capitale. Anche certi imprenditori e Tv e giornali nelle mani dei ponderosos trovano “interessante” il militare che ha sfidato i loro concorrenti. Pensano a una marionetta facile da manovrare e soffiano sull’indulto finché non torna in libertà. L’ex prigioniero viaggia per animare il movimento appena inventato: Quinta Repubblica. Negli anni di galera ha ricevuto migliaia di lettere e biglietti d’amore. Marisabel Rodriguez giornalista dal fascino biondo, non lascia dubbi sulla simpatia: “Quando vuoi,dovevuoi”. Appena fuori Chávez trascura moglie e bambine e corre da lei. Arriva l’invito fatale: Fidel Castro lo invita all’Avana per una conferenza su Simon Bolivar, libertador che incanta il tenente colonnello. Il quale racconta come un sogno il viaggio a Cuba. Onori da capo di Stato, tappeto rosso e poi ore ad ascoltare i comandamenti dell’uomo che gli cambierà la vita. Finalmente la prima conferenza elettorale all’Hilton di Caracas. Aplomb da manager latino. Giacca, cravatta, camicia bianca dal colletto blu. Parla a braccio. Citazioni bibliche che accompagnano i numeri dell’economia. Poche ore dopo lo accompagno a Maracaibo assieme a Marisabel: sta per dargli un figlio. Quasi non lo riconosco: tuta Leopard , basco rosso, frusta in mano. Furia da inquisitore che non perdona: “Farò scappare i vecchi ladri così”. È il Chávezs doppiato che annuncia quale timbrò avranno le sue presidenze. Vince le elezioni seppellendo Irene Saènz, exmiss Universo e sindaco del municipio di Chaco, zona rosa di Caracas. Vertici della Chiesa e i miliardi sono con lei eppure Irene raccoglie appena il 3% e la voce di Chávez diventa la colonna sonora del paese. Paga i debiti a chi gli ha dato una mano. La moglie dell’editore della Universal fa il ministro dell’Informazione, ma gli insegnamenti di Castro lo allontanano dal vecchio potere. E la Universal ed El Nacional e ogni Tv privata aprono il fuoco contro il presidente che privilegia i fantasmi della povertà: riforma agraria, scuole per tutti, università pubbliche con studenti dei quartieri popolari ai quali paga lo stipendio per aprire i libri. Per la prima volta le tasse diventano una cosa seria. Piccola e grande borghesia voltano la faccia. E il Chávez dei primi giorni sparisce nel Chávez che parla e parla per ore, come Fidel. Alò Presidente, la sua trasmissione, risveglia una tv pubblica poco frequentata.
CHÁVEZ AL POSTO di Bruno Vespa: risponde alle telefonate. Ordina in diretta ai ministri di costruire ponti, aggiustare strade. Tempo del talk show previsto, 50 minuti. Tre anni dopo supera le 5 ore. Mette il naso in ogni angolo oscuro. Le visite improvvise negli ospedali. Urla nei corridoi, svergogna primari. Le riforme provano a restituire una dignità sconosciuta a milioni di senza niente, ma l’educazione militare lo condiziona: girandola di ministri liquidati o riassunti senza spiegazioni. Sempre e solo la sua parola che è la parola alla quale milioni di emarginati legano ogni speranza. Il paese si spacca. Poi il braccio di ferro con gli Usa, cliente principe del petrolio. Non sopporta che il “dittatore” regali il petrolio all’Avana rompendo gli embarghi e non sopporta l’amicizia coi paesi canaglia: Iran, Corea del Nord, Libia, Siria. E la minaccia degli arsenali di Caracas dove arrivano armi russe e cinesi. Un’opposizione nutrita dagli aiuti paracadutati da Washington “nel nome della democrazia”. 11 aprile 2002, ecco il colpo di Stato nelle trame dell’ambasciatore Otto Reich, fedelissimo di Bush figlio. L’annuncio di Chávez prigioniero viene distribuito su ogni tv da Carmona, presidente degli imprenditori. Quando Chávez sparisce chiamo il cellulare di Marisabel. Non sa dov’è, perché da mesi se n’è andata col bambino”. Troppo geloso. Ero stanca di finire all’ospedale col racconto d’essere caduta dalle scale…”. Il golpe fallisce, comincia l’epurazione. Scappa Carmona. Ortega, segretario del sindacato socialdemocratico, riprova un anno dopo col golpe economico. Sciopero che paralizza le raffinerie. La crisi economica che comincia e sprofonda negli ultimi anni: fuga di capitali, investimenti babilonesi di un governo soffocato dalla corruzione e lo strangolamento commerciale di holding che gonfiano i prezzi. Due mesi fa il bolivar si svaluta del 40%. Eppure Chávez rivince elezioni “trasparenti”. Trionfo simbolico. In ospedale il giorno dopo. Ora commozione e bandiere, ma il paese trema.
Il Giornale del 7 marzo 2013 1 pezzo di Gian Micalessin
L’EREDITÀ PESANTE DEL CAUDILLO: IL PAESE IN ROSSO (CONTI INCLUSI) –
E adesso? Quel dubbio è l’unica certezza di tutti i venezuelani. Se lo chiedono sia quelli scesi a grondar lacrime al passaggio della salma di Hugo Chavez traslata ieri all’Accademia militare di Caracas, sia quelli che venerdì si guarderanno bene dal presentarsi ai funerali. Il problema, lo sanno tutti, non è chi arriverà dopo, ma quel che il «caudillo» si lascia dietro. Un’eredità pesante che neppure le seconde riserve di greggio del pianeta possono alleviare. Il primo a saperlo è il fedelissimo vicepresidente Nicolas Maduro chiamato a rimpiazzarlo e a correre per la successione nelle elezioni previste, come da costituzione, entro 30 giorni dalla morte. Sicuramente vincerà, ma i problemi per lui incominceranno in quel preciso istante. Da qui al voto Maduro può contare sull’effetto della macabra pantomima messa in scena poco prima dell’annuncio della dipartita quando lui e altri esponenti del regime hanno avvalorato la tesi di un tumore indotto e alimentato da una sofisticata operazione d’avvelenamento targata Washington.
Non ci crede nessuno,ma serve ad avvalorare l’idea di un paese nel mirino degli yankees. Un paese dove i seguaci del defunto leader devono fare muro compatto contro l’opposizione interna dipinta come sordida quinta colonna dell’America e del capitalismo. Unendo queste tesi surreali alla commozione nazionale e all’indiscusso consenso di cui gode il partito del caro estinto Maduro non avrà problemi a piegare Henrique Capriles Radonski, il giovane governatore capo dell’opposizione, già sconfitto da Chavez nelle elezioni dello scorso ottobre.
I problemi veri incominceranno quando il devoto, ma grigio successore dovrà salutare il mondo delle favole e misurarsi con quello dei numeri e dei problemi reali. Il primo si chiama petrolio. Quando 14 anni fa il suo prezzo sprofondò intornoai dieci dollari al barile Chavez lo usò per incolpare d’inettitudine i suoi predecessori e conquistare il potere. Quello stesso petrolio, con un prezzo risalito dai 10 ai 91 dollari, è diventato il propellente della sua rivoluzione da bancarotta. Per conquistarne il controllo ha innanzitutto messo alla porta i dirigenti della Petróleos de Venezuela (Pdvsa) non allineati con lui. Subito dopo ha trasformato la compagnia in un gigantesco e surreale banco di mutuo soccorso. Dai serbatoti della Pdvsa escono i centomila barili di greggio devoluti quotidianamente a Cuba e quelli riconosciuti ad altri paesi amici. Con i soldi del greggio si pagano le tre milioni di «case per tutti» da costruire, come promesso prima delle presidenziali di ottobre, entro il 2018.Con le entrate dell’oro nero si finanziano persino i sussidi di stato indispensabili per consentire ai venezuelani di pagare meno di 7 centesimi di euro una benzina proveniente non dalle dissestate raffinerie di stato, ma da quelle degli odiati Stati Uniti. Senza contare i 640mila barili di petrolio spediti quotidianamente in Cina per ripagare un prestito da 42,5 miliardi di dollari.L’oro nero usato per alimentare la rivoluzione permanente del Caudillo rischia insomma di durare poco. Anche perché l’eliminazione dei manager più qualificati e la mancanza d’investimenti nella ricerca hanno fatto precipitare la produzione dai 3 milioni di barili al giorno del 2000 agli appena 1,7 milioni del 2011. Se a tutto ciò si aggiunge che il settore petrolifero rappresenta il 50 per cento dell’economia e garantisce il 90 per cento delle entrate in valuta estera i conti sono presto fatti. La svalutazione del 32 per cento ordinata a febbraio da Maduro garantirà ben pochi benefici visto che il settore dell’economia non condizionato dal petrolio è assai modesto. L’inflazione del 20 per cento continuerà invece ad erodere i risparmi dei venezuelani. Che si saranno anche liberati del Caudillo, ma non potranno far a meno di sopportarne la pesante eredità.
IL LUNGO ADDIO A CHAVEZ PENSANDO AL DOPO -
[La Stampa: Paolo Manzo]
Un imponente corteo funebre attraversa Caracas. IN mezzo, avanzando a stento tra le centinaia di migliaia di persone - per alcuni un milione - che premono da ogni parte, avanza l’auto con il feretro del «Comandante», avvolto nella bandiera venezuelana. Accanto cammina sua madre, Elena Frias, che piange con un fazzoletto premuto sul volto. E poi le figlie, i fratelli, il vicepresidente, i membri del governo. Il corteo è partito dall’ospedale militare e, passando in avenida San Martín, si dirige verso l’Accademia Militare, la «Casa dei sogni», come la chiamava lo stesso Chavez, che s’ispirava a Simón Bolívar. In questa Accademia, negli Anni 80, era cominciato il suo movimento V Repubblica, da cui sarebbe derivata la rivoluzione bolivariana. Oggi è diventata la sua camera ardente.
Tra la folla in cammino c’è anche Washington, un quarantenne oriundo dell’Uruguay, che lavota in un ristorante in avenida Libertador: è triste ma se l’aspettava. «Quest’uomo ha fatto per il popolo dei barrios più di qualsiasi altro. Speriamo non si torni al passato». Si commuove: «Il passato delle madri dei quartieri più poveri, che per nutrire i loro figli mettevano nei biberon l’acqua bollita del riso al posto del latte».
Una grande parte del Venezuela è in lutto, e non solo perché è stato proclamato ufficialmente per una settimana - le scuole saranno chiuse sino a domani, giorno dei funerali. Hugo Chávez è per moltissimi l’uomo che in 14 anni ha letteralmente cambiato il volto del Paese.
Ma non tutti la pensano come Washington. Per Piera, di origini italiane e assidua frequentatrice del club italo-venezuelano, lo ha letteralmente distrutto. «Questo prima era un paradiso. Quell’uomo io lo odio, anzi lo odiavo e quando il suo delfino Nicolás Maduro ne ha annunciato ufficialmente la morte in famiglia abbiamo festeggiato». L’antichavista Piera abita nei pressi di Plaza Altamira, una delle zone più esclusive della capitale dove vivono anche ambasciatori e industriali, un feudo dell’opposizione a due passi dal Quartier Generale di Henrique Capriles Radonski, il rivale numero uno dei chavisti. Washington, invece, tutte le sere se ne torna a El Guarataro, un quartiere dove gli abitanti si chiamano al cellulare per avvisarsi se in quel momento ci sono in strada le gang che gestiscono armati fino ai denti il mercato locale della droga.
Prima della partenza del corteo funebre è risuonato l’inno venezuelano, poi è esploso un primo colpo di cannone e il cappellano militare ha benedetto la salma. A quel punto la madre di Hugo, Doña Elena, è crollata avvinghiandosi a alla bara del figlio, inconsolabile. Vicino a lei i fratelli, in lacrime, le figlie e gli amici più stretti. A pochi metri, in processione c’erano tre presidenti sudamericani: il boliviano Evo Morales, l’ex tupamaro Pepe Mujica e l’argentina Cristina Kirchner. Gli altri leader sudamericani, compreso il cileno Sebastián Piñera, il più distante ideologicamente dal bolivarismo chavista, arriveranno tra oggi e domani per partecipare ai funerali. Moltissimi i messaggi di cordoglio, da quello del nostro presidente Giorgio Napolitano che ha sottolineato «l’impegno sociale di Chávez per i suo popolo» a quello dell’iraniano Mahamud Ahmadinejad, che ha definito l’alleato «un martire, ucciso da una malattia sospetta», un chiaro riferimento alle accuse di avvelenamento rivolte a Washington da Maduro l’altroieri. Accuse definite «assurde» dagli Usa che ieri, per bocca del presidente Barak Obama, hanno ribadito tutto il «loro sostegno al popolo venezuelano».
A sera Maria Gabriela Chavez, una delle figlie del presidente, ha pubblicato un messaggio sul suo account di Twitter: «Dobbiamo seguire il suo esempio, dobbiamo continuare a costruire la patria. Hasta siempre, babbino mio!».
Una volta concluse le cerimonie funebri, il Governo presieduto ad interim dal delfino di Chávez, l’ex macchinista Maduro, avrà tempo sino al 5 aprile per indire nuove elezioni. Poi ci sarà da capire solo se davvero potrà esistere ancora un chavismo senza Chávez.
Paolo Manzo