Mara Monti e Walter Riolfi, il Sole 24 Ore 6/3/2013, 6 marzo 2013
WALL STREET AI MASSIMI SPINGE L’EUROPA
MILANO Wall Street sui massimi entusiama le Borse di tutto il mondo. Anche Piazza Affari che dopo giorni di nervosismo, senza un governo e senza una prospettiva di stabilità politica, ha messo a segno un rialzo del 2,78% come non si vedeva da tempo, conquistando per un giorno il titolo di migliore Borsa europea. Persino lo spread è sceso portandosi a 328 centesimi da 346 di lunedì. Complice di tanta euforia non sono motivi endogeni, difficili da trovare. Cina e Stati Uniti hanno guidato i rialzi di tutte le Borse con Parigi che ha terminato in rialzo del 2,09%, Francoforte +2,32%, Londra +1,36% e Madrid +2,15 per cento.
Si comincia con Wall Street dove il Dow Jones, l’indice delle 30 principali società si è portato sui nuovi massimi assoluti a 14.226,2 punti superando i picchi storici toccati nell’ottobre 2007 (14.164,53). Massimi dall’autunno 2007 anche per l’S&P’s 500 che viaggia in rialzo dello 0,69% a 1.535,76 punti, con il massimo assoluto distante soltanto di 2 punti percentuali. La Borsa Usa non ha pagato dazio al mancato accordo sul «sequester», ossia i tagli automatici alla spesa pubblica per 85 miliardi di dollari che quest’anno, secondo la Fed, avranno un impatto negativo dello 0,6% sul Pil. In realtà secondo alcuni analisti tanto entusiasmo non è giustificato. Basta guardare alcuni indicatori del 2007 per capire che i motivi sono altri: se negli Usa il Gdp cresceva del 2,5%, oggi non si va oltre l’1,6%; i disoccupati erano 6,7 milioni oggi si attestano oltre 13 milioni; il rapporto debito su Gdp è passato dal 38% al 74% con il rating degli Usa che da AAA è sceso AA+. Insomma il deterioramento c’è stato.
Eppure il rally borsistico, con un progresso di oltre il 7% da inizio anno, è stato sostenuto in questi mesi anche dal buon andamento dell’ultima stagione delle trimestrali con circa il 75% delle società dell’S&P 500 che hanno riportato utili oltre le attese. C’è chi fa notare che non è l’aspettativa di un miglioramento della congiuntura internazionale ad alimentare questo sentiment, ma piuttosto la "sete"di rendimento che spinge a comperare asset rischiosi, vendendo gli enormi stock accumulati in questi anni di obbligazioni governative che non rendono nulla, anzi hanno rendimenti reali negativi. Un rally quello americano sostenuto non solo dai risultati societari, ma anche dalla Federeal Reserve: dal marzo 2009, quando ha toccato il minimo storico a 6.547,05 punti, il Dow Jones è più che raddoppiato, guadagnando oltre 7.500 punti grazie soprattutto a Ben Bernanke e ai 4mila miliardi di dollari complessivi iniettati dalla banca centrale nell’economia.
Dagli Stati Uniti alla Cina: la Repubblica popolare cinese ha confermato il target di crescita al 7,5% anche per il 2013, invariato rispetto al 2012, con un incremento del 10% della spesa di bilancio per finanziare settori quali la sanità, l’agricoltura e l’istruzione. Indicazioni che hanno rimesso fiducia alla Borsa cinese, con il Csi 300 salito del 3%, dopo il crollo del 4% di lunedì e lo Shanghai Composite Index +2,3 per cento.
Anche l’Europa ha contribuito a dare fiducia ai mercati. Da una parte il ruolo dell’Europa a sostegno della crisi del debito cipriota, dall’altra i buoni dati macro, con il miglioramento dell’indice europeo Pmi/servizi e vendite al dettaglio e dello Ism negli Usa. Il risultato è stata una simmetrica crescita del BTp, con il rendimento sceso a 4,74% e il calo del Bund, portando lo spread tra i due decennali a 328 punti base. Ora gli occhi degli investitori sono puntati su altri appuntamenti chiave della settimana, dai dati sulla disoccupazione americana, agli stress test della Fed sulle banche statunitensi e alla riunione della Banca Centrale Europea: dal presidente Mario Draghi gli operatori attendono indicazioni di un cambio di rotta della Bce a sostegno dell’economia e del mercato del lavoro.
Mara Monti
MA LA BORSA USA NON FOTOGRAFA LO STATO DI SALUTE DEL PAESE –
Per chi si lascia suggestionare dai simboli, è nuovo massimo storico a Wall Street, visto che l’indice Dow Jones ha superato i 14.165 punti toccati nell’ottobre 2007 durante l’euforia della bolla del credito. Se si guarda a un indice che approssimi un po’ meno i valori del Nyse, ossia all’S&P500, Wall Street è comunque a un passo dal record, visto che mancherebbe meno dell’1% per rivedere i 1.554 punti dell’11 ottobre 2007. Ma, se si paragona la situazione di allora con quella di adesso, si ricava l’ulteriore conferma di quanto la Borsa rappresenti piuttosto male l’economia di un Paese.
Se, invece, si guarda ai risultati della corporate America, e in particolare alla redditività espressa dalle maggiori società quotate, il record ci sta tutto: l’utile (ponderato) del paniere S&P500 ha sfiorato i 104 dollari a fine 2012 e raggiungerebbe i 112 $ nel 2013, se si avverassero le previsioni degli analisti. Nel 2007 gli utili furono appena 85 $ e l’anno successivo crollarono del 24%. Con il senno di poi, si può dire che la Borsa americana fu largamente sopravvalutata nell’ottobre 2007 (il rapporto tra prezzi e utili realizzati l’anno successivo fu pari a 24). Oggi l’S&P vale 14,8 volte i risultati 2012 e 13,7 quelli attesi: non è a buon mercato, ma non si direbbe affatto in bolla.
Tuttavia Wall Street rappresenta assai male l’economia reale. Il settore immobiliare non è uscito dalla crisi e, sebbene in crescita, la spesa per costruzioni è ai livelli del 2003. Le vendite di nuove case, inoltre, restano ai minimi da 60 anni. Il tasso di disoccupazione sfiora l’8%, due punti meno del picco del 2010, ma il doppio di quanto era a fine anni 90. E, se si considerano i disoccupati sulla popolazione in età lavorativa, si ottiene il preoccupante numero di 13,2 milioni di senza lavoro, contro i 6,7 del 2007. Il Pil è cresciuto di un buon 13% rispetto a 5 anni fa, ma gli Usa hanno una dinamica demografica superiore a quella europea. L’attività industriale cresce e più ancora si espandono i servizi. Ma gli indici Ism (manifatturiero e non) mostrano da 3 anni una grande volatilità e si ha l’impressione che quello manifatturiero, più che segnalare vera espansione, ricalchi molto il ciclo delle scorte. Tuttavia le vendite al dettaglio sono di un buon 13% più alte di 5 anni fa, anche grazie al continuo ricorso al debito delle famiglie.
Da inizio anno Wall Street ha guadagnato l’8%, pari a quanto sarebbe legittimo aspettarsi dalla crescita degli utili societari, stimata attorno al 9% quest’anno. E può sembrare strano che l’indice stia accelerando la corsa in concomitanza con il riaccendersi della crisi in Eurozona e in coincidenza con il «Sequester», ossia ai tagli automatici di spesa i quali, guarda caso, ammonterebbero a 85 miliardi: esattamente quanto valgono ogni mese gli acquisti di titoli operati dalla Fed. Quegli 85 miliardi valgono appena lo 0,5% del Pil, spiegano gli operatori. Vorrà dire che la Fed sarà costretta a prolungare il suo quantitative easing, aggiungono altri. Per Wall Street è ancora la logica del «tanto peggio, tanto meglio» che ben funziona da quando i mercati sono stati abituati a fare affidamento sulla inesauribile liquidità della banca centrale.
Walter Riolfi