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 2013  marzo 06 Mercoledì calendario

TRADURRE L’«ULISSE» DI JOYCE? PER CELATI È STATA UN’ODISSEA

Nell’ Odissea l’epopea del ritorno in patria di Ulisse dura dieci anni. Il racconto 40 giorni. E termina con l’eroe che, lavatosi dal sangue dei Proci, si ri­congiunge a Penelope, prima che Atena ristabilisca la pace tra lui e il suo popolo. L’odissea di Gianni Celati,im­pegnato per un pezzo di vita in un’epica traduzione dell’ Ulys­ses di Joyce, è iniziata oltre dieci anni fa, quando l’Einaudi volle convincerlo a tentare l’impresa. E termina oggi, 6 marzo 2013, suo personale Bloomsday ,gior­no di uscita dell’ Ulisse di James Joyce «nella traduzione di Gianni Celati»,dopo che l’eroe­narratore, lavatosi di dosso sca­glie e frantumi di parole, di pen­sieri e di suoni, ricongiuntosi col mondo, ha ristabilito la pace tra sé e la Letteratu­ra. «Cosa farò ora? Nulla. Ho smesso di correre. Aspetto la morte». Tradurre l’ Ulisse per Gianni Celati è stata una questione di morte e di vita. «Iniziai sei-sette anni fa, dopo che quelli dell’Einaudi mi aveva­no perse­guitato per anni tentan­do di convincermi ». E dopo mil­le no, mille forse, mille «non ce la farò mai», alla fine, disse sì. «Con il sentimento di chi si butta in un mare tempestoso senza certez­za di poter stare a galla», scrive nella prefazione alla sua versione dell’ Ulisse , quarto assalto al capolavo­ro­di Joyce dopo la storica tra­duzione di Giulio De Angelis (Mondadori, 1960), la versio­ne di Bona Flecchia ( Shakespe­are and Company, 1995) e quel­la a quattro mani di Enrico Terri­noni e Carlo Bigazzi (Newton Compton, 2012).
«Alla fine dissi sì. Rifiutare il progetto dell’Einaudi era impos­sibile. È la casa editrice dove ho pubblicato le prime cose, dove conobbi Calvino... Era il 2005, credo. Avevo vinto una borsa di studio in Germania,lì potevo sta­re un po’ in pace, e iniziai».
Iniziò dalla fine, dal soliloquio di Molly, un flusso di coscienza di otto interminabili frasi senza punteggiatura che descrivono i pensieri della moglie-Penelope a letto, accanto al marito Leo­pold Bloom: Sì perché non l’ave­va mai fatto di chiedere la colazio­ne a letto... . È l’ultimo episodio dell’ Ulisse , il diciottesimo. «Ri­pensandoci ora, è l’unica parte del libro che potrei rifare. Ma so­lo se il monologo fosse recitato da una donna reale: sapendo chi è quella donna, guardandola, potrei ritradurre i suoi pensieri, perché Molly è una persona vi­vente ».
Libro vivente, fluido, oceani­co, irraggiungibile, l’ Ulisse - fin dalla sua apparizione, nel 1922, a Parigi - spaventa tutti: editori, lettori, traduttori. «Perché quel­la dell’ Ulisse non è una lingua. È una stralingua, che prende den­tro tutto: echi, citazio­ni, dialetti,
espres­sioni gergali...l’ Ulisse è statisticamen­te il libro con il lessico più espan­so di tutti i testi stampati che co­nosciamo, Bibbia compresa: nessun libro ha una tale quanti­tà di parole diverse».
E così Gianni Celati, che su Joyce si laureò, a 25 anni, a Bolo­gna, sotto la guida di un mae­stro come Carlo Izzo, a 65 anni si ritrovò solo, asse­diato da un esercito di dizionari, lessici ed edizioni annotate, davanti al mo­stro: «Sì, un mostro. Che mi spa­ventava, mi dava fastidio... Sulle prime non avevo voglia. Ero inca­pace di andare avanti. Poi mi die­di delle regole: sveglia alle cin­que di mattina, lavoro fino alle cinque di sera, sonno, sveglia, sonno.... Non bastava. Ci ripro­vai quando mi trasferii a Bri­ghton. Tornai a leggere e rilegge­re Joyce, a combattere con voca­bolari di inglese, gaelico, france­se... ».
Poi,la scrittura.«Trovare il mo­do giusto di ri- scrivere fu ancora più difficile. È come provare oggi a parlare come parlava Dante, che usava le lingue di tutte le re­gioni d’Italia. Non sapevo cosa fare. Era impressionante. Avevo già tradotto Céline, e quando vi­vevo a Parigi imparai l’ argot , la lingua della mala e delle putta­ne, andavo nei bistrot a chiedere alla gente il significato dei vari termini. Con Joyce è stato peg­gio. Ho dovuto rifarmi un voca­bolario. Ma manca sempre qual­cosa. Poi, come un dono arrivato chissà da dove, ho capito che il modo per uscirne era considera­re tutto un gioco. È così: non c’è nulla di serio in Joyce. Neanche mezza frase. Tutto un gioco, uno scherzo, come in Rabelais, co­me la lingua maccheronica, co­me Teofilo Folengo. Capito que­sto, l’impresa rimaneva terribi­le, ma fattibile. Avevo preso il rit­mo ».
Libro scritto da un uomo che doveva diventare tenore- «Joyce era portatissimo per la musica, quando abitava a Trieste fu chia­mato a Zurigo per fare il tenore » ­l’ Ulisse è tutto ritmo,un testo zep­po di citazioni «canterine» e ri­chiami musicali: dall’opera liri­ca alla filastrocca, dal canto gre­goriano alla cantata mozartiana alle parole onomatopeiche, i ver­si, i suoni... Pflaap! Pflaap! Cu­cù... chiuppete e chiappete...
«La chiave di volta è il ritmo. Joyce non scriveva come noi. Aveva un suo modo di parla­re, ormai scomparso. Ma se io lo prendevo, ero salvo. O quasi. L’episodio più ostico? L’undicesimo,quello delle Si­rene , quando Bloom pranza e pensa, guardando le cameriere,
Bronzo con Oro udito il suon di zoccoli, d’acciai rombanti, Im­pertnènt tnènt tnènt...
Pagine im­possibili. Il più bello? Quando Gerty MacDowell provoca Leo­pold che la spia, mostrando la lin­gerie nuova, e lui si masturba...». «E così, fra momenti di tranquilli­tà e altri di disperazione in cui chiamavo l’Einaudi dicendo che abbandonavo tutto, a un cer­to punto, dopo revisioni, cam­biamenti e riletture, ero pronto per consegnare il lavoro».
E mai come quando si sbarca a Itaca, la propria casa è così lonta­na. «A Londra, mentre scendevo dal treno per andare a prendere il volo per Torino, due anni fa, mi rubano il computer. Con dentro tutto».
Mesi di disperazione. Mesi di depressione. Mesi di altro lavo­ro. «Avevo degli appunti, ero di­strutto, mi diede una mano una correttrice di bozze dell’Einau­di... ».Sei mesi fa,la consegna de­finitiva. «Che cosa provo ades­so? Niente. Non me ne importa niente,gliel’ho detto.Tanto mo­rirò tra poco tempo».