Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 06 Mercoledì calendario

EURO, E SE FACESSIMO IL REFERENDUM?

Beppe Grillo ha sostenuto che l’Italia è sull’orlo della bancarotta. Questa verrebbe raggiunta fra sei mesi o un anno, quando la spesa per interessi, arrivando a 100 miliardi di euro, ci costringerebbe a non pagare più le pensioni. A quel punto, in assenza di una rinegoziazione del debito, l’Italia “vorrebbe uscire dall’euro”. La musica è la solita: “I costi della casta corrotta hanno fatto lievitare il debito pubblico cattivo, costringendoci a lasciare l’euro” (che quindi, par di capire, sarebbe cosa buona). Vediamo il senso e il non senso della Grillonomics.

L’IDEA CHE LA CRISI sia stata causata dal debito pubblico è fasulla e in linea con l’approccio del precedente governo, che usava questa idea per giustificare l’austerità. La Commissione europea però ci dice che il debito pubblico in Italia è sempre stato sostenibile, sia a breve che a lungo termine, e quindi che le pensioni non sono a rischio (Rapporto sulla sostenibilità fiscale, settembre 2012). Prima della crisi in tutti i Paesi, incluso il nostro, il debito pubblico stava diminuendo in rapporto al Pil, ma aumentava quello dei privati. L’austerità montiano-grillina equivale allo zelo del chirurgo che amputa la gamba sana, trascurando la cancrena dei mercati finanziari privati (in Italia ben rappresentata da Mps). Nella follia montiana c’era metodo: raggranellare 40 miliardi di euro da dare a spagnoli e greci perché li restituissero ai loro creditori tedeschi. Il “salvataggio” di Monti ha salvato la Germania, affossando via Imu gli italiani. Se Grillo parte dalla stessa diagnosi, c’è da temere che arrivi alla stessa terapia.

Inoltre non c’è nulla che indichi in 100 miliardi di interessi l’orlo del baratro finanziario. Secondo gli ultimi scenari del Fmi, lo Stato italiano arriverà in effetti a pagare questa cifra, ma nel 2017, cioè fra 57 (non sei) mesi. A quella data 100 miliardi corrisponderanno a meno del 6% del Pil, un carico sostenibile, pari a quanto lo Stato pagava nel 2000. Insomma: pare Grillo abbia rapidamente appreso l’arte di terrorizzare gli elettori con cifre “simboliche” ma prive di significato economico.

La Grillonomics offre anche intuizioni corrette. La più importante è che uno sganciamento del-l’Italia dalla moneta unica avrebbe l’effetto collaterale di alleviare l’onere del debito. Il motivo lo ha ricordato Bank of America: “I Paesi periferici fronteggiano tassi elevati perché l’assenza di politica monetaria indipendente rafforza la percezione del rischio di default”. Un governo italiano che tornasse “liquido” nella propria valuta nazionale farebbe molto meno paura ai mercati. Qualcosa di simile accadde nel 1992, quando lo sganciamento dal cambio fisso determinò una rapida discesa degli interessi sul debito. Il nesso svalutazione-inflazione-alti tassi non ha riscontro nelle esperienze europee passate e recenti.

Pare di capire che la politica del Movimento verrà decisa democraticamente, utilizzando la “piattaforma”, uno spazio web dove “ognuno veramente conterà uno”, come ha ribadito Grillo. Possiamo solo sperare, per il bene del paese, che gli “uno” che la pensano come Grillo sulle cause della crisi siano in minoranza nel Movimento. L’Italia ha bisogno soprattutto di buon senso: austerità, dilettantismo e demagogia hanno già fatto troppi danni.

Alberto Bagnai

DEFAULT E CRAC DELLE BANCHE, DISASTRO TOTALE –
Beppe Grillo parla spesso della necessità di tenere un “referendum sull’euro”, per restituire ai cittadini la sovranità perduta. Nobile intento, scalfito dal fatto che un referendum sull’euro non può essere celebrato, poiché coinvolge trattati internazionali. Il punto vero è però cosa ci attenderebbe se assumessimo la decisione di uscire dalla moneta unica.

SGOMBERIAMO il campo da un pericoloso malinteso: il parallelo con l’uscita della lira dallo Sme, nel 1992. All’epoca avevamo una Banca centrale in grado di stampare moneta, e una nostra divisa. Uscire da un accordo di cambio (o sganciarsi da una divisa forte, come fece l’Argentina nel 2001) è tecnicamente assai più facile che non lasciare una moneta unica condivisa con altri Paesi. L’economista Barry Eichengreen si è esercitato a simulare la fuoriuscita del nostro Paese dall’euro. Dal momento della decisione del Parlamento di lasciare la divisa unica, scriveva Eichengreen, famiglie e imprese sposterebbero i propri depositi in altre banche dell’Eurozona, scatenando una corsa agli sportelli del sistema bancario nazionale, che finirebbe in dissesto. In tale circostanza sarebbe impossibile ottenere l’assistenza della Banca centrale europea. Servirebbe, quindi, l’adozione di feroci controlli sui movimenti di capitale, da parte del Paese in uscita dall’euro, ma anche dal “blocco tedesco”, i cui membri dovrebbero introdurre in fretta una nuova divisa per evitare che gli spalloni italiani giungano in Baviera con bauli di euro. In altri termini, andrebbe distinto il contante tedesco da quello italiano. Molte aziende sarebbero poi dissestate dal nuovo sistema valutario: le multinazionali tendono ad avere una sussidiaria di tesoreria che gestisce l’indebitamento in modo centralizzato. Spesso la giurisdizione delle passività è quella olandese, e l’Olanda finirebbe nel gruppo dell’euro-marco. Ciò vorrebbe dire un enorme aumento dell’onere del debito per le imprese coinvolte. Servirebbero quindi degli imponenti salvataggi: il sistema finirebbe travolto dalla illiquidità e da dispute legali sulla giurisdizione di attività e passività, trascinando con sé il sistema bancario nazionale.

Ipotizziamo invece che obiettivo grillino sia quello di ridurre l’onere del servizio del debito, oggi pari a circa il 6 per cento del Pil. Ciò in astratto sembrerebbe non necessitare di fuoriuscite dall’euro, ma “solo” di ristrutturare il debito sovrano (default), magari confidando nell’avanzo primario che in teoria dovrebbe “isolarci” dai mercati dei capitali. In questo caso avremmo il fallimento immediato del nostro sistema bancario, inzeppato di titoli di Stato, che andrebbe nazionalizzato con costi stratosferici. Ci servirebbe una Banca centrale autonoma e indipendente, per stampare la moneta necessaria per sostenere questi enormi costi. E si torna al via, l’uscita dall’euro. Come si vede, un rompicapo.

ALTRA TESI CARA a Grillo è che noi saremmo trattenuti nell’euro per il tempo necessario a “rimborsare le banche tedesche e francesi dei titoli di Stato italiani da esse possedute”. Ma neppure questo è vero: negli ultimi mesi, dopo la presa di posizione di Mario Draghi, capitali europei ed extraeuropei sono tornati ad affluire sui nostri Btp, riducendo rendimenti e spread: altro che rimborso. Se si propone una narrativa serve anche tenerla aggiornata alla luce della realtà, oppure si compiono solo inganni a danno della popolazione credula e spaventata.

Mario Seminerio