Notizie tratte da: Jorn Jacob Rohwer, Vera Lehndorff # Veruschka. La mia vita # Barbès editore 2012 # pp. 329., 6 marzo 2013
006Notizie tratte da: Jorn Jacob Rohwer, Vera Lehndorff, Veruschka. La mia vita, Barbès editore 2012, pp
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Notizie tratte da: Jorn Jacob Rohwer, Vera Lehndorff, Veruschka. La mia vita, Barbès editore 2012, pp. 329.
BELLEZZA. “Veruschka è la donna più bella del mondo. Non esiste nessuna come lei. La bellezza è straniante per chi la possiede, lo straniamento è una sfida per la fantasia. Se Veruschka è bellissima, lo è in sé… Ogni incontro con lei è infinito, indimenticabile e unico nella vita… Sceglie le parole con cura. Parla della sua pelle come se avesse una vita propria. La sua pelle può essere stanca quando lei stessa non lo è… la sua pelle, come carta tornasole cambia in base ai sentimenti. Dei suoi capelli parla come se fossero separati da lei. Il seno lo scopre solo davanti ad alcuni e questa scelta è conseguenza d’intimità e fiducia… Il suo modo di essere bella è una sfida, bisogna essere disposti ad accoglierla ed esserne consapevoli perché altrimenti lo splendore svanisce per sempre”. (Richard Avedon).
VERA. Nasce il 14 maggio 1939 a Koenigsberg, nella Prussia orientale, da Heinrich, conte von Lehndorff-Steinort e Gottliebe, contessa von Kalnein. I primi cinque anni li trascorre nel castello di Steinort, nella lontana Masuria, ereditato dal padre: “Nel ricordo vedo quasi più nitidamente animali e piante, l’acqua e la luce che non mio padre e mia madre”. Tre sorelle: Marie –Eleonoire, Gabriele e Catharina, con le quali sente ‘una grande appartenenza’. Crebbero con le governanti: “Mia madre non aveva ricevuto né tenerezza né affetto nella sua infanzia e pertanto non poteva trasmetterli ai suoi bambini. Inoltre occuparsi di noi non l’ha mai interessata veramente. Non giocava mai con noi e poi non lo ha fatto nemmeno con i suoi nipoti, lo trovava noioso… Io riesco a immaginarmi molto bene cosa significhi essere un bambino e non necessariamente perché riesco a ricordarmi della mia infanzia, ma grazie alla fantasia”.
GIOCHI. Nel grande parco del castello di Steinort, “lo spazio per i bambini con la sabbia, il giardino con le viole dai colori vivi e con i fiori che sembravano dei volti, gli alberi che tentavo di abbracciare, Compte (un setter, che poi morì perché aveva inghiottito una lametta) e Wau-Wau, i nostri cani. Credo di aver giocato spesso nei prati davanti al castello, ma mai con delle bambole e allora mi chiedo con cosa giocassi, forse con l’erba, il muschio e gli insetti? Non lo so, lo posso solo intuire perché purtroppo affiorano in me soltanto alcune immagini frammentarie e non sono sicura se le ho sognate o se mi siano arrivate attraverso i racconti o più precisamente attraverso le fotografie” .
STEINORT. Il castello della Masuria ereditato dal padre, proprietà familiare di oltre sei secoli. Ne furono espropriati dopo la guerra e andò in malora. Nella primavera del 1993 la madre di Vera, prima di morire, creò la ‘Fondazione degli amici di Steinort’, per fare chiarezza sui possibili diritti di restituzione e per frenare la rovina del castello. Oggi se ne occupano le 4 sorelle e i figli. Nel giugno 2009 – Vera già settantenne – è stata eretta una statua in onore del padre per il centenario: “E’ stato un giorno speciale per le mie sorelle, i loro figli e per me, per la prima volta eravamo insieme a Steinort. Nel luogo che mio padre amava più di ogni cosa… Ci sono voluti 65 anni perché lui avesse una lapide a Steinort…”. Nel 2010 si sono chiuse le trattative per la restituzione delle opere d’arte . Circa 430 oggetti tra mobili, quadri, argenteria, libri, opere in porcellana, ritornano in possesso della famiglia Lehndorff che era stata espropriata dallo Stato nazista. La famiglia non vuole vendere le opere recuperate ma l’obiettivo è restaurare il castello e riportarvi le opere. Oggi Steinort si trova nella fondazione tedesca polacca per la protezione dei monumenti e della cultura. “ A Steinort ogni pietra è storia… La struttura principale si trova in una condizione di degrado preoccupante… Adesso deve essere finanziato un costoso restauro”.
ARISTOCRAZIA. “La nobiltà in sé non ha alcun valore per me. Preferisco le parentele per scelta e sento un legame speciale con gli artisti”. Vera era ‘imparentata con mezzo mondo, vecchi legami con le famiglie nobiliari d’Europa’, ma “i nobili mi facevano sentire addirittura a disagio. I balli di società per me erano esperienze terribili… Gli uomini erano convenzionali e per niente erotici, nessuno di loro aveva qualcosa di originale, di selvaggio, nessuno di loro era fuori dalle regole. Si trattava sempre solo di buone maniere, era noioso, più precisamente un tormento per me. Non ho trovato amicizie in questi ambienti ma in tutt’altri”.
GOTTLIEBE. Nata nel 1913, infanzia difficile, perse un fratello e subì la separazione dei genitori. Adolescenza ribelle in un collegio tedesco, fu poi strappata dal suo primo amore perché ebreo e per due anni fu costretta a vivere in Colombia con la madre e il patrigno, Joachim von Mellenthin. Quando finalmente ottenne di rientrare, la Germania era già sotto il regime nazista. Andò a vivere a Berlino in una casa in affitto con altre persone e faceva la segretaria.
Incontrò Heinrich per la prima volta nel 1935 a una corsa di cavalli a Koenigsberg. Lui aveva appena ereditato il castello, la corteggiò assiduamente chiedendole subito di sposarla. Lei: “Io non ero veramente innamorata o interessata. Mi piaceva la sua intensità… Avevo successo con gli uomini, cosa che non mi impressionava particolarmente. Trovavo bello soltanto sentirne il potere”.
Alla fine rimase incinta e nel 1937 la soluzione era il matrimonio, che fu organizzato velocemente. Mio padre e mia madre in quel periodo dovevano essere la coppia più bella di Berlino. Lei, però, si è ritrovata sposata, anche se fu colpita sicuramente dalla sua prima visita a Steinort. Non si sposò infelicemente, semmai inconsapevolmente: “Credo – scrive Gottliebe - di avere subito la mia vita e che assolutamente niente sia penetrato nel mio intimo… Fui vissuta da altri”.
Dopo la guerra cadde in depressione, malattia che la tormentò per tutta la vita. “Quando è stato necessario mia madre è sempre entrata in azione senza indugio… Non abbiamo mai sofferto la fame o vissuto come sfollati dai bombardamenti”. Abitò in vari posti, fino all’acquisto della ‘casa parrocchiale’ (Peterskirchen) dove passò la maggior parte della sua vita, vivendo fra artisti ed intellettuali. Nel 1984 ebbe una nuova e grave crisi depressiva. Il 16 aprile 1993 Gottliebe muore all’improvviso all’ospedale di Monaco, in seguito a una perforazione intestinale. Vera, l’ultima volta, la vede intubata. Il giorno dopo la chiamano in ospedale, la madre era già morta.
HEINRICH (detto Heini). “Lui era una persona semplice, autentica e non una persona ferita nell’anima come mia madre. Forse anche lui aveva un lato melanconico come lasciano presumere i suoi occhi in alcune foto… Niente di significativo era venuto fuori da loro, eccetto durante il periodo della comune opposizione al regime. Questo però li aveva uniti profondamente e il loro legame, per me, rimane comunque un grande amore”.
All’inizio aderente al partito nazista e nell’esercito come tenente della riserva, dal 1940 divenne oppositore del regime. Nella Resistenza dal 1941, Heinrich von Lehndorff era l’ufficiale di collegamento dell’Operazione Valchiria (organizzò l’attentato, poi fallito, ad Hitler) e fu impiccato dai nazisti il 4 settembre 1944. Sulla vita delle ragazze e della madre ha sempre pesato il fatto che Heinrich non fosse stato riconosciuto come un oppositore del regime, ma come un traditore della patria. “Se mia madre gli avesse chiesto di non entrare nella Resistenza lui forse avrebbe rinunciato, ma anche lei era convinta che fosse la scelta giusta”.
RIBBENTROP. Il quartiere generale di Hitler, Wolfsschanze, e l’Alto Comando dell’esercito tedesco, Mauerwald, si trovavano vicino alla proprietà dei Lehndorff e, nel 1942, il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentropp fece sequestrare l’ala sinistra del castello Steinort.
Intorno ai 4 anni, Vera e la sorella Nona ricevono due pony (Anton e Lore) in regalo da Ribbentropp. Lui andava spesso al castello, era “tanto amante dei bambini biondi” . Vera: nelle occasioni della propaganda, “ci agghindavamo mettendoci dei vestitini bianchi e dei calzettoni bianchi che ci arrivavano fino alle ginocchia. I miei capelli venivano raccolti e infine ci portavano giù nel salone grande… Per noi bambine Ribbentrop era il caro e gentile zio che ci faceva dei doni”. Ma “era solamente una recita, i miei genitori simulavano fedeltà a Hitler…”.
L’ADDIO. Luglio 1944: per il 20 era previsto un nuovo attentato ad Hitler, stavolta alla Wolfsschanze, vicino al Castello di Steinort. Vera e le sorelle, con la governante Graeber furono mandate dal nonno a Graditz, vicino a Torgau. Il padre le accompagnò al treno: “Mio padre stava fuori, davanti al finestrino, tenendo il viso molto vicino al vetro. Il suo sguardo così serio mi era inconsueto. Ero come ipnotizzata dai suoi occhi, come se mi stesse assorbendo dentro di sé. Il suo volto, in quell’attimo, rimane per me indimenticabile… Poi il treno è partito e lui gli è corso ancora un po’ dietro. All’improvviso è sparito, cancellato per sempre”. Fu l’ultima volta che Vera vide suo padre.
Dopo il fallimento del secondo attentato a Hitler, Heinrich fuggì da una finestra del castello. Tre giorni dopo, la madre Gottliebe fu cacciata da Steinort, raggiunse le figlie a Graditz, dove fu poco dopo arrestata e imprigionata. La sua quarta figlia, Catharina, nacque in prigione.
“Era notte, il 25 agosto 1944, nella casa di mio nonno si è aperta la porta… Ho potuto intravedere la sagoma nera di un uomo sulla porta. Stava lì in piedi, come pietrificato, senza volto. Era inquietante. Nostra madre ci ha sollevato dal letto, c’è stato uno scambio di parole, poi siamo state messe in braccio a quell’uomo e al suo accompagnatore”.
SIPPENHAFT. Riportata in vigore da Heinrich Himmler, la Sippenhaft prevedeva che donne, bambini più grandi, nonni, fratelli e sorelle di oppositori al regime finissero in prigione o nei campi di concentramento. I bambini più piccoli venivano deportati dagli uomini della Gestapo a Bad Sachsa.
BAD SACHSA. Nello Harz, era il centro di custodia nazionalsocialista dove vennero portati tutti i bambini degli implicati nell’attentato del 20 luglio. Erano in tutto 46, fra cui Vera e due sue sorelle, suddivisi in sette casette.
“L’atmosfera di Bad Sachsa la ricordo fredda e ricordo ancora che ogni giorno qualcuno ci diceva come ci saremmo chiamate da quel momento in poi… Le foto di famiglia venivano portate via ai bambini più grandi e le targhette con i nomi venivano tolte dai vestiti… I più piccoli tra noi avrebbero dovuto essere adottati da famiglie delle SS, mentre quelli più grandi avrebbero dovuto essere condotti sulla retta via presso gli istituti di educazione nazionalpolitici, le cosiddette Napolas”.
ODIO. A Bad Sachsa Nona fu separata da Vera e Gabriele. La piccola soffriva molto e veniva maltrattata: “Le sorveglianti entravano la mattina e iniziavano a picchiare Gabriele, perché era piccola e bagnava ancora il letto. Era straziante per me… E’ stata la prima volta in cui ho provato odio, odio verso queste donne brutali. Perciò la mattina tentavo velocemente di coprire il letto bagnato con una asciugamano, ma loro lo scoprivano. Gabriele contraeva il viso, i suoi capelli fini erano tutti ritti e piangeva ininterrottamente. Dalla mattina alla sera ripeteva continuamente un’unica frase: ‘Mamma tornare, fame, paura’… Io volevo solo alleviare il dolore di mia sorella, tenerla per mano e stare sempre con lei”.
Gabriele si ammalò di tifo, come l’altra sorella Nona, e le unirono, allontanandola da Vera: “Successivamente Nona mi ha raccontato che anche durante i pasti Gabriele veniva torturata. Soffriva di una forma di disfagia e cercavano con violenza di darle da mangiare con un cucchiaio troppo grande che le spingevano in bocca a forza… Io venivo lasciata in pace perché mi comportavo bene e non mi facevo notare… Le mie sensazioni erano come congelate e per questo non posso raccontare nemmeno le paure”.
Tre giorni dopo la deportazione delle tre bambine a Bad Sachsa, la loro mamma con la neonata Catharina veniva deportata in un campo di lavoro e il padre, in prigione a Berlino, maltrattato, processato e impiccato il 4 settembre 1944.
Dicembre 1944. Le tre bambine lasciano Bad Sachsa e vengono portate dalla nonna Mellenthin, che era una Kalnein divorziata. All’inizio del 1945 l’istituto finisce sotto i bombardamenti degli alleati e, a metà aprile dello stesso anno, gli americani arrivano a Bad Sachsa. Il castello di Steinort era stato sequestrato.
Anche la mamma era stata liberata, ma Vera non ricorda il loro incontro dopo la scarcerazione e del padre dice che nessuno le disse che era morto: “Era svanito nell’aria, scomparso dalla mia coscienza, forse già a Bad Sachsa… Anche dell’orrore io, a cinque anni, non ero ancora consapevole. Bene e male erano concetti che non mi dicevano niente”.
TENEREZZA. Vera dice che dopo la morte di suo padre se ne è andata tutta la tenerezza dalla sua vita: “Mi chiamava, non so per quale motivo, Toppi. Ho amato molto mio padre. Con lui ho vissuto la sensazione della tenerezza”. Ma “la generazione dei figli della guerra non ha conosciuto la tenerezza. Mia madre ha fatto quello che poteva per noi, ma non poteva darci amore. Per anni è stata sotto choc. Paura, desolazione e solitudine erano i sentimenti che ci dominavano. Ovviamente ero ancora capace di provare della tenerezza, per mia madre, per le mie sorelle, per il mio uccellino Hansi e per Seppi, il mio cane”.
APOCALISSE. Riunitisi figlie e mamma dalla nonna Mellenthin, nel gennaio 1945, dovettero fuggire, questa volta dalle truppe russe. Partirono in treno in sette, mamma, sorelle e bambinaie. Durante il viaggio furono bombardati: “Il treno si è fermato, tutti urlavano e correvano… Ci siamo perse di vista… poi ci siamo ritrovate nel bosco… alla fine ci siamo buttate in un fosso… Una donna era fuori di sé, urlava sdraiata sotto una pelliccia di leopardo come un animale ferito. Immagini come queste a volte mi tornano in mente ancora oggi e si possono ritrovare nel mio lavoro artistico. Anche nell’Apocalisse c’è della bellezza, per quanto paradossale questo possa sembrare”.
PRIGIONI. Dopo la fuga, Gottliebe e le bambine si stabiliscono a Brema, al Fichtenhof, di proprietà dei parenti von Alvensleben. Vera si ammala di morbillo, la madre la manda a curarsi in Svizzera da una famiglia e la notte in istituto: “Poco dopo il mio arrivo sono crollata in un pianto disperato che è durato per ore… Deve essere stato così doloroso che la mia madre adottiva svizzera avvisò mia madre e mi tenne con sé anche la notte… Ero circondata da persone amorevoli… Per il resto della mia vita è rimasta però la paura degli istituti, degli ospedali, delle autorità… Catharina e Gabriele furono mandate in un istituto dove addirittura venivano maltrattate. Quando facevano una cosa sbagliata le educatrici le trascinavano per le scale afferrandole per i capelli… Meglio stare in un angolo in un luogo spoglio ma insieme alla mamma, che essere soli nella lontananza… Essere parte di un grande gruppo di bambini è stato insopportabile per me, addirittura ne avevo paura.. I bambini urlavano, erano cattivi e si picchiavano tra loro”.
NOTTE. “Il desiderio di non esistere più l’indomani lo conoscevo già da bambina. Amavo la notte. Di notte nel letto avevo finalmente pace e silenzio. Spesso, le prime ore della notte rimanevo sveglia nel letto per godermele come una sospensione. La mattina presto iniziava di nuovo la paura…”
FICHTENHOF. “Amavo tutto ciò che faceva parte del Fichtenhof, tutti i sassi, le erbe, gli alberi e i fiori e io giocavo con queste cose e non con i giocattoli né con gli altri bambini… Per me è stato il periodo più bello dell’infanzia”. La vasta tenuta, dopo la seconda guerra mondiale, era diventata per molte famiglie vicine agli Alvensleben, un punto di passaggio per poi ripartire. Anna Alexandra (Lexi) riuscì a salvare, oltre al padre e altri detenuti, una schiera di profughi accogliendoli al Fichtenhof, che poi finì sotto la protezione degli alleati (“Erano gentili con noi, come prima lo era stato Ribbentropp”). Vera vi tornò dopo l’esperienza traumatica della Svizzera e vi visse dai 5 ai 9 anni.
Nell’estate del 1948, dopo che Lexi von Alvensleben si era innamorata di un soldato americano e aveva lasciato il paese, il Fichtenhof fu venduto.
GOVERNANTI. “Le abbiamo sempre avute anche quando mia madre non poteva avere niente altro”. La signorina Graeber ha sempre seguito le bambine, dal castello di Steinort, “non era semplicemente la nostra educatrice, lei si occupava di tutto… Quando è stato necessario mia madre è sempre entrata in azione senza indugio… Non abbiamo mai sofferto la fame o vissuto come sfollati dai bombardamenti e le bambinaie si sono sempre prese cura di noi. Ovviamente mia madre è stata appoggiata dalle persone del suo ambiente, a eccezione degli aristocratici dell’Ovest come i Bismarck che, pur non avendo perso i loro beni non volevano avere niente a che fare con noi… Mia madre è stata evitata perché suo marito era considerato un traditore”.
SCUOLA. Fu il tormento di Vera. Cominciò in un paese vicino al Fichtenhof: “Ero molto contenta di andare a scuola ma questa sensazione passò velocemente. Ero mancina ma la maestra mi vietò di scrivere con la mano sinistra. Non ero solamente delusa, il conflitto destra-sinistra è diventato la causa di tutti i miei insormontabili problemi scolastici”. Vera si sentiva “come se fossi nata con una paralisi alla testa. Da lì in poi non ho capito più nulla… A causa del mio panico mi rifiutai di continuare ad andare a scuola… Oggi dipingo sia con la sinistra che con la destra, mangio con la sinistra e scrivo unicamente con la mano destra”. Fingeva malattie, le fu diagnosticata una meningite e fu portata all’ospedale: “Anche quando mi hanno bucato il midollo spinale l’ho sopportato pazientemente. I dolori erano più tollerabili dei giorni di scuola”. Tornata a scuola fu messa in un nuovo istituto, stessa tortura. Scrive una lettera disperata alla madre che va a prenderla per portarla a Brema. Anche qui terrore per la nuova scuola: “Mi svegliavo alle quattro del mattino e iniziavo a contare le ore”. Un giorno, la maestra: “In questa classe si trova la figlia di un assassino… Eccoti, sei tu. Choc tremendo… Quando ho raccontato a mia madre l’accaduto ha detto: ‘E’ del tutto diverso. Tuo padre è un eroe, ma questa è una storia lunga che potrò raccontarti solo quando sarai più grande’”. Non le fece più mettere piede in quella scuola. Vera cambia scuola per la terza volta e viene iscritta a una scuola steineriana. Una scuola libera, che le piaceva, ma era sempre a disagio.. E, ancora, quarta scuola a Paderborn, un collegio steineriano. Nei fine settimana andava a Lohe dove si era trasferita la mamma. Infine, il collegio cattolico, dopo la conversione.
BREMA. Dopo il Fictenhof, Goettliebe si trasferì a Brema con le bambine, una piccola casa dove Vera divideva la stanza con le sorelline e la mamma dormiva nel salotto. Per la prima volta Gottliebe poteva contare solo su se stessa e cominciano le depressioni più serie: “Non si faceva quasi più vedere, ogni tanto andavamo nella sua stanza e la trovavamo sdraiata completamente assente, con gli occhi disperatamente sgranati. Stava semplicemente distesa girandosi i capelli che in alcuni punti erano diventati molto fragili. Di solito la nostra nuova bambinaia ci portava via subito”.
URSULA. Tra le poche che andavano a Brema a trovare Gottliebe c’era Ursula contessa Plettenberg, ebrea conosciuta a Berlino. Rifugiatasi ad Amsterdam, qui conobbe e sposò Franziskus conte Plettenberg. Ebbero 4 figli e si trasferirono a Lohe (Vestfalia) dove convinsero anche Gottliebe a raggiungerli nell’estate ’51. Si sistemarono in una stalla ristrutturata in mezzo alla campagna: “La depressione l’ho portata con me, ma sono stata molto alleggerita da Ursel che, nel frattempo, si prendeva cura delle mie bambine” (Gottliebe). Vera: “A Ursel io piacevo e anche lei mi piaceva perché mi dava lezioni di danza classica… Allora il mio desiderio più grande era quello di diventare una ballerina, ma ero troppo alta per la danza classica”.
A Lohe, per la prima volta Gottliebe lesse alle bambine una lettera del padre, ma non è riuscita a terminare: “E’ stato un pomeriggio triste pieno di lacrime e di abbandono, ma dopo è di nuovo calato il silenzio”.
LA CONVERSIONE. Nel 1953 Gottliebe si converte al cattolicesimo seguendo le ultime volontà del marito e sperando di uscire dalla depressione. Anche le bambine la seguirono e Vera fu mandata a Lippstadt in una scuola conventuale diretta dalle suore: “Non mi sono opposta perché il cattolicesimo mi sembrava interessante, incenso, musica, canto, rituali e addirittura miracoli… Il trasferimento alla scuola delle suore per me ha significato che da quel momento potevo vivere a casa anche se ogni giorno dovevo spostarmi con la bicicletta e il treno”. Nona fu l’unica a rifiutare la conversione.
MOSTRO. Vera da adolescente: un metro e ottantatré e 45 di piede: “Mi ritenevo un mostro da quando mio padre mi aveva vista brutta appena nata. Braccia, gambe, mani e piedi, tutto era sproporzionato, un unico disastro. Inoltre avevo una spina al posto del naso e una bocca esageratamente grande. I vestiti non li sceglievo da sola, portavo quello che mi dava mia madre. Una gonna a pieghe qualsiasi insieme a una blusa e un pullover… Non avevo ancora un’idea del mio aspetto ma desideravo solamente cambiarlo…”. Eppure, “Il mio aspetto esteriore era la cosa più importante per me”. Enorme il problema delle scarpe, “finché non ho scoperto delle scarpe da ballo da uomo che mi stavano. E’ stata una scoperta incoraggiante”.
ALLUCI. Un ortopedico disse a Vera che avrebbe potuto accorciare gli alluci di un centimetro e lei, nonostante il parere contrario di tutti, si sottopose a un rischioso intervento chirurgico che le provocò dolori atroci e sei mesi di immobilità, ma lei non se ne pentì mai: “Se mi fotografavano scalza stavo attenta a mettere i piedi nella posizione giusta. Spesso ho ricevuto delle lettere e anche delle telefonate dai feticisti dei piedi che, vedendo i miei, erano andati totalmente fuori di testa”.
AMBURGO. Nel 1953 ulteriore trasferimento a Volksdorf, periferia di Amburgo, nella villa di proprietà della nonna Mellenthin, vi si trasferirono anche i Plettenberg. Vera lascia l’ultima scuola superiore tecnica e decide di non uscire più di casa. Riceve qui lezioni private da un insegnante “molto bello”, con il quale ebbe il primo contatto fisico, fatto solo di baci peraltro. Quando si seppe, la famiglia non ha più permesso che si vedessero.
Gottliebe ha una relazione con Franziskus, Ursel le fa la guerra mettendole contro tutti i figli. Alla fine la villa viene venduta, Vera e la famiglia nel 1954 si trasferiscono nel centro di Amburgo, “mia madre era nuovamente nelle condizioni che avevo visto a Brema, molto turbata e assente… I Plettenberg e i loro figli non li abbiamo più visti”.
Ad Amburgo Vera supera l’esame per entrare alla scuola di moda, l’istituto professionale per le arti applicate. E’ la svolta: “Ho imparato ad osservare” e si innamora della pittura. Per questo sceglie la specializzazione in design di tessuti, nonostante avesse già fatto le prime foto di moda per ‘Die Hamburger Kinderstube’, una delle più antiche case di moda per bambini in Germania. Ma, “le mie idee per i motivi dei tessuti si esaurirono velocemente e nuovamente tutto tornò ad essere una costrizione”.
EROS. “L’erotismo l’ho conosciuto solo negli anni Sessanta in Italia a più di venti anni”. Ma, durante il suo primo viaggio all’estero, a Londra da amici della madre, Vera sente che l’incubo dell’infanzia, il vedersi brutta, stava svanendo: “Scoprivo il nuovo interesse di mettermi alla prova nella capacità di attirare gli sguardi su di me. Cercavo una persona che mi piacesse, non importava se uomo o donna… Il mio gioco consisteva nel tentativo, attraverso una specie di linguaggio del corpo, guardando e muovendomi, di attirare l’attenzione degli altri su di me. Gli altri potevano lanciarmi uno sguardo, io però potevo osservarlo solamente quando non se ne accorgevano… Il mio esperimento londinese è stato un’esperienza fondamentale che, nella mia vita futura, ha giocato sempre un ruolo importante, perché adesso sapevo che potevo piacere”.
MATRIMONIO. “Quando Nona si è sposata (autunno 1957, a 20 anni , con Jan van Haeften, figlio di Hans, un oppositore al regime, ndr) ero molto avvilita, perché sapevo che lei se ne stava andando verso una vita nuova, una vita familiare e sociale per la quale io non sarei mai stata adatta… Per me il matrimonio rappresentava l’addio all’infanzia”. E nel 1973, in un’intervista: “Non vedo un senso nel matrimonio. Cosa cambierebbe se fossi sposata? Solamente il mio nome”.
PRIME FOTO. I primi provini Vera li fece con la fotografa Charlotte March con cui la mise in contatto l’amica Annali von Alvensleben. “Poi con il fotografo F.C. Grundlach, “ma le fotografie di prova ebbero così poca approvazione presso i suoi clienti che lui distrusse il materiale”. La March in seguito la ingaggiò per delle riprese fotografiche per l’estate e i costumi da bagno: “Tutto mi risultava molto facile, era come se questa nuova strada la conoscessi da tanto. Mi è piaciuto subito sentire la luce su di me. Allora si lavorava meno con i flash e più con i riflettori”. Il 21 gennaio 1959, a 19 anni, Vera ebbe la sua prima immagine di copertina sulla rivista ‘Constanze’, sempre con Charlotte March.
FIRENZE. Nel 1958 una compagna di scuola di Vera, Joy, ottiene una borsa di studio per un viaggio in Italia. Lei la raggiunge: “Ero così infelice nel disegnare bozzetti di motivi per tessuti che volevo solamente andare via dalla scuola e dalla mia vecchia vita”. A Firenze “ero estasiata e felicissima. E poi tante persone mi venivano incontro ammirandomi”. Una sera a un ristorante incontra Giuseppe di cui si innamora e “visto che lui non parlava inglese io ho imparato l’italiano. Ogni settimana Giuseppe veniva da Venezia a Firenze per seguire i suoi studi di pianoforte… aveva un appartamento in piazza della Signoria con vista sul David di Michelangelo, che condivideva con uno studente americano. A Venezia aveva una fidanzata, volevano sposarsi presto e questo mi rendeva triste. Quando non ero con lui andavo per le strade della città raccogliendo impressioni per i miei acquerelli che poi a casa dipingevo”.
“Se in quel momento non avessi tentato il viaggio a Firenze non avrei mai trovato la mia strada. Firenze in quel momento ha cambiato tutto per me, le mie idee sul mondo, sulle persone e sulla vita”.
Vera torna a Firenze nel ’59, si lascia con Giuseppe, ma ha per strada un incontro decisivo con Ugo Mulas che le chiese se poteva fotografarla. Lei accettò ed entrò nel mondo della moda. Mulas le presentò la top model francese Denise Serrault e una giovane atelier, Gabriella Giusti: Gabi, origini russe ma marito italiano, viveva sopra San Miniato, ospitò a casa sua Vera. Lei spesso rimaneva sola e scendeva in città, “ma quei giorni di oscurità e di inerzia non mi fecero bene… Ero triste, dimagrivo velocemente e non volevo vedere nessuno. Non riuscivo più a decidere come andare avanti. Non volevo tornare in Germania ma anche a Firenze mi sentivo persa”. Andò a Vienna da Nona dove la raggiunse la madre e poi, insieme, tornarono ad Amburgo.
DEPRESSIONE. Gottliebe ne soffriva da sempre, anche Vera al ritorno da Vienna, cadde nella depressione, “entrambe ci trovavamo spesso sedute in silenzio. Lavavo ininterrottamente e senza alcun senso dei maglioni in acqua troppo calda, e quando li tiravo fuori dalla lavatrice erano completamente infeltriti e ritirati”. Alla fine Gottliebe fu ricoverata in una clinica e Vera si rivolse a un neurologo che la approcciò in malo modo. Nella primavera del ’60, a Bad Tolz in Baviera dove visse in una pensione, conobbe Margarete Mhe, terapeuta per la voce e la respirazione, ex allieva di Jung: “Mi consigliò di concentrarmi su me stessa e i miei sogni, di dipingerli o altrimenti di passeggiare… Ci vedevamo ogni giorno. Grazie alla sua terapia, con il tempo ho imparato a respirare profondamente e con calma in ogni zona del mio corpo… Dopo sei o otto settimane ho dipinto il mio primo quadro”.
Vera decise di andare a una festa da ballo per il Carnevale a Monaco: “Mi truccai e indossai una tuta da ballerina blu. In testa invece mi misi uno strofinaccio filamentoso e dipinto di blu che avevo acquistato in un negozio di casalinghi. Il mio abbigliamento ebbe un grande successo. E questa trasformazione mi aiutò a catapultarmi oltre la mia desolata situazione psichica”.
MARGARETE MHE. “L’anziana signora era piccola e tonda come una palla e i suoi capelli bianchi e crespi andavano in modo selvaggio in tutte le direzioni. A passettini, i piedi leggermente girati verso l’esterno, camminava faticosamente verso la sua piccola e accogliente casa in legno, che si trovava nel giardino di una fattoria. Quando le si raccontava qualcosa, lei sedeva come un Buddha e diceva: ‘Davvero…? Ah! Sì? Oh, che cosa interessante!’. Contemporaneamente si strusciava le mani sulle ginocchia e i suoi occhi piccoli, blu e svegli si guardavano vivacemente attorno…”
Margarete convinse Vera ad andare in Francia e in Italia per fare la modella. Divenne amica anche di Gottliebe, che decise di trasferirsi a Monaco con Catharine. Gabriele frequentava una scuola di economia e viveva dal nonno Lehendorff a Rottgen.
MONACO. Dal maggio 1960 Vera si trasferisce a Monaco, in una stanza prima e poi con la madre. “Nella mia camera avevo dipinto dei fiori sulle finestre, così potevo rinunciare alle tende, da me tanto odiate”. La vicina, una ballerina di burlesque, le regala un cane, Jetty.
A Monaco c’è anche un nuovo amore, “un piccolo play boy che guidava una macchina veloce e che era continuamente ospite di casa in casa. Del tutto superficiale”. Vita da locali: “Andavo volentieri in questi locali, anche da sola, a ballare per delle ore come in trance e andare fuori di testa, vestita in maniera totalmente pazza”.
Professionalmente, “ancora non avevo una meta… Ho progettato dei vestiti per una trasmissione televisiva, cercando di trovare un’occupazione in questo campo ma non mi hanno presa… Volevo rappresentare me stessa. Da questo punto di vista la moda era la migliore possibilità”. E ad aprile 1961 si trasferisce a Parigi.
HELMUT NEWTON. Vera gli fu presentata a Parigi, lo incontra per incarico di ‘Vogue’ e lui la fotografa davanti a dei teli di seta. Lei seppe dopo, dalla moglie di Helmut, che gli era piaciuta. Qualche tempo dopo lui le procura un lavoro per pubblicizzare una lacca per capelli: “Ero così orgogliosa di guadagnare finalmente dei soldi veri e non solamente il ridicolo onorario di Vogue…”. Ma un incidente – la bomboletta spray nel verso sbagliato e se la spruzza negli occhi - e “tutto era andato, il make-up si era sciolto e il mio occhio era rosso acceso. Helmut era indignato e arrabbiato… Ha chiamato l’agenzia dicendo: ‘Questa è troppo scema, semplicemente scema! Mandatemi un’altra!’… E’ stato uno choc”.
ROGER VADIM. Vera va a Saint-Tropez con Denise Serrault, modella bellissima che aveva conosciuto a Firenze e ritrovato a Parigi. Denise le aveva parlato di Roger Vadim dicendole che avrebbero potuto stare molto bene insieme. Lo conobbe a una festa: “E’ arrivato da solo e si è messo subito accanto a me. La sua voce mi ha sedotto e tutto quello che mi diceva aveva un suono così poetico. Mi piaceva il suo modo sinuoso di muoversi come un gatto. Fino ad allora non avevo mai provato una così forte e immediata attrazione… Decisi di ubriacarmi per perdere le mie inibizioni. Ma non essendo abituata a bere mi ubriacai subito rovesciando un bicchiere, cosa molto imbarazzante davanti a lui”. Dopo il pranzo lui la prese e la portò in una pineta vicina: “…Non poteva essere più erotico. Eravamo sdraiati sul morbido terreno e lui mi sussurrava delle cose affettuose nell’orecchio con la sua meravigliosa voce soave…”. Finita la festa si salutarono: “L’ho sognato spesso e per molto tempo non sono riuscita a togliermelo dalla testa. Dovevano passare anni prima che ci incontrassimo di nuovo. Ancora oggi posso sentire bene le mie emozioni di allora, perché uomini come Roger Vadim si trovano raramente. Eravamo attratti l’uno dall’altra, ma non dovevano essere più di alcuni momenti romantici quelli che abbiamo trascorso insieme”.
NEW YORK. Il 18 settembre 1961 per la prima volta Vera arriva a New York (“città folle e illuminante”), con un unico numero di telefono (procuratole dall’amica Dorian), quello dell’agenzia di Eileen Ford, la più potente agente di modelle newyorkesi. “A New York tutto era diverso rispetto all’Europa e gli americani avevano anche un altro ideale di bellezza”. Oltre alla Ford, Vera entra in contatto con il fotografo Melvin Sokolsky ma, non essendo riuscita ad ottenere il visto, poco dopo riparte per l’Europa. Torna a New York alla fine del ’62. Nuova crisi depressiva, più grave, con due ricoveri in Germania. Alla fine del ’64 ancora a New York, lavora con l’agenzia Stone Models ed è il lancio definitivo: “New York è semplicemente divina, non esiste altra città nella quale preferirei stare… E’ sorprendente come dopo un anno di sofferenze in cui ho solo fervidamente desiderato di morire riesca invece a tirare fuori delle forze creative e più generalmente una così grande gioia da permettermi di riuscire di nuovo a vivere”. A 25 anni lavorava come “un operaio addetto ai lavori pesanti”.
Viaggiando in tutto il mondo, per Veruschka New York resta comunque il suo punto di riferimento per tutti gli anni 60, da lei trascorsi nella redazione di ‘Vogue’.
Ma a New York Vera ci tornerà sempre, nonostante “New York sia l’ultimo posto in cui si vorrebbe essere quando si sta male”, scrive nel 1989.
ANNI SESSANTA. “Gli anni Sessanta erano pranzi al Club Colony con Jackie Kennedy e sua sorella Lee, Truman Capote, che vegetava in una stanza sul retro prendendo nota dei gossip, Andy Warhol con Candy Darling, Twiggie con un body guard e un manager… Tutti puzzavano di biancheria sporca e marijuana… Erano Gogo-Boots, minigonne e psichedelia. Facepainting, Veruschka e Spaceage-Fashion. Erano modelle troppo fatte per poter stare in piedi e modelle che rubavano le pellicce…”. (Grace Mirabella). E Veruschka: “Di tutto questo mi sono accorta poco: anche se a volte andavo vestita in maniera eccentrica alle stesse feste in cui andavano anche Warhol e altri artisti famosi, non sono mai stata una selvaggia party girl”.
CROLLI. “C’erano delle modelle che stavano male, che subivano dei crolli nervosi. Un naturopata una volta mi ha messo in guardia… Donyale Luna, la prima modella di colore, si è suicidata, Wilhelmina è morta giovane per un cancro ai polmoni, l’americana Gia Caragni è morta per la droga e anche Margaux Hemingway, alcolizzata, è morta tragicamente per un’overdose di sonniferi”. Tuttavia, “negli anni Sessanta e Settanta questa isteria per le modelle non esisteva ancora, ma oggi ogni ragazza dovrebbe capire che non deve concentrarsi esclusivamente su questa professione… La mia salvezza è stata occuparmi di arte”.
GERMANIA. I giornali tedeschi parlano di lei, ma Vera è infastidita: “Penso solamente con orrore alla Germania. Mi prende un senso di nausea. Vedo una mentalità grigia, piccolo-borghese, nessun fascino, niente sesso, nessuna bellezza, solamente persone importanti… Se solo sapessero come si parla di loro qui (A New York)… La Germania dovrebbe capire una volta per tutte, che nella politica mondiale non ha da dire più niente di importante”.
ITALIA. “In Italia ho fatto l’esperienza della visione sensuale del mondo. Lì ho finalmente conosciuto il lato meraviglioso della vita. La luce, i colori, i paesaggi, i suoi alberi, i cipressi come degli ombrelli chiusi e i pini come degli ombrelli aperti. Io amo i cipressi da quando li ho scoperti nei quadri di Leonardo da Vinci e in quelli di altri capolavori della pittura italiana… Le persone che ho incontrato in Italia sono state anche le più importanti”: Franco Rubartelli, cinque anni di amore e convivenza. Anna Maria Papi, la ‘contessa rossa’, scrittrice e giornalista, con il suo clan di Firenze. Nel suo Palazzo Capponi erano spesso invitati Vera e Holger Trulzsch, l’altro grande amore e lì fecero una mostra di Body Art, conobbero l’ambiente della sinistra e appoggiarono l’anarchico Valpreda. Le sorelle Morricone Alba e Francesca: avevano il negozio di parrucchiere più famoso di Roma, in via Condotti, “in tutti i fotoshoots a Roma io volevo solamente Alba”. Il fotografo Gian Paolo Barbieri: nel 1975 Vera interpreta un’esotica circense e con Barbieri creano “uno dei servizi di moda più divertenti della storia di ‘Vogue’. Ero tra le braccia di King Kong sotto la zampa di un elefante e avvolta da un serpente. Sulla mia pelle nuda portavo solamente uno straccio di bikini”. Chiarella Frescobaldi: per due mesi Vera e Holger vissero nel suo palazzo, mentre a Prato lavoravano a un progetto di Body Art con gli stracci del riciclaggio dei tessuti.
BRASILE. Vera va nel 1965 a Rio de Janeiro con il fotografo Henry Clarke: “E il mio narcisismo sbocciò, dal momento che tutti mi trovavano così bella”. Ma come in India fu colpita dalla miseria: “In verità questi viaggi di moda erano sempre una cosa abbastanza reazionaria. Si andava in giro con delle valigie sproporzionate… si abitava in alberghi di lusso, mentre fuori regnava la miseria”.
VEGGENTI. Vera ci andò tre o quattro volte, ma la prima, a New York è quella che la colpì: “La donna sedeva nel guardaroba tra tanti mantelli, una donna piccola, un po’ storpia e piuttosto brutta. Non parlava di passato o futuro, cercava di cogliere la mia personalità. Quando sono entrata mi ha detto: ‘Lei è veramente speciale, nessuno è come lei… Ha il numero 5 che è il numero dei geni… Poi ha predetto che avrei ballato molto,… che sposarsi non sarebbe stato così importante…”
EILEEN FORD. Freddezza al primo incontro con Veruschka. Le chiede due cose: tingere i capelli più scuri e ingrassare. Ma, in seguito, Vera scrive alla madre: “Eileen è molto gentile con me. Una sera mi ha invitato a cena . E’ faticosa in maniera indescrivibile perché parla troppo”. Alla fine, però: “Eileen era una persona falsa… A chi prendeva appuntamenti diceva: ‘Venerdì buttate fuori Vera, quella tedesca alta non la vogliamo più’…”. Ma, grazie a una collaboratrice restò lì per ancora un po’. “Avevo capito che Eileen Ford semplicemente non mi voleva, ma non aveva il coraggio di dirmelo in faccia. Ha continuato a mandarmi a dei provini, ma non mi ha procurato il visto”.
UOMINI. Gualtiero Jacopetti, regista italiano conosciuto a Roma, “aveva qualcosa di molto melanconico, capelli neri, occhi chiari e sguardo triste. Di continuo mi parlava della sua storia d’amore con l’attrice inglese Belinda Lee, morta in un incidente stradale nel 1961… Ci siamo visti diverse volta ma la storia non è andata oltre la mia immaginazione”.
Warren Beatty: “Era intelligente, estremamente affascinante e un vero dongiovanni. Ci siamo visti qualche volta , ma non c’è stato più di un flirt”.
William Rothlein. Lo conobbe nel ’65, una relazione di pochi mesi, ma lui le fece conoscere Salvador Dalì, da cui William non si staccò più, veniva mantenuto dall’artista che credeva fosse la sua reincarnazione, tanto che lo chiamava Adil, anagrammando il suo nome, Adil. Quando Adil ha smesso di fare ciò che voleva lui, Dalì lo piantò in asso.
Massimiliano Patrini. Milanese, gestiva un’agenzia di moda. Vera se ne innamorò mentre girava il suo film con Rubartelli. Lo conobbe a Milano: “E’ stata un’intensa storia d’amore. Aveva una moto con la quale durante i fine settimana andavamo in campagna. Lì poi andavamo a cavallo e dormivamo in piccoli alberghi, ed eravamo continuamente fuori di testa… E’ stato un periodo breve, intenso… Purtroppo poi è passato alle droghe pesanti…”
CONTATTO. “Creavo un contatto con il fotografo attraverso la macchina fotografica. Un rapporto professionale del genere può essere molto sensuale, ma in questo non ho mai fatto confusione… A me non è mai successo e in verità è un peccato. Quando si spengono i riflettori rimane una miscela di quello che si era creato di fronte alla macchina fotografica”.
CINEMA. A Parigi Vera conosce il critico cinematografico Jean Domarchi: “Non era un uomo bello, era un intellettuale con gli occhiali spessi e leggermente eccentrico, ma riusciva a leggere Nietzsche in originale, anche se non parlava una parola in tedesco”. Domarchi scrisse una lettera ad Elia Kazan per Vera, Kazan le presentò Warren Beatty. Poi la contattò Billy Wilder, che aveva visto una sua foto su ‘Look Magazine’. Era appena morta la Monroe e cercava una che la sostituisse nel film che voleva girare con lei, “ma il mio accento tedesco ha posto velocemente fine a tutto”.
Del resto, “non si ottiene un ruolo come attrice solamente perché si conoscono alcune personalità dell’industria del cinema”.
Dopo aver visto ‘Deserto rosso’, Vera volle lavorare con Michelangelo Antonioni: “Faceva dei film psicologici e questo lo trovavo affascinante. Esprimeva quello che io spesso ho provato e osservato, ossia che le persone, anche se parlano tra loro, in realtà non hanno rapporti”. Lo conobbe a Londra, lui assisteva alla seduta fotografica con David Montgomery, pochi giorni dopo, a New York, Antonioni le fece sapere che l’avrebbe voluta per ‘Blow up’. Era l’aprile 1966 e Vera fu ‘molto, molto felice, nonostante il compagno Rubartelli si opponesse: “Mi dà molta gioia Antonioni… Era esattamente come i suoi film, taciturno, strano, melanconico e misterioso. Ci intendevamo senza bisogno di parole. Sembrava convinto che io, per il ruolo della modella, fossi l’unica giusta… Era lento, meticoloso e profondo. Per una delle mie scene rimasi lì in attesa per giorni… Una volta non si tennero le riprese per mezza giornata perché il grigio di una casa al bordo della scena non corrispondeva alle sue esigenze. Allora imbiancarono di nuovo l’edificio. Era posseduto dalla sua estetica e si prendeva il suo tempo. Ovviamente questo faceva impazzire i produttori”. Vera rivide Antonioni solo un’altra volta, a Roma, in estate, per una cena con altri amici in piazza Navona.
“Fino ad allora avevo un nome solamente nel mondo della moda. Adesso venivo ricoperta di offerte e avrei potuto iniziare una nuova carriera. Ma non se ne fece di niente e questo anche a causa della gelosia di Rubartelli… Ma io non ero capace di affrontare questo clamore e in fondo non mi sentivo ancora matura come attrice. Forse allora mi andava anche bene che Rubartelli non mi lasciasse andare… Io sono diventata famosa ma mai ricca”.
Con Rubartelli alla sua prima regia Vera girò anche il film a lei dedicato, ‘Veruschka’, di cui ideò i costumi e collaborò alla sceneggiatura. Doveva essere un documentario sul suo lavoro, ma diventò poi un film sulla vita di Vera. Per questo lei fondò una propria società di produzione, investendo un patrimonio. La colonna sonora la fece Ennio Morricone. Nella primavera del 1971 ci fu l’anteprima a Roma, il film fu stroncato dalla critica e rovinò finanziariamente sia Vera che Rubartelli.
All’inizio degli anni Settanta Vera iniziò a girare ‘Salomè’ con Carmelo Bene: “Dopo i primi giorni di riprese Carmelo mi ha annunciato che sarebbe riuscito a lavorare con me solamente se durante la lavorazione avessimo convissuto per davvero. Dal momento che questa cosa non si è realizzata, io sono partita e la meravigliosa Donyale Luna ha preso il mio ruolo. Da Carmelo ho imparato a trattare più liberamente e con più senso dell’umorismo i giornalisti”.
Una sera a Parigi flirta anche con Dustin Hoffmann che amava le donne alte.
Nel 1976 recita nel film di Francois Weyergans ‘Couleur chair’, storia di persone sole che si incontrano in un night club, c’era anche Bianca Jagger, moglie di Mick. Un altro disastro commerciale.
Nel 1979 un altro tentativo: in Grecia gira ‘Milo-Milo’ di Nikos Perakis, con Mario Adorf, Andrèa Ferréol ecc, un altro flop.
VERUSCHKA. ‘Piccola Vera’ in russo. Tornata a New York nel ‘64, Vera si vuole costruire un personaggio tutto nuovo. “Ho trovato tutto questo eccitante, come un’opera teatrale che avevo scritto e che adesso era il momento di portare in scena… Ho pensato a come si sarebbe vestito, mosso e articolato il mio personaggio. Decisi di farlo apparire totalmente in nero nella copia a poco prezzo di un mantello di Givenchy che avevo trovato nei grandi magazzini Macy, con un cappello di feltro nero e con degli stivali neri e morbidi di camoscio con i quali mi muovevo al rallentatore per le strade di New York per arrivare agli studi fotografici. E ovviamente ero di nuovo bionda. Avevo capito che se volevo emergere dalla massa delle modelle dovevo rendermi indimenticabile… Veruschka era una donna che si presentava come se avesse molto tempo a disposizione e che non dipendeva dalle offerte di lavoro”.
SPOT. “Agli spot pubblicitari ho preso parte di rado perché non trovavo un senso nel dire solo poche frasi dovendo unicamente apparire bella”. Fra questi, la crema Oil of Olaz.
IRVING PENN. “Qualsiasi cosa io le dica, lei non deve dire niente, né sì né no. Per favore faccia solo quello che io le chiedo, e dimentichi tutto quello che finora ha imparato in Europa, tutte quelle piccole pose. Se poggia la mano sui fianchi, per favore lo faccia senza fronzoli. Voglio solo movimenti ben definiti, mai leziosi”. (Il fotografo americano Irving Penn al primo incontro con Vera a ‘Vogue’. New York, primi anni 60). Lei, il giorno dopo: “Il ghiaccio tra di noi si era rotto perché avevo obbedito a tutte le sue disposizioni pazientemente e in silenzio. Da allora fu sempre molto gentile con me… Da lui imparai molto sulla luce, sulle posizioni della testa e del corpo e sulle espressioni del volto. Quando era di buon umore diceva: ‘Veruschka, lei è una capellona di Park Avenue’. Aveva compreso che ero un miscuglio strano tra elegante e selvaggio. Presto andai in giro vestendomi solo con la calzamaglia da ballerina e cinture larghe con gonne corte”.
Ancora lei: “Mi ricordava il pittore Fernand Léger, entrambi avevano qualcosa di un camionista intellettuale… Era riservato e cauto, impressionante la sua conoscenza delle tecniche di stampa… Il maestro indiscusso, un perfezionista assoluto con uno stile inconfondibile e con una forte autorità”. Con Irving Penn Vera iniziò stabilmente la collaborazione con ‘Vogue’.
Dagli anni Sessanta Vera non ebbe più contatti con Penn. Ma nel 2008 lei da Berlino lo ricontatta e gli chiede di farle un ritratto. Lui accetta, lei torna a New York. “Penn ha voluto il mio viso con delle macchie nere, e le voleva fare lui stesso… Mi ha fatto un regalo d’addio meraviglioso. Un anno dopo è morto”.
BERT STERN. Il fotografo più in voga di New York in quegli anni. Vera lo conosce nel dicembre ’62, lui aveva scattato le ultime foto a Marilyn Monroe. “Lo trovavo molto attraente ed era sempre molto eccitante lavorare con lui, l’aria era carica di erotismo. Ma non è mai successo quello che io desideravo, non si è mai fermato una volta per intrattenersi con me… Come la maggior parte dei fotografi, fotografava con la musica. Lavorava volentieri di notte e questo mi piaceva ancora di più… Forse con Bert Stern ho avuto il contatto più forte con un uomo senza esserci mai sfiorati”. Durante il periodo della depressione Vera lo rappresenta nei disegni sui suoi sogni: “Sono molto felice che l’inconscio mostri che lavoriamo di nuovo insieme”.
SOLDI. Nell’inverno ‘62/63, con l’agenzia Plaza Five di New York Veruschka guadagnava 60 dollari l’ora con le foto di moda. ‘Vogue’ pagava 12 dollari l’ora. Ma ancora nel ’62 Vera scriveva alla madre se poteva mandarle soldi per l’alto costo della vita a New York. Poi non ne ebbe più bisogno. Un conto in banca? “Non mi viene in mente una banca specifica ma avevo sicuramente un conto in una banca newyorkese. In ogni caso, all’improvviso mi ritrovavo sempre con abbastanza denaro nelle tasche da sentirmi indipendente”.
All’inizio del 1967 ‘Die Welt’ le attribuisce un compenso di 240 marchi l’ora. Nel 1972, a 33 anni, era la fotomodella più pagata al mondo.
“Veruschka, la supermodella di tutti i tempi che non solamente può pretendere 8.000 sterline per due giorni di lavoro nella pubblicità, ma che li guadagna anche, ha ornato milioni di pagine delle riviste più illustri” (Eve Pollard su ‘Sunday Mirror’, febbraio 1973). Lei: “Non faccio affatto tutto per i soldi. Faccio volentieri anche cose che non sono pagate con cachet così alti… Spendo i miei soldi in macchine fotografiche e viaggi, non per vestiti cari o pezzi di antiquariato”. La Pollard: E come riesce a curare questo corpo che ha il valore di 7 sterline al chilo per ogni ora di lavoro? “Non faccio niente di insolito, non faccio una dieta… Curo anche il mio viso, ma senza troppa dedizione. Non ho molto tempo per questo”.
DEPRESSIONE 2. “Appena arrivata al successo mi inabissavo ancora una volta, urtavo e finivo nel nulla”. A New York, “dalla mattina alla sera mi vestivo e svestivo e venivo fotografata per innumerevoli volte. Il mio lavoro mi portava lentamente verso lo smarrimento e mi sentivo sempre più come un involucro senza sentimenti… Tutto appare soffocante e si perde il rapporto con la realtà. In queste condizioni mi restava solamente una nuova fuga e quindi tornare in Germania da mia madre”. Qui Vera fu ricoverata la prima volta in una clinica psichiatrica per una cura del sonno, “ma al mio risveglio i pensieri erano ancora presenti come prima e io ero totalmente stordita dal tanto dormire e dai farmaci”. Per andare via dalla clinica finse di stare meglio. Nell’estate del ’64 la caporedattrice di Vogue Diana Vreeland e il fotografo americano di moda Henry Clarke la convinsero ad andare in India, due settimane che la fecero uscire temporaneamente dalla crisi. Al rientro a Monaco ritornano angoscia ed insonnia, la mamma mostra segni di insofferenza, Vera tenta il suicidio. La ricoverano per la seconda volta, nonostante lei implorasse la madre di non mandarla in clinica: “Ormai ero solamente panico e allucinazioni. Negli anni successivi ho distrutto i miei diari nei quali era scritto cosa provavo allora”. Un cugino la porta via dalla clinica con l’idea che si sarebbero suicidati insieme (“L’idea bastava per farmi sentire libera”). Vanno sul lago Maggiore e “all’improvviso ho di nuovo trovato piacevole la vita… Alla fine siamo partiti senza che fosse partito uno sparo”.
LA CASA PARROCCHIALE. Dopo l’uscita dalla clinica Vera affitta, con le sorelle Gabriele e Catharina, un appartamento a Monaco vicino alla madre. Gottliebe ha un nuovo compagno molto più giovane, Fritz Schranz che insegnava matematica. Poi abbandonò l’insegnamento e, insieme a lei cominciò ad occuparsi di filosofia. Con alcuni artisti comprarono una antica casa parrocchiale dove si preparavano ‘azioni artistico filosofiche’ che poi venivano rappresentate con degli studenti in posti diversi. “La vecchia casa parrocchiale era così ricca di atmosfera che attirava persone da ogni parte. Improvvisamente mia madre si trovava a vivere”. Spesso partivano: “L’ho ammirata, ogni anno intraprendeva questi viaggi faticosi durante i quali dormiva in tenda in campeggio o semplicemente nel bosco. E ha continuato a farlo anche quando ormai aveva più di settant’anni”.
Per Vera la casa parrocchiale era “un rifugio, lì potevo essere raggiunta solamente tramite telegrammi”. “In quel posto c’erano solo due negozi, la posta, una locanda, una banca e una chiesa… Per gli abitanti del paese ero come piovuta da un altro pianeta. Arrivavano delle persone e mi chiedevano: ‘Ma è qui il bordello?’. Si erano fatte questa idea perché Fritz e mia madre avevano ricoperto le finestre dall’interno con un tessuto in rosa… Nella casa parrocchiale vivevano persone come Paul e Limpe Fuchs, che erano uno scultore e un’insegnante di musica. Suonavano una musica forte ed estatica, spesso a torso nudo, e sul petto avevano scritto ‘Anima sound’, il nome del loro gruppo musicale”. Passavano artisti e intellettuali, una volta anche Werner Herzog,
Nel 1971 Vera va con il compagno Holger a vivere lì e cominciarono a sperimentare unendo arte e fotografia. Gottliebe nel suo diario il 27 ottobre 1971: “Vedo il volto minuto di Vera e la sua assenza di contatto con me e con il suo ambiente. Ha perso se stessa… Capisco che a loro piacciono le loro opere, ma le continue lusinghe e il loro costante compiacersi sono troppo per me… Vera e Holger fanno cose di poca importanza e così trascorre il tempo”. E Vera: “A Peterskirchen eravamo molto lontani da tutto e in me si stava diffondendo una piacevole quiete”.
SALVADOR DALI’. Vera lo conosce nel ’64 a New York, “un essere di un altro pianeta. Ovunque apparisse era il re assoluto e così era anche vestito, con un lungo e ampio mantello e con il suo famoso bastone con il pomo d’argento con il quale picchiava semplicemente su un taxi quando aveva bisogno di un mezzo, meraviglioso! A New York lui e sua moglie Gala alloggiavano sempre al St. Regis… Senza di lei Dalì non faceva niente, la chiamava la dea. E lei chiamava lui ‘Le Divine’….” Vera e Dalì avevano “un codice segreto, e quando diceva ‘Limousine’ intendeva il pene… Non conosceva dubbi su di sé. Si divertiva molto a studiare le persone per il loro aspetto… Di me amava i fianchi e le braccia lunghe… Diceva che i suoi baffi erano le antenne per il mondo, come quelle degli insetti”. L’argomento sesso “gli interessava sempre in modo scottante…”. Diceva: “Sulla punta del mio pene si trova un tessuto vascolare a forma di fiore. Quando è il momento si riempie e così si trasforma in un meraviglioso fiore bianco”. Vera andò a trovarlo a Cadaqués, “mi regalava ogni sera un giglio bianco in modo tale che potessi passeggiare per il paese così adornata al suo fianco, in compagnia di Peter Beard, della cantante inglese Amanda Lear e di un impiegato che tutti chiamavano semplicemente ‘Capitano’ e che portava sempre con sé al guinzaglio un gattopardo americano”. A Cadaqués Dalì fece diversi disegni a Vera come studio per un quadro a cui stava lavorando. A New York insieme fecero la ‘Performance della schiuma da barba’: “Per questa performance ha indossato un mantello bianco… Era primavera, ma a New York la temperatura era ancora quasi invernale. Sulla sponda dell’Hudson River lui mi cospargeva dalla testa ai piedi con della schiuma da barba, per farmi posare come una scultura vivente… Io stavo tremante, la schiuma non si attaccava e, dopo un po’, l’azione venne interrotta e ripetuta in atelier. Dalì era euforico e folle… Grazie a lui ho imparato una cosa molto importante per me, utilizzare il corpo come uno strumento artistico”.
DIANA VREELAND. (1903-1989). La famosa direttrice dell’edizione americana di ‘Vogue’. Vera la conosceva bene e la frequentò a lungo, ma ”era diversa da me, molto più eccentrica. Viveva per la bellezza, per il suo concetto di bellezza. Amava la simmetria. Così per esempio portava una pettinatura perfettamente simmetrica… Il suo ufficio in redazione era totalmente in rosso orientale con dei motivi a zebra… Amava il rouge… Quando era ancora una stilista, così si raccontava, per prima cosa schiaffeggiava le modelle perché prendessero un po’ di colore… All’inizio non avevamo un rapporto personale. Anche a me come a tante altre faceva paura… Sapevo che la cosa che le piaceva di meno era l’insicurezza, per questo nascondevo la mia timidezza, ma era faticoso… Voleva vedere sempre bellezza e forza… Quando si ritirò del tutto, nella sua completa cecità ascoltava audiolibri e allora mi raccontava , in lunghe telefonate, di quanto fosse meraviglioso stare tutto il giorno sdraiata sul letto ad ascoltare libri affascinanti… E da me voleva sempre sapere cosa stesse succedendo fuori, nel mondo. Le dovevo raccontare della vita notturna di New York, di mostre e di luci e colori… Per Vreeland bisognava semplicemente essere interessanti… Tutto doveva avere qualcosa di orgiastico… Viveva a Park Avenue, in un vecchio edificio con portiere e ascensore… Se si era invitati da lei si parlava di tutto… la moda ovviamente ma anche i cavalli, soprattutto quelli arabi, erano uno dei suoi argomenti preferiti. I discorsi nascevano grazie ai suoi ospiti, da lei andavano e venivano Andy Warhol, Truman Capote, la principessa italiana Pignatelli, Mick Jagger e altri ancora. A volte si era invitati da lei anche da soli”.
PETER FONDA. Si conobbero a Roma nel 1965, lui incantato e lei: “Ero totalmente innamorata di Peter… Era affascinante, cordiale, sorridente… Spesso mi guardava a lungo senza dire una parola. A Parigi con lui ho fumato il mio primo spinello e dopo abbiamo riso come due selvaggi. Poi Peter tornò a Los Angeles. Nel ’71 si ritrovarono a New York, c’erano anche Jane Fonda e Roger Vadim. Poi il contatto si interruppe. Si rincontrarono per caso di nuovo a New York nel 1989, e passarono qualche ora insieme. “Lui viveva la sua vita, io la mia”.
PETER BEARD. Proveniva dalla migliore società americana, nipote del costruttore della ferrovia, James J. Hill. “Era completamente selvaggio… Tutto era estremo per lui. IL suo modo di vivere era intenso e i suoi punti di vista definitivi. Ovunque fosse portava sempre le stesse scarpe consumate e dei pantaloni logori che più sporchi erano e più gli piacevano… Scoprire la bellezza dell’animale nella donna lo stimolava ed era così anche per me, e su questo ci siamo incontrati ed è nato il nostro viaggio in Africa. Oggi alcune di quelle foto mi imbarazzano molto perché gli animali erano legati e impauriti, privati della loro libertà… Rappresentare il potere della donna bianca di fronte all’animale sottomesso è una cosa profondamente coloniale… Forse era la vita selvaggia dell’Africa che mi impressionava al punto da non farmi percepire la sofferenza degli animali”.
Per ‘Interview’, la rivista di Andy Warhol, Vera, nel 1975, con l’aiuto di Peter Beard, fece una serie di autoritratti in strada. Non succedeva altro: “E’ sempre più difficile per me guadagnare soldi come modella. Non che ne abbia ancora il minimo interesse, per me è una faccenda del tutto chiusa, è come se farmi fotografare appartenesse alla mia vita di prima”. Tramite Peter Beard, Vera e Holger conoscono a Parigi Francis Bacon, in occasione di una sua mostra.
FRANCO RUBARTELLI. Vera lo conobbe nel 1965 a Roma durante le collezioni, su suggerimento della Vreeland. Sono stati insieme, convivendo, cinque anni: “Un italiano attraente ed elegante che cercava di dare un’impressione disinvolta di sé… Ero alla ricerca di un fotografo non convenzionale e avevo la sensazione che lui fosse pronto a osare qualcosa di straordinario… Sempre più spesso i fotografi più noti come Horst, Penn, Clarke e Bert Stern volevano lavorare con me, ma questo ormai non mi appassionava più… Rubartelli mi fotografava così come mi volevo vedere e non nel modo che desideravano gli stilisti… I nostri scatti, anche quelli non commissionati, venivano sempre pubblicati da tutte le riviste del mondo.
Nel ‘66 Vera fu di nuovo a New York, lavorava con Avedon, ma tornò a Roma da Franco, primo uomo con il quale convisse: “Tuttavia spesso era faticoso con lui perché cercava di avermi totalmente e io non riuscivo a sottrarmi. La nostra collaborazione, per me, era paragonabile a una dipendenza”. Giravano il mondo, ma “una volta tornati a Roma vivevamo in una famiglia italiana del tutto normale, continuamente circondati dalla madre di Franco, e io mi sentivo in trappola… Negli ultimi tempi era ossessivo, non voleva che partissi, neanche per andare da mia madre… a un certo punto sentii un blocco, mi vedevo andare in rovina”.
Nel ’68 Vera diceva di Rubartelli: “Nei miei pensieri la separazione aveva avuto già inizio, ma non lo davo a vedere”. Nel frattempo inizia una relazione con il fotografo di ‘Vogue’ Alexis von Waldeck, che finì presto quando lei seppe che lui andava a raccontare in giro i dettagli della loro storia amorosa.
Nel 1971, dopo il fallimento del film fatto insieme la separazione definitiva da Rubartelli. Lui, pieno di debiti, si stabilì in Venezuela. Per più di 20 anni Vera non seppe più nulla, ma in Sudamerica come regista riuscì poi a guadagnare molti soldi.
HOLGER TRULZSCH. Artista. Vera lo aveva conosciuto nel 1969 nella casa parrocchiale della madre, a Peterskirchen: “Ero incantata dalla sua voce, dai suoi occhi e dai suoi modi piacevoli… All’inizio non sapeva chi fossi e, da intellettuale di sinistra aveva comunque alcune riserve nei confronti di una modella… Dall’Italia sono riuscita a convincerlo a venire a Roma… E’ arrivato vestito con una di quelle giacche che si faceva da solo incollando vari pezzi di pelliccia, e con un tamburo sotto il braccio… Sapevo che dovevo cambiare la mia vita e con Holger è cambiata. La mattina facevamo delle lunghissime colazioni e parlavamo… Ero felice. L’incubo di navigare senza una direzione era finito”. Tornata a New York nel marzo 1971, Vera resistette solo alcune settimane, poi tornò da Holger e andarono a vivere a Peterskirchen, vicino alla madre.
Lui dichiara nel 1998: “Vera mi ha dato la meravigliosa possibilità di potermi dedicare di nuovo alla pittura e per giunta sulla pelle della donna che amavo”.
FIGLI. “Avere figli era per me un’idea impossibile… Io stessa ero come un bambino, come avrei potuto crescerne uno? Non riuscivo nemmeno ad avere un rapporto con i bambini”.
ABORTO. Nell’estate del 1971 Vera era una delle nove celebrità tra le 347 donne che hanno ammesso pubblicamente, nelle rivista ‘Stern’, di avere abortito. Tra loro anche Senta Berger e Romy Schneider. Al tempo abortire era un reato passibile di pena.
BODY PAINTING. Vera cominciò ad occuparsene quando stava con Rubartelli: “Inizialmente mi trasformavo in animali, attraverso la pittura del corpo, perché li ritenevo quasi sempre più belli di noi uomini… La Steinbemalung (Pittura delle pietre) nel 1968 è stata poi l’inizio di un mutamento, di un ritirarmi sia dal personaggio Veruschka che da me stessa. E poco dopo è iniziata la collaborazione con l’artista Holger Trulzsch, e con lui sono nati il rigore e la ricerca dell’essenzialità della posa… Abbiamo elaborato una tecnica speciale di pittura per il corpo… Il mio desiderio di mutamento era un’ossessione, un tentativo di trasformarmi in ogni possibile essere vivente… Holger e io ci capivamo proprio in quanto artisti e così ci rifiutavamo di interpretare i nostri lavori. Io lavoravo e comunicavo con il mio corpo perché questa era la cosa più ovvia per me. E’ il mio strumento e ho imparato a gestirlo. Lo tengo costantemente in trasformazione, ma nella vita quotidiana indosso quello che trovo nell’armadio”.
Iniziò a Roma nel’68, Vera era sola e abbattuta: “Sono uscita fuori sul terrazzo della casa che condividevo ancora con Franco e all’improvviso ho avuto l’idea di diventare come le pietre del pavimento del terrazzo. Mi sono stesa in terra e con l’aiuto di uno specchio ho dipinto la struttura delle pietre sul mio viso… Il rifugio nell’arte allora faceva parte della mia strategia di sopravvivenza”. Fotografata da Rubartelli, questa pittura è diventata poi ‘Body Art’. “L’idea di diventare simile allo sfondo, era innata in me. La ‘Testa di pietra situata tra altre pietre’ diventata poi famosa è nata solamente con il film che ho prodotto con Rubartelli”.
Dieci anni dopo, nell’aprile del 1978, Vera lavora a un ciclo di pitture sul corpo con Holger. “Ci siamo sistemati per alcune settimane ad Amburgo in una costruzione industriale dell’Ottocento abbandonata al degrado… E’ nata in alcune settimane una serie di lavori nei quali io con il mio corpo pitturato raggiungevo una sintesi visiva con le forme, le superfici e le strutture del luogo. L’abbiamo chiamata la serie delle ‘Oxydationen’. L’anno dopo i lavori furono esposti con successo ad Amburgo, Museo delle Arti e mestieri. Sullo ‘Zeit’: “La tendenza all’annullamento della persona per materializzarsi in altri soggetti è una caratteristica di tutto quello che ha fatto finora Vera von Lehndorff come attrice e artista. L’oggettivazione del corpo, iniziata allora, portata avanti durante il periodo da modella, viene spinta adesso fino all’estremo confine, verso l’annullamento, nel fondersi con le pietre di un muro, con il metallo di una porta e con il legno degli infissi”. Conseguenza sul suo corpo: una forte infiammazione agli occhi e escoriazioni e macchie sulla pelle per i materiali usati.
Nel 1984 Vera torna un paio di volte a New York, con il pittore Markus Lupertz a cui faceva da interprete e, nel frattempo cercava gallerie dove esporre le sue opere. Era molto difficile. Non voleva essere chiamata Veruschka, ma Vera Lehndorff. Non ci riuscì: “Se si era diventati famosi nella moda, nel settore dell’arte ti si chiudevano le porte. Anche se alla fine è più facile in America che in Europa”. Nello stesso anno posa crocifissa per Julian Schnabel. Alla fine riesce ad avere la prima mostra americana, alla galleria di Bette Stoler (autunno 1985, esposte le ‘Oxydationen’). Vernissage da superstar con Andy Warhol, Gary Indiana, Robert Hughes, critico d’arte del ‘Time magazine’, Susan Sontag, ecc. Nel 1986 la stessa mostra a Houston. Esce anche un libro, ‘Trans-figuration’, con la prefazione di Susan Sontag. E ancora: imitazione della body art in un video dei Rolling Stones (mostrava delle ragazze dipinte come un muro, dal quale emergevano e di fronte al quale cantava Jagger) e su una copertina di ‘Vanity Fair’ con Demi Moore nuda, ma dipinta come se portasse un vestito.
‘ASCHEBILDER’. Progetto iniziato nel 1981, scenari di città in fiamme per il quale Vera brucia ogni oggetto possibile. A Londra, col fotografo Michel Haddi, cospargono di cenere un capannone industriale, dove poi Vera si sdraia cosparsa a sua volta di cenere. Ne nacquero foto famose. A New York lavorava con la cenere dei camini, ma vi lavora più assiduamente dopo, a Peterskirchen.
ANDY WARHOL. Vera lo conobbe a New York e lo incontrò spesso fin dai primi anni Settanta . Era presente nell’’85 all’inaugurazione della sua mostra. “Era molto piacevole e assolutamente infantile, e si presentava sempre così ignaro e innocente, tutto doveva essere sempre bello e grandioso, lui non voleva che nessuno gli ponesse delle domande e nemmeno voleva trovarsi a confronto con niente”.
RICHARD AVEDON. Fra i più grandi fotografi americani di moda. Vera lo aveva incontrato a Parigi nel 1961, con un contatto che le aveva procurato Denise Serrault: “E’ stato solamente un breve incontro, lui non era assolutamente interessato a me. Per i canoni di allora ero troppo longilinea e timida e avevo un viso da bambina. Avedon era semplicemente ancora un gradino troppo in alto per me… Per l’alta moda avrei dovuto essere più piccola, più fine e più magra e tutte le volte c’erano dei problemi con le scarpe”.
Cinque anni dopo a New York lavorano insieme. Realizzano 23 pagine per il numero di marzo 1967 di ‘Vogue America’, che Veruschka considera “l’apice” del suo lavoro, con la novità della ‘posa in movimento’: “Volevamo dare l’impressione che il corpo fosse privo di gravità… Con Dick le sedute fotografiche sembravano sempre una specie di discorso attraverso la macchina fotografica…”. Nel febbraio ’66 partirono per alcune settimane per il Giappone: ‘Vogue’ aveva commissionato, senza badare a spese, di fotografare in un paesaggio di ghiaccio e di neve delle pellicce costose, fatte apposta per Veruschka: “Sono molto felice di fare con Avedon, il più grande fotografo di moda del mondo, un viaggio del genere- scrive alla madre – prima di concentrarmi di più sul cinema... Non so più se sia giorno o notte, in quale paese io sia, in che ora e in che data. Giuro, una grande confusione…”. Nel team c’era anche un lottatore di sumo giapponese, “aveva 17 anni ed era incredibilmente magro, alto quasi due metri… I suoi piedi erano enormi e per di più andava solamente scalzo, anche d’inverno… Durante le riprese stava per ore scalzo nella neve poiché era impossibile trovare scarpe per lui. Non ha mai emesso un suono, era sempre completamente muto”.
“ Lavorare con Avedon è stato senza dubbio il periodo più importante e di più grande ispirazione nella mia vita come modella… Era unico, ma spesso dovevo disdire gli incontri perché Rubartelli si interponeva, era geloso quando lavoravo con un altro fotografo”. Alla fine Vera lasciò la collaborazione con Avedon e si trasferì a Roma con Franco, optando per la recitazione.
PELLICCE. “Agli inizi degli anni 80 ho visto un documentario sull’uccisione degli animali per l’industria delle pellicce e da allora non porto più pellicce e non le porterò mai più”.
LIBIA. Dopo ‘Blow up’, Vera parte per la Libia con Rubartelli. Girano foto nel deserto, lei disegna i suoi vestiti, ispirandosi alle pitture murali egizie e decide le acconciature: “Non ci interessava altro che deserto e luce, Diana Vreeland era entusiasta dei disegni e aveva organizzato tutto… Ogni giorno nel deserto. Per le riprese volevo tenere gli occhi aperti, ma a causa della luce intensa sono diventata temporaneamente cieca. Per quattro giorni ho visto solo nero…”. La Vreeland sulle foto di quel viaggio: “Sono troppo belle per essere vere. E tutto è merito tuo… Hai un unico difetto, Veruschka… I tuoi occhi guardano sempre troppo lontano, questo continuo sguardo alla ricerca di qualcosa è una tipica peculiarità europea”. E lei: “Il successo mi aveva reso cieca, avevo perso il contatto con me stessa ed ero solamente una messa in scena senza la possibilità di potermi ritirare, riposare ed essere creativa… Il vuoto dentro di me stava diventando sempre più grande. Diana Vreeland l’aveva già notato nel mio sguardo”.
‘THE UBERMENSCH’. “E’ già stata notata, ovunque. Seminuda e gettata come una statua fusa a freddo nella neve fresca dell’Alaska, il sole del deserto scottante sul suo corpo snello come un giunco e dipinto come una pelliccia di leopardo, felina come nel film ‘Blow-up’… Ha l’andatura eretta, ma non rigida, anzi mentre si avvicina la sua figura infinita sembra muoversi al rallentatore. Pesa solamente sessanta chili, ma incredibile, in tutta questa lotta nello spazio, sulla silhouette esile di questa creatura si intuiscono un seno notevole e dei veri fianchi”. (‘Life-Magazine’ del 1967, copertina e 11 pagine su Veruschka. Lei ne fu “onorata. Solo che hanno scritto che ero alta 1,87 com e questo non mi è piaciuto”)).
A 28 anni era la modella più famosa del mondo.
1971, Vera in visita a Monaco. “La più alta di tutti, sembra una sottile roccia aguzza tra la folla: la top-model Verschka, contessa von Lehndorff… Sposta il peso e il suo corpo, una torre pendente, vacilla leggermente mentre il suo sguardo azzurro pallido rimane annoiato. Lentamente appare un ginocchio sotto lo spacco che arriva fino all’anca del suo vestito nero. La sua mantellina di giaguaro scivola. Si vede anche l’inizio del sedere”. (Articolo della ‘Munchner Abendzeitung’). Nella stessa occasione a un fotografo che la voleva in posa insieme a Barbara Valentin: “Qui non ho ancora individuato una persona bella… Bello è ciò che si distacca dalla massa. Odio la massa. Da bambina volevo essere come tutti, ma ero troppo alta e troppo magra. Ero brutta. Fino a quando un giorno non mi sono convinta di essere bella, e così lo sono diventata”.
‘PERSONALITY MODELS’. “La modella più richiesta del mondo, com’è stata definita da ‘Life’, è per la maggior parte delle riviste inglesi un uccello addirittura fiabesco. ‘Vivo sempre con la valigia’ dice di se stessa. Sulle foto vediamo Veruschka nelle vesti di leopardo, di uccello o di un altro animale, ma praticamente mai rappresentata come donna… E’ una delle prime rappresentanti di una nuova specie, le Personality Models”. (Brigitte Keenan su ‘Magazin Nova’, 1968).
LEGGENDA. Nei camerini degli studi fotografici di Londra si bisbigliava che, quando oggetti di una modella inglese finivano nel camerino di Veruschka, lei le tirasse dietro alla sventurata collega urlando: “ Ragazze piccole come te io le divoro a colazione”.
ARA GALLANT. L’hair stylist di Veruschka. “Era schiavo delle manie di grandezza. Si spostava solamente in taxi o limousine, doveva dormire in lenzuola di seta, tutto il suo guardaroba era cucito a mano per lui e le sue scarpe, portava solo stivali da cow-boy che venivano fatte su misura. Ara era un grande eccentrico… La sua casa era come una grotta, oscura, piena di specchi e senza finestre… Fumavamo ininterrottamente, non era concepibile Ara senza sigarette”. Gallant si suicidò nel 1990.
GIORGIO DI SANT’ANGELO. Designer, collaboratore di di Veruschka, proveniva dall’antica nobiltà siciliana. “Tra tutte le persone della moda era l’unico al quale ero legata da un’amicizia… Viveva in una casa arredata meravigliosamente in Park Avenue… In nessuna occasione sembrava voler fare sfoggio della sua ricchezza… Giorgio era sempre molto presente, positivo e pieno di energie. Con lui non si era mai di cattivo umore”. Vera fu ospite a casa sua per qualche tempo nel 1988. Nell’’89 Giorgio si ammala di tumore e muore. Vera ne soffre moltissimo.
DEPRESSIONE 3. Fine anni 60, nuova crisi. Vera scrive alla madre: “Volo in giro come un uccello spaventato, cerco la terra, ma ho bisogno del cielo… Anche le mie foto non sono più belle… Non riesco quasi più a sopportare la macchina fotografica posizionata su di me, che pretende qualcosa, che inesorabilmente si aspetta qualcosa e che risponde con un clic, anche quando non riesco a tirare più fuori qualcosa da me. Così come mi ha fatto parlare mi porterà anche a a tacere!... Non mi sento più unica”. Comunica anche la disdetta a ‘Vogue’ di tutte le sfilate per l’estate ’68.
La nuova caporedattrice Grace Mirabella, ha l’incarico di restituire ‘Vogue’ alle donne reali e vuole cambiare l’immagine di Veruschka: “Mi hanno pregato di accorciarmi i capelli e di apparire nell’insieme più compiacente. Sapevano che questo non mi si poteva chiedere… Nel momento in cui hanno messo in dubbio la mia immagine mi è stato chiaro che ero nel posto sbagliato… Rifiutandomi di cambiare secondo le loro idee, me ne sono andata”.
MORTE. “Sono continuamente accompagnata da questa sensazione di morte e sono sempre sconvolta dal grande buio che mi attende e del quale non so niente. Qualsiasi cosa succederà dopo avrà certamente una durata eterna. Cosa mai saranno questi anni sulla terra in confronto all’eternità”. (Lettera alla madre, 1968).
“La morte mi è vicina da giorni, non perché voglio morire, ma perché so che dovrò morire. La mia fugacità mi è estranea, me è comunque lei che mi ricorda, come i fiori appassiti sul tavolo, di andare a passo più veloce”. (Peterskirchen, 11 aprile 1984). Già due tentativi di suicidio alle spalle. “Solamente quando vita e morte sono presenti consapevolmente l’una accanto all’altra, inizia una vita in cui scorre tutto. Bisognerebbe vivere faccia a faccia con la morte. La morte non dovrebbe sorprenderci, dovrebbe essere sempre in noi come la vita, e quando un giorno ci toccherà partire con lei, non andremo con un estraneo”. (Peterskirchen, 19 febbraio 1985).
DEPRESSIONE 4. L’estate del 1973 Vera la trascorse nella casa parrocchiale, spesso sola e inerte. Considerava gli ospiti come degli intrusi. “Ho la sensazione di venire schiacciata da una forza invisibile… Le angosce notturne si sono aggravate sempre di più… Non riesco a sopportare la mediocrità in me” (ott.1973). Dopo un anno a Peterskirchen, Vera e Holger se ne vogliono andare e, alla fine di novembre, si trasferiscono a New York, all’hotel Alden. Qualche giorno dopo Vera scrive a sua madre: “Fumo di nuovo come una ciminiera e per questo ho l’aspetto sciupato… Non so ancora che travestimento mi metterò questa volta per proteggermi. Io e Holger sembriamo due campagnoli smarriti , e infatti lo siamo!!!”.
Tornata a New York Vera riprende a lavorare con Avedon in pubblicità, ma non è più la stessa: “Veruschka è andata, è alla fine”, si diceva. “Lì mi è stato chiaro: devo scomparire, qui così non mi bvuole vedere nessuno”. E torna sola n Germania, a Wiesbaden da un terapeuta. Holger resta a New York. Viene sottoposta alla terapia delle regressione, “scelta poco felice… stavo peggio. Andavo dritta verso il delirio”. Scappa da Wiesbaden, a Francoforte la raggiungono la sorella Catharina, che spaventata da una notte delirante di Vera, chiama la madre che, con Fritz, la riporta a Peterskirchen: “In me c’era l’inferno, mi hanno sistemata nella sala di lettura di mia madre. Ma anche lì vaneggiavo sempre di più. Non trovavo riposo e girovagavo per la casa, anche a notte fonda. Era un’unica catastrofe quella che mi succedeva”. Fu portata in una clinica psichiatrica a Monaco e Holger la raggiunse subito da New York. Dopo otto settimane di ricovero, i medici propongono l’elettroshock, Holger rifiuta il consenso, fa dimettere Vera e decide di portarla in Grecia. “Ho fatto credere che non era più così grave… Già nel lungo viaggio per la Grecia dondolavo di continuo sul mio sedile gemendo tormentata dalle mie visioni da horror”. Arrivano in una bellissima isola, Spetses, in un appartamento di amici. Lei non migliora, disegna il diavolo: ”Ero dimagrita moltissimo e mi tormentava la paura che qualcuno mi venisse a riprendere. Quando vedevo apparire delle navi all’orizzonte pensavo che il momento fosse arrivato”. Holger la tranquillizza e la accudisce amorevolmente, ma invano. Il 12 maggio 1974 prepara il viaggio di ritorno: “Era chiaro che mi attendeva un altro ricovero in una clinica. Già in passato mi avevano diagnosticato una psicosi, profetizzando una permanenza in una clinica per più anni. Pensando a questo mi assaliva una paura così forte che decisi di voler morire… Il pensiero di suicidarmi mi tormentava già da alcune settimane…”. E il giorno prima di partire lo realizzò buttandosi da uno scoglio, davanti agli occhi di Holger. Urta con uno scoglio appuntito, precipita in mare e, a nuoto, raggiunge la riva. Coperta di sangue, a Holger dice di essere scivolata. Poi perde conoscenza. Lui corre dalla polizia che lo accusa di averla buttato dallo scoglio. Gridando, esce, trova un medico tedesco e un pescatore, raggiungono in barca Vera, non la trovano: “Ero salita su un pendio. Lassù, dietro a un masso, stavo inerte e guardavo lontano, oltre il mare… Holgermi ha trovato così, in trance, assente e assorta. Ancora non sentivo il dolore né le ferite… Quando poi Holger mi ha toccato ho cominciato ad urlare. Il dolore era entrato nella mia consapevolezza. L’anca era storta, il mento, il pube e le costole si erano rotti e ovunque c’erano delle ferite”. La sera tardi arrivano ad Atene e, in ospedale c’era la polizia pronta ad arrestare Holger. Lui, ancora urlando e sgomitando riesce a liberarsi e a fare curare Vera la sera stessa. Lei si riprende: “Sentivo la pace dentro di me ed ero grata di essere sopravvissuta… Lo choc aveva cambiato tutto”. Dopo varie settimane di convalescenza ad Atene, Vera ed Holger tornano in Germania. “L’energia che prima sentivo contro di me, adesso si muoveva per me. Era come una rinascita”. Ricominciano anche le offerte di lavoro, per le riprese di spot pubblicitari. “Per la prima volta nella mia vita sono felice di essere viva… Ogni giorno sono contenta di vivere. Non ho più paura di stare insieme alle persone che amo…” (Diario dell’ 1 dicembre 1974).
Da maggio a giugno 1975 Vera fa di nuovo un viaggio a Spetses, per elaborare lo spavento dell’anno passato.
MEDIA CONTRO. Fine 1974, Vera si trasferisce a Parigi con Holger. A gennaio spiacevole partecipazione come ospite d’onore in un talk show tv: “Attorno a me c’erano solo uomini. Uno di loro, un comico senza alcun senso dell’umorismo, si è preso la libertà di definirmi ‘attaccapanni’ e non ho avuto una risposta pronta… Finito lo show nessuno mi rivolgeva la parola”. Holger: “Ci vorranno cinque anni prima che questo fatto venga dimenticato”. A fine luglio 1975 la stampa scandalistica scriveva, per l’ennesima volta, di avere sorpreso Vera con un nuovo amore: “La stampa scandalistica scriveva sempre qualche storia su di me, ma non significava niente, era il solito chiacchiericcio e i soliti pettegolezzi. Si fa di tutto un unico calderone, non importa se si tratta di una contessa nuda, dell’invecchiare, dell’incidente, di qualche play boy o addirittura di mio padre e della Resistenza. Così è per tutti coloro che sono esposti al pubblico…”.
19 febbraio 1976, ‘Stern’ riporta alcune foto della Mimikri-Dress-Art di Vera e Holger e scrive: “Vera, lunga come la miseria, inciampa di continuo, e in verità non è bella per niente. Davvero non lo è. Di fronte a me siede una donna molto alta, dura, pallida e bionda con una grande bocca schiacciata, degli occhi beffardi e molto chiari sotto a ciglia da capra, una sottile cicatrice sul mento, delle dita ingiallite dalla nicotina con le unghia spezzate, una donna con delle gambe rigide e magre in dei jeans bianchi e con un profilo indefinito sotto a un largo pullover”. Lei: “I media tedeschi si divertono a ridicolizzare i connazionali che diventano famosi. Allora lo ‘Stern’ ci pagò molti soldi per avere le foto dei nostri quadri. E quelli ci servivano urgentemente”.
JACK NICHOLSON. In quegli anni Vera conobbe Nicholson e Anjelica Huston, che faceva la modella. A Ottobre 1975 andò a trovarli a Los Angeles: “Mi piacevano molto. Stavamo tutto il giorno a poltrire in casa oppure in piscina, facendo delle lunghe chiacchierate tra donne”.
LOS ANGELES. “La vita in questa città per i ricchi era molto cool! Case belle in montagna o al mare, ovviamente sempre con una piscina e minimo due macchine poiché tutti si spostavano solo con queste. L’inquinamento della città a quei tempi era così alto che molte persone portavano delle maschere per respirare. Le star si facevano reciprocamente visita nelle loro ville, stavano in piscina, si raccontavano le proprie storie, del loro ultimo film o del loro LP. Poteva essere molto divertente. Tutti cercavano di superare gli altri con le storie migliori. Facevano tutto insieme e condividevano il loro film, dischi, ecc, addirittura le loro mogli o mariti. L.A. era ancora più americana di New York e io mi sentivo come a Disneyland.
FRANCOIS WEYERGANS. Scrittore, Vera lo incontrò a Parigi, “era il tipico intellettuale parigino, un po’ alla Jean-Luc Godard… mi sentivo attratta sempre più da lui. Mi studiava con grande intensità rendendomi partecipe delle sue scoperte… era sempre allegro, mai infelice o deprimente… Con lui è iniziata una vita molto vivace. Le giornate passate insieme erano meravigliose. Con Francois ho scoperto Parigi… e ho conosciuto Klossowski, Bejart e il danzatore Jorge Donne… Holger è caduto dalle nuvole quando io improvvisamente ho cominciato a stare insieme a Francois , dal momento che non c’era alcun motivo per separarci. Non avevo neanche intenszione di vivere con Francois. Aveva un figlio e una moglie che lo amava”. Holger se ne andò in Grecia, “perché tutto questo era troppo per lui. E’ stato terribile, ero lacerata perché non volevo perderlo per nessun motivo. Ma Francois era come una farfalla, di continuo si levava in volo per scoprire qualcosa di nuovo e di eccitante, per volare da un fiore all’altro e infine per sparire all’improvviso…” . Fecero insieme il film ‘Couleur chair’, poi lei andò da Holger a Paros, in una casa piccola, isolata e senza elettricità, occupandosi entrambi di body art. Inizia così un periodo di sballotamento nei rapporti fra i due amori. E lei torna triste. Scrive nel 1978: “Non avere una professione, essere nessuno, proprio non va… si diventa un clochard… oppure si impazzisce e si finisce in manicomio o in prigione. Io divento dei muri, delle porte o delle pietre. Divento ciò che evidentemente va incontro alla decadenza… Ma andare, per tutta la vita, ogni giorno, al lavoro, per me sarebbe ancora più assurdo e alla fine insopportabile”.
DISEGNI. Vera dipinse e disegnò: le pietre, una delle sue ispirazioni principali, con una serie di disegni a lapis del 1979: “Le pietre sono dei mondi, immutabili in sé, come se già un po’ più vicini all’eternità, sopravvivessero alla fugacità…” Poi, i fiori: “Ho disegnato un’amarillide rossa… i suoi fiori cambiavano di ora in ora. Ero così sconvolta dalla sua bellezza che in certi momenti mi girava la testa…”.
40 ANNI. “Mi sentivo vecchia… Vivevo sempre provvisoriamente, con una valigia con dentro alcune cose, le pietre, i miei disegni, in un viaggiare continuo tra Bruxelles, Parigi e Peterskirchen”. A Parigi Vera viveva con Francois, due camere senza bagno e con la toilette nel corridoio, lui scrive e fuma, lei disegna, “ogni due ore viene bollito un tè giapponese e svuotato il posacenere”.
BUDDHA. In quegli anni Vera si interessa al buddismo: “Buddha era una persona, non un Dio o un figlio di Dio… Aveva origini aristocratiche ed è diventato di sua volontà un mendicante”. Vera, attratta, andò in ritiro due settimane sulle montagne del sud della Francia: “Tutte le mattine, alle cinque, quando sorgeva il sole, si meditava e poi si facevano degli esercizi di yoga su un prato…”. Francois non apprezzava: “Io ero entusiasta, lui fuori di sé (‘Ti devi decidere, tra Buddha e me’). Sia lui che Vera, in quel periodo avevano altre relazioni, lei con un buddhista, lui con un’americana. Ma lei si deprime, visse con il buddhista per due settimane in un minuscolo appartamento: “… Mangiavamo riso, qualche volta un po’ di verdure, altrimenti stavamo a letto o meditavamo. Uscivamo soltanto per un attimo, per comprare del riso, poi mangiavamo, meditavamo e ci mettevamo di nuovo a letto…”. Poi lo lasciò. A Peterskirchen Vera si era costruita nell’atelier un piccolo altare per praticare il buddismo tibetano, “questo ha contribuito tanto alla mia confusione, mi stavo mettendo alle strette da sola… Ancora una volta stavo precipitando da una montagna a tutta velocità…”.
DEPRESSIONE 5. 1983, un altro ricovero alla clinica psichiatrica Max-Planck di Monaco, ma Vera scappa di nuovo e si rifugia da Francois, nel frattempo trasferitosi in una casa “in un bosco incantato per scrivere, a un’ora da Parigi. Dopo un iniziale piacere per il nostro rivedersi si sentiva però disturbato… Non sapeva come aiutarmi. In quel periodo ho tentato il suicidio per la seconda volta… mi sono buttata nel vuoto da una finestra di casa”. Ricoverata di nuovo, a lungo per trattamento e terapia. Torna da Francois e poi a Peterskirchen .
TEATRO. Vera debutta ne 1983 con la regista Ulrike Ottinger. Mettono in scena ‘Clara S.’ a Stoccarda e Vera interpreta Gabriele D’Annunzio. La sera della prima cade. Ferita, continua la rappresentazione. Fu un successo. L’anno dopo la stessa regista le offre il ruolo di Dorian Gray in un film.
AIDS. Erano gli anni in cui l’Aids seminava panico e morte, soprattutto nell’ambiente di Vera, che perde molti amici: Zoli, il suo agente, fu uno dei primi a morire, poi Haltson, Mapplethorpe, alla cui commemorazione al Whitney Museum Vera era presente, Keith Haring, il danzatore Alvin Ailey, Rock Hudson, Anthony Perkins.
PARIGI. Come New York, a Parigi Vera continuò ad andare per tutta la vita e vi si stabilì anche lunghi periodi. Alla fine del 1989 si trasferisce vivendo una nuova fase depressiva. Abita all’inizio nell’appartamento vuoto dello scrittore Patrick Suskind e poi in una casa vicino a place des Vosges, messale a disposizione da Hanna Schygulla. A Parigi allora vivevano anche Holger con la compagna Dominique e Vera li frequentava assiduamente. Tornata Hanna, Vera trasloca ancora. In quegli anni inizia una psicoterapia profonda, dove ripercorre le sue vicende familiari. Un’occasione importante di riflessione fu la seconda parte – inedita - della lettera di addio del padre che la madre le fece vedere alla fine del 1992, 48 anni dopo la morte del padre: “Fino ad allora conoscevamo solo la versione pubblicata. Riflettere sulla lettera per me è stato molto importante… In questo periodo ho iniziato a comprendere che le fasi della depressione hanno una funzione nella mia vita, mi costringono tutte le volte a liberarmi dalle situazioni nelle quali non vorrei vivere. Da questo punto di vista, più che una malattia sono una medicina”.
GATTI. La passione di Vera, soprattutto negli ultimi anni. A Parigi nel 1993 Holger e la sua donna le portano un piccolo gattino nero, che lei chiamò Afflein. “Aveva seguito i due in strada e voleva assolutamente salire da me. Era profumato… Non si è più staccato da me per dodici anni”. Ad Afflein si aggiunse Tommy, che Vera salvò da una pensione per animali. Si era sparsa la voce che lei li amasse e si ritrovava gattini appena nati fuori dalla porta. A Brooklyn nel ’96 viveva con undici gatti, arrivò ad averne anche 15. Vera li curava anche: “Ogni giorno cucinavo tonnellate di cibo per gatti a attraversavo in bici la città per dar loro da mangiare. In certi periodi è stata la mia occupazione principale. Nel 2005 Vera lascia New York per Berlino e si porta sette gatti.
MICHAEL WASCHKE. Detto Micha. Vera lo conosce nel ’93, su indicazione del suo amico compositore Jacques Schonbeck, che le segnala “un tipo ostinato, vive a Berlino, viene dall’Ovest e studia filosofia. Soffre per pene d’amore e gli piacerebbe venire a Parigi”. Lei se ne innamora, lui aveva 25 anni, Vera 55: “Con Micha la vita è iniziata ancora una volta”. Convivono e d’estate vanno insieme a Peterskirchen: “Un’estate da favola, ai laghi in bicicletta, godendoci le giornate..”, la casa invasa da ragazzi. Nel 1996 ancora insieme e con il gatto si trasferiscono a New York. All’inizio vivono nella casa del compagno di Isabella Rossellini, Gary Oldman. Dall’estate del 1996 sono a Brooklyn, in un loft di 100 metri quadri, in una piccola casa a due piani, nel quartiere Dumbo, “abitato solo da artisti e rock band… Una no man’s land in cui in quegli anni alcuni tassisti rifiutavano addirittura di arrivare… Io e Micha vivevamo come due bambini, che giocavano e che facevano quello che gli veniva in mente… Al piano di sotto viveva Joey, un’artista che creava sculture di ghiaccio… Ho stretto amcizia anche con Ed, un senzatetto. Nel ’98 Vera, con Micha e Joey realizzano il film artistico ‘Buddha Bum’: “Parlava di senzatetto e di Buddha, io ero una clochard e Buddha in una sola persona… Il mio costume era: pelle, capelli, un pezzetto di stoffa, tutto in blu. Ero seduta su un fiore di loto di ghiaccio, che Joey aveva scolpito per me… Micha ha composto le musiche su un pianoforte vecchio che aveva trovato per strada”. Poi la storia d’amore finisce, ma Vera e Micha restano amici, diventa sua amica anche Lilli, la compagna di Micha, che la aiutava nella cura degli animali.
VERUSCHKA SELF-PORTRAITS. L’idea era quella di rappresentare diversi tipi umani di New York. Alla fine ne sono venuti fuori più di una trentina, mendicante, prostituta, extraterrestre, animale, mafioso, intellettuale, attori, anche primo presidente americano di colore. Collaborarono al progetto anche designer e studenti della scuola di moda e di Parigi. Il fotografo era Andreas Hubertus Ilse.
BERLINO. Quando nel 1989 crolla il muro, Vera è a New York, in taxi. Allora non era mai stata nella Ddr. Nel 2005, Vera vuole lasciare New York per tornare in Europa e sceglie Berlino. “Volevo ritornare alla mia storia. Berlino era l’unica città da prendere in considerazione. Mi attirava l’apertura.. dopo la caduta del muro è di nuovo tornata ad essere una metropoli”. A fine maggio con Lilli arriva a Berlino, con sette gatti e un’infinità di scatoloni. “Non la conoscevo bene, l’Est della città mi colpiva particolarmente, Micha veniva spesso con me in quella parte… La storia a Berlino è onnipresente, ti piove addosso ad ogni angolo, anche la storia di mio padre… In realtà ci ho messo più di due anni per arrivare davvero in questa città. Nelle prime due case non avevo nemmeno aperto gli scatoloni. Ma a Berlino, “per la prima volta dipendo solo da me stessa e percepisco questa esperienza come un grande arricchimento”.
STEVEN MEISEL. Il fotografo che ha fatto a Veruschka alcuni memorabili ritratti alla fine degli anni 80. “E’ l’unico da cui mi lascio fotografare volentieri ancora oggi… Ci legava una profonda armonia, Steven l’ha formulata così: ‘Veruschka è curiosa di entrare nel mondo dell’altro e di mettersi in gioco’. Questa fascinazione è reciproca”.
BIENNALE DI VENEZIA. Nella primavera del 2001 Vera è presentata dall’italiano Francesco Vezzoli alla Biennale d’Arte di Venezia come un’intsallazione vivente in un look del 1969: “Vezzoli aveva collocato una panca di un film di Luchino Visconti e lì sedevo in un abito di Valentino degli anni Sessanta… La performance prevedeva che io fingessi di ricamare il mio stesso ritratto. In alcuni momenti mi sdraiavo sulla panca e fingevo di dormire. La cosa più bella era quando i visitatori si avvicinavano constatando sbalorditi che non ero di cera, ma reale”.
11/09/2011. Vera era a Brooklyn quando ci furono gli attentati al World Trade Center: “Ero seduta nella terrazza che apparteneva al loft, quando all’improvviso si è sentito uno scoppio incredibilmente forte. I gatti sono corsi in casa, nascondendosi sotto i mobili… Delle enormi nuvole di fumo bianco venivano da Manhattan verso di noi. Ho acceso la televisione… Poi il telefono non funzionava più. Alla radio e in televisione dicevano di rifornirsi di generi alimentari, allora tutti sono corsi a comprare delle provviste… New York era dominata dalla paura e dall’incertezza. Tutto sembrava cambiato e messo in discussione… Tutti, anche io , avevano paura di possibili bombe nella metropolitana”. Un mese dopo, al MoMa viene mostrato un video della città in fiamme che Vera aveva realizzato nel 1986 a Peterskirchen e, in parallelo vengono mostrate delle foto riprese a Manhattan negli anni Ottanta con Vera sdraiata per strada e ricoperta di cenere. La mostra suscitò scalpore e irritazione nei visitatori ancora sconvolti dalle Twin Towers.
JACOB ROHWER. Il giornalista che ha scritto il libro. Si incontravano regolarmente due volte a settimana, a casa di lei, tra aprile e luglio 2010.
“Vera Lehndorff sembrava come senza tempo, naturale e priva di gravità… E’ difficile afferrare Vera. Nessuno è come lei, nessuno potrà mai essere come lei. Mille volte ha lasciato le sue tracce per poi solo sparire di nuovo. Qualsiasi cosa si veda in lei, lei lo è e non lo è. Solo in un posto possiamo sempre trovarla: nella nostra fantasia”.
Jorn Jacob Rohwer e Vera Lehndorff, VERUSCHKA La mia vita, Barbès editore 2012, pagg. 329.
BELLEZZA. “Veruschka è la donna più bella del mondo. Non esiste nessuna come lei. La bellezza è straniante per chi la possiede, lo straniamento è una sfida per la fantasia. Se Veruschka è bellissima, lo è in sé… Ogni incontro con lei è infinito, indimenticabile e unico nella vita… Sceglie le parole con cura. Parla della sua pelle come se avesse una vita propria. La sua pelle può essere stanca quando lei stessa non lo è… la sua pelle, come carta tornasole cambia in base ai sentimenti. Dei suoi capelli parla come se fossero separati da lei. Il seno lo scopre solo davanti ad alcuni e questa scelta è conseguenza d’intimità e fiducia… Il suo modo di essere bella è una sfida, bisogna essere disposti ad accoglierla ed esserne consapevoli perché altrimenti lo splendore svanisce per sempre”. (Richard Avedon).
VERA. Nasce il 14 maggio 1939 a Koenigsberg, nella Prussia orientale, da Heinrich, conte von Lehndorff-Steinort e Gottliebe, contessa von Kalnein. I primi cinque anni li trascorre nel castello di Steinort, nella lontana Masuria, ereditato dal padre: “Nel ricordo vedo quasi più nitidamente animali e piante, l’acqua e la luce che non mio padre e mia madre”. Tre sorelle: Marie –Eleonoire, Gabriele e Catharina, con le quali sente ‘una grande appartenenza’. Crebbero con le governanti: “Mia madre non aveva ricevuto né tenerezza né affetto nella sua infanzia e pertanto non poteva trasmetterli ai suoi bambini. Inoltre occuparsi di noi non l’ha mai interessata veramente. Non giocava mai con noi e poi non lo ha fatto nemmeno con i suoi nipoti, lo trovava noioso… Io riesco a immaginarmi molto bene cosa significhi essere un bambino e non necessariamente perché riesco a ricordarmi della mia infanzia, ma grazie alla fantasia”.
GIOCHI. Nel grande parco del castello di Steinort, “lo spazio per i bambini con la sabbia, il giardino con le viole dai colori vivi e con i fiori che sembravano dei volti, gli alberi che tentavo di abbracciare, Compte (un setter, che poi morì perché aveva inghiottito una lametta) e Wau-Wau, i nostri cani. Credo di aver giocato spesso nei prati davanti al castello, ma mai con delle bambole e allora mi chiedo con cosa giocassi, forse con l’erba, il muschio e gli insetti? Non lo so, lo posso solo intuire perché purtroppo affiorano in me soltanto alcune immagini frammentarie e non sono sicura se le ho sognate o se mi siano arrivate attraverso i racconti o più precisamente attraverso le fotografie” .
STEINORT. Il castello della Masuria ereditato dal padre, proprietà familiare di oltre sei secoli. Ne furono espropriati dopo la guerra e andò in malora. Nella primavera del 1993 la madre di Vera, prima di morire, creò la ‘Fondazione degli amici di Steinort’, per fare chiarezza sui possibili diritti di restituzione e per frenare la rovina del castello. Oggi se ne occupano le 4 sorelle e i figli. Nel giugno 2009 – Vera già settantenne – è stata eretta una statua in onore del padre per il centenario: “E’ stato un giorno speciale per le mie sorelle, i loro figli e per me, per la prima volta eravamo insieme a Steinort. Nel luogo che mio padre amava più di ogni cosa… Ci sono voluti 65 anni perché lui avesse una lapide a Steinort…”. Nel 2010 si sono chiuse le trattative per la restituzione delle opere d’arte . Circa 430 oggetti tra mobili, quadri, argenteria, libri, opere in porcellana, ritornano in possesso della famiglia Lehndorff che era stata espropriata dallo Stato nazista. La famiglia non vuole vendere le opere recuperate ma l’obiettivo è restaurare il castello e riportarvi le opere. Oggi Steinort si trova nella fondazione tedesca polacca per la protezione dei monumenti e della cultura. “ A Steinort ogni pietra è storia… La struttura principale si trova in una condizione di degrado preoccupante… Adesso deve essere finanziato un costoso restauro”.
ARISTOCRAZIA. “La nobiltà in sé non ha alcun valore per me. Preferisco le parentele per scelta e sento un legame speciale con gli artisti”. Vera era ‘imparentata con mezzo mondo, vecchi legami con le famiglie nobiliari d’Europa’, ma “i nobili mi facevano sentire addirittura a disagio. I balli di società per me erano esperienze terribili… Gli uomini erano convenzionali e per niente erotici, nessuno di loro aveva qualcosa di originale, di selvaggio, nessuno di loro era fuori dalle regole. Si trattava sempre solo di buone maniere, era noioso, più precisamente un tormento per me. Non ho trovato amicizie in questi ambienti ma in tutt’altri”.
GOTTLIEBE. Nata nel 1913, infanzia difficile, perse un fratello e subì la separazione dei genitori. Adolescenza ribelle in un collegio tedesco, fu poi strappata dal suo primo amore perché ebreo e per due anni fu costretta a vivere in Colombia con la madre e il patrigno, Joachim von Mellenthin. Quando finalmente ottenne di rientrare, la Germania era già sotto il regime nazista. Andò a vivere a Berlino in una casa in affitto con altre persone e faceva la segretaria.
Incontrò Heinrich per la prima volta nel 1935 a una corsa di cavalli a Koenigsberg. Lui aveva appena ereditato il castello, la corteggiò assiduamente chiedendole subito di sposarla. Lei: “Io non ero veramente innamorata o interessata. Mi piaceva la sua intensità… Avevo successo con gli uomini, cosa che non mi impressionava particolarmente. Trovavo bello soltanto sentirne il potere”.
Alla fine rimase incinta e nel 1937 la soluzione era il matrimonio, che fu organizzato velocemente. Mio padre e mia madre in quel periodo dovevano essere la coppia più bella di Berlino. Lei, però, si è ritrovata sposata, anche se fu colpita sicuramente dalla sua prima visita a Steinort. Non si sposò infelicemente, semmai inconsapevolmente: “Credo – scrive Gottliebe - di avere subito la mia vita e che assolutamente niente sia penetrato nel mio intimo… Fui vissuta da altri”.
Dopo la guerra cadde in depressione, malattia che la tormentò per tutta la vita. “Quando è stato necessario mia madre è sempre entrata in azione senza indugio… Non abbiamo mai sofferto la fame o vissuto come sfollati dai bombardamenti”. Abitò in vari posti, fino all’acquisto della ‘casa parrocchiale’ (Peterskirchen) dove passò la maggior parte della sua vita, vivendo fra artisti ed intellettuali. Nel 1984 ebbe una nuova e grave crisi depressiva. Il 16 aprile 1993 Gottliebe muore all’improvviso all’ospedale di Monaco, in seguito a una perforazione intestinale. Vera, l’ultima volta, la vede intubata. Il giorno dopo la chiamano in ospedale, la madre era già morta.
HEINRICH (detto Heini). “Lui era una persona semplice, autentica e non una persona ferita nell’anima come mia madre. Forse anche lui aveva un lato melanconico come lasciano presumere i suoi occhi in alcune foto… Niente di significativo era venuto fuori da loro, eccetto durante il periodo della comune opposizione al regime. Questo però li aveva uniti profondamente e il loro legame, per me, rimane comunque un grande amore”.
All’inizio aderente al partito nazista e nell’esercito come tenente della riserva, dal 1940 divenne oppositore del regime. Nella Resistenza dal 1941, Heinrich von Lehndorff era l’ufficiale di collegamento dell’Operazione Valchiria (organizzò l’attentato, poi fallito, ad Hitler) e fu impiccato dai nazisti il 4 settembre 1944. Sulla vita delle ragazze e della madre ha sempre pesato il fatto che Heinrich non fosse stato riconosciuto come un oppositore del regime, ma come un traditore della patria. “Se mia madre gli avesse chiesto di non entrare nella Resistenza lui forse avrebbe rinunciato, ma anche lei era convinta che fosse la scelta giusta”.
RIBBENTROP. Il quartiere generale di Hitler, Wolfsschanze, e l’Alto Comando dell’esercito tedesco, Mauerwald, si trovavano vicino alla proprietà dei Lehndorff e, nel 1942, il ministro degli Esteri Joachim von Ribbentropp fece sequestrare l’ala sinistra del castello Steinort.
Intorno ai 4 anni, Vera e la sorella Nona ricevono due pony (Anton e Lore) in regalo da Ribbentropp. Lui andava spesso al castello, era “tanto amante dei bambini biondi” . Vera: nelle occasioni della propaganda, “ci agghindavamo mettendoci dei vestitini bianchi e dei calzettoni bianchi che ci arrivavano fino alle ginocchia. I miei capelli venivano raccolti e infine ci portavano giù nel salone grande… Per noi bambine Ribbentrop era il caro e gentile zio che ci faceva dei doni”. Ma “era solamente una recita, i miei genitori simulavano fedeltà a Hitler…”.
L’ADDIO. Luglio 1944: per il 20 era previsto un nuovo attentato ad Hitler, stavolta alla Wolfsschanze, vicino al Castello di Steinort. Vera e le sorelle, con la governante Graeber furono mandate dal nonno a Graditz, vicino a Torgau. Il padre le accompagnò al treno: “Mio padre stava fuori, davanti al finestrino, tenendo il viso molto vicino al vetro. Il suo sguardo così serio mi era inconsueto. Ero come ipnotizzata dai suoi occhi, come se mi stesse assorbendo dentro di sé. Il suo volto, in quell’attimo, rimane per me indimenticabile… Poi il treno è partito e lui gli è corso ancora un po’ dietro. All’improvviso è sparito, cancellato per sempre”. Fu l’ultima volta che Vera vide suo padre.
Dopo il fallimento del secondo attentato a Hitler, Heinrich fuggì da una finestra del castello. Tre giorni dopo, la madre Gottliebe fu cacciata da Steinort, raggiunse le figlie a Graditz, dove fu poco dopo arrestata e imprigionata. La sua quarta figlia, Catharina, nacque in prigione.
“Era notte, il 25 agosto 1944, nella casa di mio nonno si è aperta la porta… Ho potuto intravedere la sagoma nera di un uomo sulla porta. Stava lì in piedi, come pietrificato, senza volto. Era inquietante. Nostra madre ci ha sollevato dal letto, c’è stato uno scambio di parole, poi siamo state messe in braccio a quell’uomo e al suo accompagnatore”.
SIPPENHAFT. Riportata in vigore da Heinrich Himmler, la Sippenhaft prevedeva che donne, bambini più grandi, nonni, fratelli e sorelle di oppositori al regime finissero in prigione o nei campi di concentramento. I bambini più piccoli venivano deportati dagli uomini della Gestapo a Bad Sachsa.
BAD SACHSA. Nello Harz, era il centro di custodia nazionalsocialista dove vennero portati tutti i bambini degli implicati nell’attentato del 20 luglio. Erano in tutto 46, fra cui Vera e due sue sorelle, suddivisi in sette casette.
“L’atmosfera di Bad Sachsa la ricordo fredda e ricordo ancora che ogni giorno qualcuno ci diceva come ci saremmo chiamate da quel momento in poi… Le foto di famiglia venivano portate via ai bambini più grandi e le targhette con i nomi venivano tolte dai vestiti… I più piccoli tra noi avrebbero dovuto essere adottati da famiglie delle SS, mentre quelli più grandi avrebbero dovuto essere condotti sulla retta via presso gli istituti di educazione nazionalpolitici, le cosiddette Napolas”.
ODIO. A Bad Sachsa Nona fu separata da Vera e Gabriele. La piccola soffriva molto e veniva maltrattata: “Le sorveglianti entravano la mattina e iniziavano a picchiare Gabriele, perché era piccola e bagnava ancora il letto. Era straziante per me… E’ stata la prima volta in cui ho provato odio, odio verso queste donne brutali. Perciò la mattina tentavo velocemente di coprire il letto bagnato con una asciugamano, ma loro lo scoprivano. Gabriele contraeva il viso, i suoi capelli fini erano tutti ritti e piangeva ininterrottamente. Dalla mattina alla sera ripeteva continuamente un’unica frase: ‘Mamma tornare, fame, paura’… Io volevo solo alleviare il dolore di mia sorella, tenerla per mano e stare sempre con lei”.
Gabriele si ammalò di tifo, come l’altra sorella Nona, e le unirono, allontanandola da Vera: “Successivamente Nona mi ha raccontato che anche durante i pasti Gabriele veniva torturata. Soffriva di una forma di disfagia e cercavano con violenza di darle da mangiare con un cucchiaio troppo grande che le spingevano in bocca a forza… Io venivo lasciata in pace perché mi comportavo bene e non mi facevo notare… Le mie sensazioni erano come congelate e per questo non posso raccontare nemmeno le paure”.
Tre giorni dopo la deportazione delle tre bambine a Bad Sachsa, la loro mamma con la neonata Catharina veniva deportata in un campo di lavoro e il padre, in prigione a Berlino, maltrattato, processato e impiccato il 4 settembre 1944.
Dicembre 1944. Le tre bambine lasciano Bad Sachsa e vengono portate dalla nonna Mellenthin, che era una Kalnein divorziata. All’inizio del 1945 l’istituto finisce sotto i bombardamenti degli alleati e, a metà aprile dello stesso anno, gli americani arrivano a Bad Sachsa. Il castello di Steinort era stato sequestrato.
Anche la mamma era stata liberata, ma Vera non ricorda il loro incontro dopo la scarcerazione e del padre dice che nessuno le disse che era morto: “Era svanito nell’aria, scomparso dalla mia coscienza, forse già a Bad Sachsa… Anche dell’orrore io, a cinque anni, non ero ancora consapevole. Bene e male erano concetti che non mi dicevano niente”.
TENEREZZA. Vera dice che dopo la morte di suo padre se ne è andata tutta la tenerezza dalla sua vita: “Mi chiamava, non so per quale motivo, Toppi. Ho amato molto mio padre. Con lui ho vissuto la sensazione della tenerezza”. Ma “la generazione dei figli della guerra non ha conosciuto la tenerezza. Mia madre ha fatto quello che poteva per noi, ma non poteva darci amore. Per anni è stata sotto choc. Paura, desolazione e solitudine erano i sentimenti che ci dominavano. Ovviamente ero ancora capace di provare della tenerezza, per mia madre, per le mie sorelle, per il mio uccellino Hansi e per Seppi, il mio cane”.
APOCALISSE. Riunitisi figlie e mamma dalla nonna Mellenthin, nel gennaio 1945, dovettero fuggire, questa volta dalle truppe russe. Partirono in treno in sette, mamma, sorelle e bambinaie. Durante il viaggio furono bombardati: “Il treno si è fermato, tutti urlavano e correvano… Ci siamo perse di vista… poi ci siamo ritrovate nel bosco… alla fine ci siamo buttate in un fosso… Una donna era fuori di sé, urlava sdraiata sotto una pelliccia di leopardo come un animale ferito. Immagini come queste a volte mi tornano in mente ancora oggi e si possono ritrovare nel mio lavoro artistico. Anche nell’Apocalisse c’è della bellezza, per quanto paradossale questo possa sembrare”.
PRIGIONI. Dopo la fuga, Gottliebe e le bambine si stabiliscono a Brema, al Fichtenhof, di proprietà dei parenti von Alvensleben. Vera si ammala di morbillo, la madre la manda a curarsi in Svizzera da una famiglia e la notte in istituto: “Poco dopo il mio arrivo sono crollata in un pianto disperato che è durato per ore… Deve essere stato così doloroso che la mia madre adottiva svizzera avvisò mia madre e mi tenne con sé anche la notte… Ero circondata da persone amorevoli… Per il resto della mia vita è rimasta però la paura degli istituti, degli ospedali, delle autorità… Catharina e Gabriele furono mandate in un istituto dove addirittura venivano maltrattate. Quando facevano una cosa sbagliata le educatrici le trascinavano per le scale afferrandole per i capelli… Meglio stare in un angolo in un luogo spoglio ma insieme alla mamma, che essere soli nella lontananza… Essere parte di un grande gruppo di bambini è stato insopportabile per me, addirittura ne avevo paura.. I bambini urlavano, erano cattivi e si picchiavano tra loro”.
NOTTE. “Il desiderio di non esistere più l’indomani lo conoscevo già da bambina. Amavo la notte. Di notte nel letto avevo finalmente pace e silenzio. Spesso, le prime ore della notte rimanevo sveglia nel letto per godermele come una sospensione. La mattina presto iniziava di nuovo la paura…”
FICHTENHOF. “Amavo tutto ciò che faceva parte del Fichtenhof, tutti i sassi, le erbe, gli alberi e i fiori e io giocavo con queste cose e non con i giocattoli né con gli altri bambini… Per me è stato il periodo più bello dell’infanzia”. La vasta tenuta, dopo la seconda guerra mondiale, era diventata per molte famiglie vicine agli Alvensleben, un punto di passaggio per poi ripartire. Anna Alexandra (Lexi) riuscì a salvare, oltre al padre e altri detenuti, una schiera di profughi accogliendoli al Fichtenhof, che poi finì sotto la protezione degli alleati (“Erano gentili con noi, come prima lo era stato Ribbentropp”). Vera vi tornò dopo l’esperienza traumatica della Svizzera e vi visse dai 5 ai 9 anni.
Nell’estate del 1948, dopo che Lexi von Alvensleben si era innamorata di un soldato americano e aveva lasciato il paese, il Fichtenhof fu venduto.
GOVERNANTI. “Le abbiamo sempre avute anche quando mia madre non poteva avere niente altro”. La signorina Graeber ha sempre seguito le bambine, dal castello di Steinort, “non era semplicemente la nostra educatrice, lei si occupava di tutto… Quando è stato necessario mia madre è sempre entrata in azione senza indugio… Non abbiamo mai sofferto la fame o vissuto come sfollati dai bombardamenti e le bambinaie si sono sempre prese cura di noi. Ovviamente mia madre è stata appoggiata dalle persone del suo ambiente, a eccezione degli aristocratici dell’Ovest come i Bismarck che, pur non avendo perso i loro beni non volevano avere niente a che fare con noi… Mia madre è stata evitata perché suo marito era considerato un traditore”.
SCUOLA. Fu il tormento di Vera. Cominciò in un paese vicino al Fichtenhof: “Ero molto contenta di andare a scuola ma questa sensazione passò velocemente. Ero mancina ma la maestra mi vietò di scrivere con la mano sinistra. Non ero solamente delusa, il conflitto destra-sinistra è diventato la causa di tutti i miei insormontabili problemi scolastici”. Vera si sentiva “come se fossi nata con una paralisi alla testa. Da lì in poi non ho capito più nulla… A causa del mio panico mi rifiutai di continuare ad andare a scuola… Oggi dipingo sia con la sinistra che con la destra, mangio con la sinistra e scrivo unicamente con la mano destra”. Fingeva malattie, le fu diagnosticata una meningite e fu portata all’ospedale: “Anche quando mi hanno bucato il midollo spinale l’ho sopportato pazientemente. I dolori erano più tollerabili dei giorni di scuola”. Tornata a scuola fu messa in un nuovo istituto, stessa tortura. Scrive una lettera disperata alla madre che va a prenderla per portarla a Brema. Anche qui terrore per la nuova scuola: “Mi svegliavo alle quattro del mattino e iniziavo a contare le ore”. Un giorno, la maestra: “In questa classe si trova la figlia di un assassino… Eccoti, sei tu. Choc tremendo… Quando ho raccontato a mia madre l’accaduto ha detto: ‘E’ del tutto diverso. Tuo padre è un eroe, ma questa è una storia lunga che potrò raccontarti solo quando sarai più grande’”. Non le fece più mettere piede in quella scuola. Vera cambia scuola per la terza volta e viene iscritta a una scuola steineriana. Una scuola libera, che le piaceva, ma era sempre a disagio.. E, ancora, quarta scuola a Paderborn, un collegio steineriano. Nei fine settimana andava a Lohe dove si era trasferita la mamma. Infine, il collegio cattolico, dopo la conversione.
BREMA. Dopo il Fictenhof, Goettliebe si trasferì a Brema con le bambine, una piccola casa dove Vera divideva la stanza con le sorelline e la mamma dormiva nel salotto. Per la prima volta Gottliebe poteva contare solo su se stessa e cominciano le depressioni più serie: “Non si faceva quasi più vedere, ogni tanto andavamo nella sua stanza e la trovavamo sdraiata completamente assente, con gli occhi disperatamente sgranati. Stava semplicemente distesa girandosi i capelli che in alcuni punti erano diventati molto fragili. Di solito la nostra nuova bambinaia ci portava via subito”.
URSULA. Tra le poche che andavano a Brema a trovare Gottliebe c’era Ursula contessa Plettenberg, ebrea conosciuta a Berlino. Rifugiatasi ad Amsterdam, qui conobbe e sposò Franziskus conte Plettenberg. Ebbero 4 figli e si trasferirono a Lohe (Vestfalia) dove convinsero anche Gottliebe a raggiungerli nell’estate ’51. Si sistemarono in una stalla ristrutturata in mezzo alla campagna: “La depressione l’ho portata con me, ma sono stata molto alleggerita da Ursel che, nel frattempo, si prendeva cura delle mie bambine” (Gottliebe). Vera: “A Ursel io piacevo e anche lei mi piaceva perché mi dava lezioni di danza classica… Allora il mio desiderio più grande era quello di diventare una ballerina, ma ero troppo alta per la danza classica”.
A Lohe, per la prima volta Gottliebe lesse alle bambine una lettera del padre, ma non è riuscita a terminare: “E’ stato un pomeriggio triste pieno di lacrime e di abbandono, ma dopo è di nuovo calato il silenzio”.
LA CONVERSIONE. Nel 1953 Gottliebe si converte al cattolicesimo seguendo le ultime volontà del marito e sperando di uscire dalla depressione. Anche le bambine la seguirono e Vera fu mandata a Lippstadt in una scuola conventuale diretta dalle suore: “Non mi sono opposta perché il cattolicesimo mi sembrava interessante, incenso, musica, canto, rituali e addirittura miracoli… Il trasferimento alla scuola delle suore per me ha significato che da quel momento potevo vivere a casa anche se ogni giorno dovevo spostarmi con la bicicletta e il treno”. Nona fu l’unica a rifiutare la conversione.
MOSTRO. Vera da adolescente: un metro e ottantatré e 45 di piede: “Mi ritenevo un mostro da quando mio padre mi aveva vista brutta appena nata. Braccia, gambe, mani e piedi, tutto era sproporzionato, un unico disastro. Inoltre avevo una spina al posto del naso e una bocca esageratamente grande. I vestiti non li sceglievo da sola, portavo quello che mi dava mia madre. Una gonna a pieghe qualsiasi insieme a una blusa e un pullover… Non avevo ancora un’idea del mio aspetto ma desideravo solamente cambiarlo…”. Eppure, “Il mio aspetto esteriore era la cosa più importante per me”. Enorme il problema delle scarpe, “finché non ho scoperto delle scarpe da ballo da uomo che mi stavano. E’ stata una scoperta incoraggiante”.
ALLUCI. Un ortopedico disse a Vera che avrebbe potuto accorciare gli alluci di un centimetro e lei, nonostante il parere contrario di tutti, si sottopose a un rischioso intervento chirurgico che le provocò dolori atroci e sei mesi di immobilità, ma lei non se ne pentì mai: “Se mi fotografavano scalza stavo attenta a mettere i piedi nella posizione giusta. Spesso ho ricevuto delle lettere e anche delle telefonate dai feticisti dei piedi che, vedendo i miei, erano andati totalmente fuori di testa”.
AMBURGO. Nel 1953 ulteriore trasferimento a Volksdorf, periferia di Amburgo, nella villa di proprietà della nonna Mellenthin, vi si trasferirono anche i Plettenberg. Vera lascia l’ultima scuola superiore tecnica e decide di non uscire più di casa. Riceve qui lezioni private da un insegnante “molto bello”, con il quale ebbe il primo contatto fisico, fatto solo di baci peraltro. Quando si seppe, la famiglia non ha più permesso che si vedessero.
Gottliebe ha una relazione con Franziskus, Ursel le fa la guerra mettendole contro tutti i figli. Alla fine la villa viene venduta, Vera e la famiglia nel 1954 si trasferiscono nel centro di Amburgo, “mia madre era nuovamente nelle condizioni che avevo visto a Brema, molto turbata e assente… I Plettenberg e i loro figli non li abbiamo più visti”.
Ad Amburgo Vera supera l’esame per entrare alla scuola di moda, l’istituto professionale per le arti applicate. E’ la svolta: “Ho imparato ad osservare” e si innamora della pittura. Per questo sceglie la specializzazione in design di tessuti, nonostante avesse già fatto le prime foto di moda per ‘Die Hamburger Kinderstube’, una delle più antiche case di moda per bambini in Germania. Ma, “le mie idee per i motivi dei tessuti si esaurirono velocemente e nuovamente tutto tornò ad essere una costrizione”.
EROS. “L’erotismo l’ho conosciuto solo negli anni Sessanta in Italia a più di venti anni”. Ma, durante il suo primo viaggio all’estero, a Londra da amici della madre, Vera sente che l’incubo dell’infanzia, il vedersi brutta, stava svanendo: “Scoprivo il nuovo interesse di mettermi alla prova nella capacità di attirare gli sguardi su di me. Cercavo una persona che mi piacesse, non importava se uomo o donna… Il mio gioco consisteva nel tentativo, attraverso una specie di linguaggio del corpo, guardando e muovendomi, di attirare l’attenzione degli altri su di me. Gli altri potevano lanciarmi uno sguardo, io però potevo osservarlo solamente quando non se ne accorgevano… Il mio esperimento londinese è stato un’esperienza fondamentale che, nella mia vita futura, ha giocato sempre un ruolo importante, perché adesso sapevo che potevo piacere”.
MATRIMONIO. “Quando Nona si è sposata (autunno 1957, a 20 anni , con Jan van Haeften, figlio di Hans, un oppositore al regime, ndr) ero molto avvilita, perché sapevo che lei se ne stava andando verso una vita nuova, una vita familiare e sociale per la quale io non sarei mai stata adatta… Per me il matrimonio rappresentava l’addio all’infanzia”. E nel 1973, in un’intervista: “Non vedo un senso nel matrimonio. Cosa cambierebbe se fossi sposata? Solamente il mio nome”.
PRIME FOTO. I primi provini Vera li fece con la fotografa Charlotte March con cui la mise in contatto l’amica Annali von Alvensleben. “Poi con il fotografo F.C. Grundlach, “ma le fotografie di prova ebbero così poca approvazione presso i suoi clienti che lui distrusse il materiale”. La March in seguito la ingaggiò per delle riprese fotografiche per l’estate e i costumi da bagno: “Tutto mi risultava molto facile, era come se questa nuova strada la conoscessi da tanto. Mi è piaciuto subito sentire la luce su di me. Allora si lavorava meno con i flash e più con i riflettori”. Il 21 gennaio 1959, a 19 anni, Vera ebbe la sua prima immagine di copertina sulla rivista ‘Constanze’, sempre con Charlotte March.
FIRENZE. Nel 1958 una compagna di scuola di Vera, Joy, ottiene una borsa di studio per un viaggio in Italia. Lei la raggiunge: “Ero così infelice nel disegnare bozzetti di motivi per tessuti che volevo solamente andare via dalla scuola e dalla mia vecchia vita”. A Firenze “ero estasiata e felicissima. E poi tante persone mi venivano incontro ammirandomi”. Una sera a un ristorante incontra Giuseppe di cui si innamora e “visto che lui non parlava inglese io ho imparato l’italiano. Ogni settimana Giuseppe veniva da Venezia a Firenze per seguire i suoi studi di pianoforte… aveva un appartamento in piazza della Signoria con vista sul David di Michelangelo, che condivideva con uno studente americano. A Venezia aveva una fidanzata, volevano sposarsi presto e questo mi rendeva triste. Quando non ero con lui andavo per le strade della città raccogliendo impressioni per i miei acquerelli che poi a casa dipingevo”.
“Se in quel momento non avessi tentato il viaggio a Firenze non avrei mai trovato la mia strada. Firenze in quel momento ha cambiato tutto per me, le mie idee sul mondo, sulle persone e sulla vita”.
Vera torna a Firenze nel ’59, si lascia con Giuseppe, ma ha per strada un incontro decisivo con Ugo Mulas che le chiese se poteva fotografarla. Lei accettò ed entrò nel mondo della moda. Mulas le presentò la top model francese Denise Serrault e una giovane atelier, Gabriella Giusti: Gabi, origini russe ma marito italiano, viveva sopra San Miniato, ospitò a casa sua Vera. Lei spesso rimaneva sola e scendeva in città, “ma quei giorni di oscurità e di inerzia non mi fecero bene… Ero triste, dimagrivo velocemente e non volevo vedere nessuno. Non riuscivo più a decidere come andare avanti. Non volevo tornare in Germania ma anche a Firenze mi sentivo persa”. Andò a Vienna da Nona dove la raggiunse la madre e poi, insieme, tornarono ad Amburgo.
DEPRESSIONE. Gottliebe ne soffriva da sempre, anche Vera al ritorno da Vienna, cadde nella depressione, “entrambe ci trovavamo spesso sedute in silenzio. Lavavo ininterrottamente e senza alcun senso dei maglioni in acqua troppo calda, e quando li tiravo fuori dalla lavatrice erano completamente infeltriti e ritirati”. Alla fine Gottliebe fu ricoverata in una clinica e Vera si rivolse a un neurologo che la approcciò in malo modo. Nella primavera del ’60, a Bad Tolz in Baviera dove visse in una pensione, conobbe Margarete Mhe, terapeuta per la voce e la respirazione, ex allieva di Jung: “Mi consigliò di concentrarmi su me stessa e i miei sogni, di dipingerli o altrimenti di passeggiare… Ci vedevamo ogni giorno. Grazie alla sua terapia, con il tempo ho imparato a respirare profondamente e con calma in ogni zona del mio corpo… Dopo sei o otto settimane ho dipinto il mio primo quadro”.
Vera decise di andare a una festa da ballo per il Carnevale a Monaco: “Mi truccai e indossai una tuta da ballerina blu. In testa invece mi misi uno strofinaccio filamentoso e dipinto di blu che avevo acquistato in un negozio di casalinghi. Il mio abbigliamento ebbe un grande successo. E questa trasformazione mi aiutò a catapultarmi oltre la mia desolata situazione psichica”.
MARGARETE MHE. “L’anziana signora era piccola e tonda come una palla e i suoi capelli bianchi e crespi andavano in modo selvaggio in tutte le direzioni. A passettini, i piedi leggermente girati verso l’esterno, camminava faticosamente verso la sua piccola e accogliente casa in legno, che si trovava nel giardino di una fattoria. Quando le si raccontava qualcosa, lei sedeva come un Buddha e diceva: ‘Davvero…? Ah! Sì? Oh, che cosa interessante!’. Contemporaneamente si strusciava le mani sulle ginocchia e i suoi occhi piccoli, blu e svegli si guardavano vivacemente attorno…”
Margarete convinse Vera ad andare in Francia e in Italia per fare la modella. Divenne amica anche di Gottliebe, che decise di trasferirsi a Monaco con Catharine. Gabriele frequentava una scuola di economia e viveva dal nonno Lehendorff a Rottgen.
MONACO. Dal maggio 1960 Vera si trasferisce a Monaco, in una stanza prima e poi con la madre. “Nella mia camera avevo dipinto dei fiori sulle finestre, così potevo rinunciare alle tende, da me tanto odiate”. La vicina, una ballerina di burlesque, le regala un cane, Jetty.
A Monaco c’è anche un nuovo amore, “un piccolo play boy che guidava una macchina veloce e che era continuamente ospite di casa in casa. Del tutto superficiale”. Vita da locali: “Andavo volentieri in questi locali, anche da sola, a ballare per delle ore come in trance e andare fuori di testa, vestita in maniera totalmente pazza”.
Professionalmente, “ancora non avevo una meta… Ho progettato dei vestiti per una trasmissione televisiva, cercando di trovare un’occupazione in questo campo ma non mi hanno presa… Volevo rappresentare me stessa. Da questo punto di vista la moda era la migliore possibilità”. E ad aprile 1961 si trasferisce a Parigi.
HELMUT NEWTON. Vera gli fu presentata a Parigi, lo incontra per incarico di ‘Vogue’ e lui la fotografa davanti a dei teli di seta. Lei seppe dopo, dalla moglie di Helmut, che gli era piaciuta. Qualche tempo dopo lui le procura un lavoro per pubblicizzare una lacca per capelli: “Ero così orgogliosa di guadagnare finalmente dei soldi veri e non solamente il ridicolo onorario di Vogue…”. Ma un incidente – la bomboletta spray nel verso sbagliato e se la spruzza negli occhi - e “tutto era andato, il make-up si era sciolto e il mio occhio era rosso acceso. Helmut era indignato e arrabbiato… Ha chiamato l’agenzia dicendo: ‘Questa è troppo scema, semplicemente scema! Mandatemi un’altra!’… E’ stato uno choc”.
ROGER VADIM. Vera va a Saint-Tropez con Denise Serrault, modella bellissima che aveva conosciuto a Firenze e ritrovato a Parigi. Denise le aveva parlato di Roger Vadim dicendole che avrebbero potuto stare molto bene insieme. Lo conobbe a una festa: “E’ arrivato da solo e si è messo subito accanto a me. La sua voce mi ha sedotto e tutto quello che mi diceva aveva un suono così poetico. Mi piaceva il suo modo sinuoso di muoversi come un gatto. Fino ad allora non avevo mai provato una così forte e immediata attrazione… Decisi di ubriacarmi per perdere le mie inibizioni. Ma non essendo abituata a bere mi ubriacai subito rovesciando un bicchiere, cosa molto imbarazzante davanti a lui”. Dopo il pranzo lui la prese e la portò in una pineta vicina: “…Non poteva essere più erotico. Eravamo sdraiati sul morbido terreno e lui mi sussurrava delle cose affettuose nell’orecchio con la sua meravigliosa voce soave…”. Finita la festa si salutarono: “L’ho sognato spesso e per molto tempo non sono riuscita a togliermelo dalla testa. Dovevano passare anni prima che ci incontrassimo di nuovo. Ancora oggi posso sentire bene le mie emozioni di allora, perché uomini come Roger Vadim si trovano raramente. Eravamo attratti l’uno dall’altra, ma non dovevano essere più di alcuni momenti romantici quelli che abbiamo trascorso insieme”.
NEW YORK. Il 18 settembre 1961 per la prima volta Vera arriva a New York (“città folle e illuminante”), con un unico numero di telefono (procuratole dall’amica Dorian), quello dell’agenzia di Eileen Ford, la più potente agente di modelle newyorkesi. “A New York tutto era diverso rispetto all’Europa e gli americani avevano anche un altro ideale di bellezza”. Oltre alla Ford, Vera entra in contatto con il fotografo Melvin Sokolsky ma, non essendo riuscita ad ottenere il visto, poco dopo riparte per l’Europa. Torna a New York alla fine del ’62. Nuova crisi depressiva, più grave, con due ricoveri in Germania. Alla fine del ’64 ancora a New York, lavora con l’agenzia Stone Models ed è il lancio definitivo: “New York è semplicemente divina, non esiste altra città nella quale preferirei stare… E’ sorprendente come dopo un anno di sofferenze in cui ho solo fervidamente desiderato di morire riesca invece a tirare fuori delle forze creative e più generalmente una così grande gioia da permettermi di riuscire di nuovo a vivere”. A 25 anni lavorava come “un operaio addetto ai lavori pesanti”.
Viaggiando in tutto il mondo, per Veruschka New York resta comunque il suo punto di riferimento per tutti gli anni 60, da lei trascorsi nella redazione di ‘Vogue’.
Ma a New York Vera ci tornerà sempre, nonostante “New York sia l’ultimo posto in cui si vorrebbe essere quando si sta male”, scrive nel 1989.
ANNI SESSANTA. “Gli anni Sessanta erano pranzi al Club Colony con Jackie Kennedy e sua sorella Lee, Truman Capote, che vegetava in una stanza sul retro prendendo nota dei gossip, Andy Warhol con Candy Darling, Twiggie con un body guard e un manager… Tutti puzzavano di biancheria sporca e marijuana… Erano Gogo-Boots, minigonne e psichedelia. Facepainting, Veruschka e Spaceage-Fashion. Erano modelle troppo fatte per poter stare in piedi e modelle che rubavano le pellicce…”. (Grace Mirabella). E Veruschka: “Di tutto questo mi sono accorta poco: anche se a volte andavo vestita in maniera eccentrica alle stesse feste in cui andavano anche Warhol e altri artisti famosi, non sono mai stata una selvaggia party girl”.
CROLLI. “C’erano delle modelle che stavano male, che subivano dei crolli nervosi. Un naturopata una volta mi ha messo in guardia… Donyale Luna, la prima modella di colore, si è suicidata, Wilhelmina è morta giovane per un cancro ai polmoni, l’americana Gia Caragni è morta per la droga e anche Margaux Hemingway, alcolizzata, è morta tragicamente per un’overdose di sonniferi”. Tuttavia, “negli anni Sessanta e Settanta questa isteria per le modelle non esisteva ancora, ma oggi ogni ragazza dovrebbe capire che non deve concentrarsi esclusivamente su questa professione… La mia salvezza è stata occuparmi di arte”.
GERMANIA. I giornali tedeschi parlano di lei, ma Vera è infastidita: “Penso solamente con orrore alla Germania. Mi prende un senso di nausea. Vedo una mentalità grigia, piccolo-borghese, nessun fascino, niente sesso, nessuna bellezza, solamente persone importanti… Se solo sapessero come si parla di loro qui (A New York)… La Germania dovrebbe capire una volta per tutte, che nella politica mondiale non ha da dire più niente di importante”.
ITALIA. “In Italia ho fatto l’esperienza della visione sensuale del mondo. Lì ho finalmente conosciuto il lato meraviglioso della vita. La luce, i colori, i paesaggi, i suoi alberi, i cipressi come degli ombrelli chiusi e i pini come degli ombrelli aperti. Io amo i cipressi da quando li ho scoperti nei quadri di Leonardo da Vinci e in quelli di altri capolavori della pittura italiana… Le persone che ho incontrato in Italia sono state anche le più importanti”: Franco Rubartelli, cinque anni di amore e convivenza. Anna Maria Papi, la ‘contessa rossa’, scrittrice e giornalista, con il suo clan di Firenze. Nel suo Palazzo Capponi erano spesso invitati Vera e Holger Trulzsch, l’altro grande amore e lì fecero una mostra di Body Art, conobbero l’ambiente della sinistra e appoggiarono l’anarchico Valpreda. Le sorelle Morricone Alba e Francesca: avevano il negozio di parrucchiere più famoso di Roma, in via Condotti, “in tutti i fotoshoots a Roma io volevo solamente Alba”. Il fotografo Gian Paolo Barbieri: nel 1975 Vera interpreta un’esotica circense e con Barbieri creano “uno dei servizi di moda più divertenti della storia di ‘Vogue’. Ero tra le braccia di King Kong sotto la zampa di un elefante e avvolta da un serpente. Sulla mia pelle nuda portavo solamente uno straccio di bikini”. Chiarella Frescobaldi: per due mesi Vera e Holger vissero nel suo palazzo, mentre a Prato lavoravano a un progetto di Body Art con gli stracci del riciclaggio dei tessuti.
BRASILE. Vera va nel 1965 a Rio de Janeiro con il fotografo Henry Clarke: “E il mio narcisismo sbocciò, dal momento che tutti mi trovavano così bella”. Ma come in India fu colpita dalla miseria: “In verità questi viaggi di moda erano sempre una cosa abbastanza reazionaria. Si andava in giro con delle valigie sproporzionate… si abitava in alberghi di lusso, mentre fuori regnava la miseria”.
VEGGENTI. Vera ci andò tre o quattro volte, ma la prima, a New York è quella che la colpì: “La donna sedeva nel guardaroba tra tanti mantelli, una donna piccola, un po’ storpia e piuttosto brutta. Non parlava di passato o futuro, cercava di cogliere la mia personalità. Quando sono entrata mi ha detto: ‘Lei è veramente speciale, nessuno è come lei… Ha il numero 5 che è il numero dei geni… Poi ha predetto che avrei ballato molto,… che sposarsi non sarebbe stato così importante…”
EILEEN FORD. Freddezza al primo incontro con Veruschka. Le chiede due cose: tingere i capelli più scuri e ingrassare. Ma, in seguito, Vera scrive alla madre: “Eileen è molto gentile con me. Una sera mi ha invitato a cena . E’ faticosa in maniera indescrivibile perché parla troppo”. Alla fine, però: “Eileen era una persona falsa… A chi prendeva appuntamenti diceva: ‘Venerdì buttate fuori Vera, quella tedesca alta non la vogliamo più’…”. Ma, grazie a una collaboratrice restò lì per ancora un po’. “Avevo capito che Eileen Ford semplicemente non mi voleva, ma non aveva il coraggio di dirmelo in faccia. Ha continuato a mandarmi a dei provini, ma non mi ha procurato il visto”.
UOMINI. Gualtiero Jacopetti, regista italiano conosciuto a Roma, “aveva qualcosa di molto melanconico, capelli neri, occhi chiari e sguardo triste. Di continuo mi parlava della sua storia d’amore con l’attrice inglese Belinda Lee, morta in un incidente stradale nel 1961… Ci siamo visti diverse volta ma la storia non è andata oltre la mia immaginazione”.
Warren Beatty: “Era intelligente, estremamente affascinante e un vero dongiovanni. Ci siamo visti qualche volta , ma non c’è stato più di un flirt”.
William Rothlein. Lo conobbe nel ’65, una relazione di pochi mesi, ma lui le fece conoscere Salvador Dalì, da cui William non si staccò più, veniva mantenuto dall’artista che credeva fosse la sua reincarnazione, tanto che lo chiamava Adil, anagrammando il suo nome, Adil. Quando Adil ha smesso di fare ciò che voleva lui, Dalì lo piantò in asso.
Massimiliano Patrini. Milanese, gestiva un’agenzia di moda. Vera se ne innamorò mentre girava il suo film con Rubartelli. Lo conobbe a Milano: “E’ stata un’intensa storia d’amore. Aveva una moto con la quale durante i fine settimana andavamo in campagna. Lì poi andavamo a cavallo e dormivamo in piccoli alberghi, ed eravamo continuamente fuori di testa… E’ stato un periodo breve, intenso… Purtroppo poi è passato alle droghe pesanti…”
CONTATTO. “Creavo un contatto con il fotografo attraverso la macchina fotografica. Un rapporto professionale del genere può essere molto sensuale, ma in questo non ho mai fatto confusione… A me non è mai successo e in verità è un peccato. Quando si spengono i riflettori rimane una miscela di quello che si era creato di fronte alla macchina fotografica”.
CINEMA. A Parigi Vera conosce il critico cinematografico Jean Domarchi: “Non era un uomo bello, era un intellettuale con gli occhiali spessi e leggermente eccentrico, ma riusciva a leggere Nietzsche in originale, anche se non parlava una parola in tedesco”. Domarchi scrisse una lettera ad Elia Kazan per Vera, Kazan le presentò Warren Beatty. Poi la contattò Billy Wilder, che aveva visto una sua foto su ‘Look Magazine’. Era appena morta la Monroe e cercava una che la sostituisse nel film che voleva girare con lei, “ma il mio accento tedesco ha posto velocemente fine a tutto”.
Del resto, “non si ottiene un ruolo come attrice solamente perché si conoscono alcune personalità dell’industria del cinema”.
Dopo aver visto ‘Deserto rosso’, Vera volle lavorare con Michelangelo Antonioni: “Faceva dei film psicologici e questo lo trovavo affascinante. Esprimeva quello che io spesso ho provato e osservato, ossia che le persone, anche se parlano tra loro, in realtà non hanno rapporti”. Lo conobbe a Londra, lui assisteva alla seduta fotografica con David Montgomery, pochi giorni dopo, a New York, Antonioni le fece sapere che l’avrebbe voluta per ‘Blow up’. Era l’aprile 1966 e Vera fu ‘molto, molto felice, nonostante il compagno Rubartelli si opponesse: “Mi dà molta gioia Antonioni… Era esattamente come i suoi film, taciturno, strano, melanconico e misterioso. Ci intendevamo senza bisogno di parole. Sembrava convinto che io, per il ruolo della modella, fossi l’unica giusta… Era lento, meticoloso e profondo. Per una delle mie scene rimasi lì in attesa per giorni… Una volta non si tennero le riprese per mezza giornata perché il grigio di una casa al bordo della scena non corrispondeva alle sue esigenze. Allora imbiancarono di nuovo l’edificio. Era posseduto dalla sua estetica e si prendeva il suo tempo. Ovviamente questo faceva impazzire i produttori”. Vera rivide Antonioni solo un’altra volta, a Roma, in estate, per una cena con altri amici in piazza Navona.
“Fino ad allora avevo un nome solamente nel mondo della moda. Adesso venivo ricoperta di offerte e avrei potuto iniziare una nuova carriera. Ma non se ne fece di niente e questo anche a causa della gelosia di Rubartelli… Ma io non ero capace di affrontare questo clamore e in fondo non mi sentivo ancora matura come attrice. Forse allora mi andava anche bene che Rubartelli non mi lasciasse andare… Io sono diventata famosa ma mai ricca”.
Con Rubartelli alla sua prima regia Vera girò anche il film a lei dedicato, ‘Veruschka’, di cui ideò i costumi e collaborò alla sceneggiatura. Doveva essere un documentario sul suo lavoro, ma diventò poi un film sulla vita di Vera. Per questo lei fondò una propria società di produzione, investendo un patrimonio. La colonna sonora la fece Ennio Morricone. Nella primavera del 1971 ci fu l’anteprima a Roma, il film fu stroncato dalla critica e rovinò finanziariamente sia Vera che Rubartelli.
All’inizio degli anni Settanta Vera iniziò a girare ‘Salomè’ con Carmelo Bene: “Dopo i primi giorni di riprese Carmelo mi ha annunciato che sarebbe riuscito a lavorare con me solamente se durante la lavorazione avessimo convissuto per davvero. Dal momento che questa cosa non si è realizzata, io sono partita e la meravigliosa Donyale Luna ha preso il mio ruolo. Da Carmelo ho imparato a trattare più liberamente e con più senso dell’umorismo i giornalisti”.
Una sera a Parigi flirta anche con Dustin Hoffmann che amava le donne alte.
Nel 1976 recita nel film di Francois Weyergans ‘Couleur chair’, storia di persone sole che si incontrano in un night club, c’era anche Bianca Jagger, moglie di Mick. Un altro disastro commerciale.
Nel 1979 un altro tentativo: in Grecia gira ‘Milo-Milo’ di Nikos Perakis, con Mario Adorf, Andrèa Ferréol ecc, un altro flop.
VERUSCHKA. ‘Piccola Vera’ in russo. Tornata a New York nel ‘64, Vera si vuole costruire un personaggio tutto nuovo. “Ho trovato tutto questo eccitante, come un’opera teatrale che avevo scritto e che adesso era il momento di portare in scena… Ho pensato a come si sarebbe vestito, mosso e articolato il mio personaggio. Decisi di farlo apparire totalmente in nero nella copia a poco prezzo di un mantello di Givenchy che avevo trovato nei grandi magazzini Macy, con un cappello di feltro nero e con degli stivali neri e morbidi di camoscio con i quali mi muovevo al rallentatore per le strade di New York per arrivare agli studi fotografici. E ovviamente ero di nuovo bionda. Avevo capito che se volevo emergere dalla massa delle modelle dovevo rendermi indimenticabile… Veruschka era una donna che si presentava come se avesse molto tempo a disposizione e che non dipendeva dalle offerte di lavoro”.
SPOT. “Agli spot pubblicitari ho preso parte di rado perché non trovavo un senso nel dire solo poche frasi dovendo unicamente apparire bella”. Fra questi, la crema Oil of Olaz.
IRVING PENN. “Qualsiasi cosa io le dica, lei non deve dire niente, né sì né no. Per favore faccia solo quello che io le chiedo, e dimentichi tutto quello che finora ha imparato in Europa, tutte quelle piccole pose. Se poggia la mano sui fianchi, per favore lo faccia senza fronzoli. Voglio solo movimenti ben definiti, mai leziosi”. (Il fotografo americano Irving Penn al primo incontro con Vera a ‘Vogue’. New York, primi anni 60). Lei, il giorno dopo: “Il ghiaccio tra di noi si era rotto perché avevo obbedito a tutte le sue disposizioni pazientemente e in silenzio. Da allora fu sempre molto gentile con me… Da lui imparai molto sulla luce, sulle posizioni della testa e del corpo e sulle espressioni del volto. Quando era di buon umore diceva: ‘Veruschka, lei è una capellona di Park Avenue’. Aveva compreso che ero un miscuglio strano tra elegante e selvaggio. Presto andai in giro vestendomi solo con la calzamaglia da ballerina e cinture larghe con gonne corte”.
Ancora lei: “Mi ricordava il pittore Fernand Léger, entrambi avevano qualcosa di un camionista intellettuale… Era riservato e cauto, impressionante la sua conoscenza delle tecniche di stampa… Il maestro indiscusso, un perfezionista assoluto con uno stile inconfondibile e con una forte autorità”. Con Irving Penn Vera iniziò stabilmente la collaborazione con ‘Vogue’.
Dagli anni Sessanta Vera non ebbe più contatti con Penn. Ma nel 2008 lei da Berlino lo ricontatta e gli chiede di farle un ritratto. Lui accetta, lei torna a New York. “Penn ha voluto il mio viso con delle macchie nere, e le voleva fare lui stesso… Mi ha fatto un regalo d’addio meraviglioso. Un anno dopo è morto”.
BERT STERN. Il fotografo più in voga di New York in quegli anni. Vera lo conosce nel dicembre ’62, lui aveva scattato le ultime foto a Marilyn Monroe. “Lo trovavo molto attraente ed era sempre molto eccitante lavorare con lui, l’aria era carica di erotismo. Ma non è mai successo quello che io desideravo, non si è mai fermato una volta per intrattenersi con me… Come la maggior parte dei fotografi, fotografava con la musica. Lavorava volentieri di notte e questo mi piaceva ancora di più… Forse con Bert Stern ho avuto il contatto più forte con un uomo senza esserci mai sfiorati”. Durante il periodo della depressione Vera lo rappresenta nei disegni sui suoi sogni: “Sono molto felice che l’inconscio mostri che lavoriamo di nuovo insieme”.
SOLDI. Nell’inverno ‘62/63, con l’agenzia Plaza Five di New York Veruschka guadagnava 60 dollari l’ora con le foto di moda. ‘Vogue’ pagava 12 dollari l’ora. Ma ancora nel ’62 Vera scriveva alla madre se poteva mandarle soldi per l’alto costo della vita a New York. Poi non ne ebbe più bisogno. Un conto in banca? “Non mi viene in mente una banca specifica ma avevo sicuramente un conto in una banca newyorkese. In ogni caso, all’improvviso mi ritrovavo sempre con abbastanza denaro nelle tasche da sentirmi indipendente”.
All’inizio del 1967 ‘Die Welt’ le attribuisce un compenso di 240 marchi l’ora. Nel 1972, a 33 anni, era la fotomodella più pagata al mondo.
“Veruschka, la supermodella di tutti i tempi che non solamente può pretendere 8.000 sterline per due giorni di lavoro nella pubblicità, ma che li guadagna anche, ha ornato milioni di pagine delle riviste più illustri” (Eve Pollard su ‘Sunday Mirror’, febbraio 1973). Lei: “Non faccio affatto tutto per i soldi. Faccio volentieri anche cose che non sono pagate con cachet così alti… Spendo i miei soldi in macchine fotografiche e viaggi, non per vestiti cari o pezzi di antiquariato”. La Pollard: E come riesce a curare questo corpo che ha il valore di 7 sterline al chilo per ogni ora di lavoro? “Non faccio niente di insolito, non faccio una dieta… Curo anche il mio viso, ma senza troppa dedizione. Non ho molto tempo per questo”.
DEPRESSIONE 2. “Appena arrivata al successo mi inabissavo ancora una volta, urtavo e finivo nel nulla”. A New York, “dalla mattina alla sera mi vestivo e svestivo e venivo fotografata per innumerevoli volte. Il mio lavoro mi portava lentamente verso lo smarrimento e mi sentivo sempre più come un involucro senza sentimenti… Tutto appare soffocante e si perde il rapporto con la realtà. In queste condizioni mi restava solamente una nuova fuga e quindi tornare in Germania da mia madre”. Qui Vera fu ricoverata la prima volta in una clinica psichiatrica per una cura del sonno, “ma al mio risveglio i pensieri erano ancora presenti come prima e io ero totalmente stordita dal tanto dormire e dai farmaci”. Per andare via dalla clinica finse di stare meglio. Nell’estate del ’64 la caporedattrice di Vogue Diana Vreeland e il fotografo americano di moda Henry Clarke la convinsero ad andare in India, due settimane che la fecero uscire temporaneamente dalla crisi. Al rientro a Monaco ritornano angoscia ed insonnia, la mamma mostra segni di insofferenza, Vera tenta il suicidio. La ricoverano per la seconda volta, nonostante lei implorasse la madre di non mandarla in clinica: “Ormai ero solamente panico e allucinazioni. Negli anni successivi ho distrutto i miei diari nei quali era scritto cosa provavo allora”. Un cugino la porta via dalla clinica con l’idea che si sarebbero suicidati insieme (“L’idea bastava per farmi sentire libera”). Vanno sul lago Maggiore e “all’improvviso ho di nuovo trovato piacevole la vita… Alla fine siamo partiti senza che fosse partito uno sparo”.
LA CASA PARROCCHIALE. Dopo l’uscita dalla clinica Vera affitta, con le sorelle Gabriele e Catharina, un appartamento a Monaco vicino alla madre. Gottliebe ha un nuovo compagno molto più giovane, Fritz Schranz che insegnava matematica. Poi abbandonò l’insegnamento e, insieme a lei cominciò ad occuparsi di filosofia. Con alcuni artisti comprarono una antica casa parrocchiale dove si preparavano ‘azioni artistico filosofiche’ che poi venivano rappresentate con degli studenti in posti diversi. “La vecchia casa parrocchiale era così ricca di atmosfera che attirava persone da ogni parte. Improvvisamente mia madre si trovava a vivere”. Spesso partivano: “L’ho ammirata, ogni anno intraprendeva questi viaggi faticosi durante i quali dormiva in tenda in campeggio o semplicemente nel bosco. E ha continuato a farlo anche quando ormai aveva più di settant’anni”.
Per Vera la casa parrocchiale era “un rifugio, lì potevo essere raggiunta solamente tramite telegrammi”. “In quel posto c’erano solo due negozi, la posta, una locanda, una banca e una chiesa… Per gli abitanti del paese ero come piovuta da un altro pianeta. Arrivavano delle persone e mi chiedevano: ‘Ma è qui il bordello?’. Si erano fatte questa idea perché Fritz e mia madre avevano ricoperto le finestre dall’interno con un tessuto in rosa… Nella casa parrocchiale vivevano persone come Paul e Limpe Fuchs, che erano uno scultore e un’insegnante di musica. Suonavano una musica forte ed estatica, spesso a torso nudo, e sul petto avevano scritto ‘Anima sound’, il nome del loro gruppo musicale”. Passavano artisti e intellettuali, una volta anche Werner Herzog,
Nel 1971 Vera va con il compagno Holger a vivere lì e cominciarono a sperimentare unendo arte e fotografia. Gottliebe nel suo diario il 27 ottobre 1971: “Vedo il volto minuto di Vera e la sua assenza di contatto con me e con il suo ambiente. Ha perso se stessa… Capisco che a loro piacciono le loro opere, ma le continue lusinghe e il loro costante compiacersi sono troppo per me… Vera e Holger fanno cose di poca importanza e così trascorre il tempo”. E Vera: “A Peterskirchen eravamo molto lontani da tutto e in me si stava diffondendo una piacevole quiete”.
SALVADOR DALI’. Vera lo conosce nel ’64 a New York, “un essere di un altro pianeta. Ovunque apparisse era il re assoluto e così era anche vestito, con un lungo e ampio mantello e con il suo famoso bastone con il pomo d’argento con il quale picchiava semplicemente su un taxi quando aveva bisogno di un mezzo, meraviglioso! A New York lui e sua moglie Gala alloggiavano sempre al St. Regis… Senza di lei Dalì non faceva niente, la chiamava la dea. E lei chiamava lui ‘Le Divine’….” Vera e Dalì avevano “un codice segreto, e quando diceva ‘Limousine’ intendeva il pene… Non conosceva dubbi su di sé. Si divertiva molto a studiare le persone per il loro aspetto… Di me amava i fianchi e le braccia lunghe… Diceva che i suoi baffi erano le antenne per il mondo, come quelle degli insetti”. L’argomento sesso “gli interessava sempre in modo scottante…”. Diceva: “Sulla punta del mio pene si trova un tessuto vascolare a forma di fiore. Quando è il momento si riempie e così si trasforma in un meraviglioso fiore bianco”. Vera andò a trovarlo a Cadaqués, “mi regalava ogni sera un giglio bianco in modo tale che potessi passeggiare per il paese così adornata al suo fianco, in compagnia di Peter Beard, della cantante inglese Amanda Lear e di un impiegato che tutti chiamavano semplicemente ‘Capitano’ e che portava sempre con sé al guinzaglio un gattopardo americano”. A Cadaqués Dalì fece diversi disegni a Vera come studio per un quadro a cui stava lavorando. A New York insieme fecero la ‘Performance della schiuma da barba’: “Per questa performance ha indossato un mantello bianco… Era primavera, ma a New York la temperatura era ancora quasi invernale. Sulla sponda dell’Hudson River lui mi cospargeva dalla testa ai piedi con della schiuma da barba, per farmi posare come una scultura vivente… Io stavo tremante, la schiuma non si attaccava e, dopo un po’, l’azione venne interrotta e ripetuta in atelier. Dalì era euforico e folle… Grazie a lui ho imparato una cosa molto importante per me, utilizzare il corpo come uno strumento artistico”.
DIANA VREELAND. (1903-1989). La famosa direttrice dell’edizione americana di ‘Vogue’. Vera la conosceva bene e la frequentò a lungo, ma ”era diversa da me, molto più eccentrica. Viveva per la bellezza, per il suo concetto di bellezza. Amava la simmetria. Così per esempio portava una pettinatura perfettamente simmetrica… Il suo ufficio in redazione era totalmente in rosso orientale con dei motivi a zebra… Amava il rouge… Quando era ancora una stilista, così si raccontava, per prima cosa schiaffeggiava le modelle perché prendessero un po’ di colore… All’inizio non avevamo un rapporto personale. Anche a me come a tante altre faceva paura… Sapevo che la cosa che le piaceva di meno era l’insicurezza, per questo nascondevo la mia timidezza, ma era faticoso… Voleva vedere sempre bellezza e forza… Quando si ritirò del tutto, nella sua completa cecità ascoltava audiolibri e allora mi raccontava , in lunghe telefonate, di quanto fosse meraviglioso stare tutto il giorno sdraiata sul letto ad ascoltare libri affascinanti… E da me voleva sempre sapere cosa stesse succedendo fuori, nel mondo. Le dovevo raccontare della vita notturna di New York, di mostre e di luci e colori… Per Vreeland bisognava semplicemente essere interessanti… Tutto doveva avere qualcosa di orgiastico… Viveva a Park Avenue, in un vecchio edificio con portiere e ascensore… Se si era invitati da lei si parlava di tutto… la moda ovviamente ma anche i cavalli, soprattutto quelli arabi, erano uno dei suoi argomenti preferiti. I discorsi nascevano grazie ai suoi ospiti, da lei andavano e venivano Andy Warhol, Truman Capote, la principessa italiana Pignatelli, Mick Jagger e altri ancora. A volte si era invitati da lei anche da soli”.
PETER FONDA. Si conobbero a Roma nel 1965, lui incantato e lei: “Ero totalmente innamorata di Peter… Era affascinante, cordiale, sorridente… Spesso mi guardava a lungo senza dire una parola. A Parigi con lui ho fumato il mio primo spinello e dopo abbiamo riso come due selvaggi. Poi Peter tornò a Los Angeles. Nel ’71 si ritrovarono a New York, c’erano anche Jane Fonda e Roger Vadim. Poi il contatto si interruppe. Si rincontrarono per caso di nuovo a New York nel 1989, e passarono qualche ora insieme. “Lui viveva la sua vita, io la mia”.
PETER BEARD. Proveniva dalla migliore società americana, nipote del costruttore della ferrovia, James J. Hill. “Era completamente selvaggio… Tutto era estremo per lui. IL suo modo di vivere era intenso e i suoi punti di vista definitivi. Ovunque fosse portava sempre le stesse scarpe consumate e dei pantaloni logori che più sporchi erano e più gli piacevano… Scoprire la bellezza dell’animale nella donna lo stimolava ed era così anche per me, e su questo ci siamo incontrati ed è nato il nostro viaggio in Africa. Oggi alcune di quelle foto mi imbarazzano molto perché gli animali erano legati e impauriti, privati della loro libertà… Rappresentare il potere della donna bianca di fronte all’animale sottomesso è una cosa profondamente coloniale… Forse era la vita selvaggia dell’Africa che mi impressionava al punto da non farmi percepire la sofferenza degli animali”.
Per ‘Interview’, la rivista di Andy Warhol, Vera, nel 1975, con l’aiuto di Peter Beard, fece una serie di autoritratti in strada. Non succedeva altro: “E’ sempre più difficile per me guadagnare soldi come modella. Non che ne abbia ancora il minimo interesse, per me è una faccenda del tutto chiusa, è come se farmi fotografare appartenesse alla mia vita di prima”. Tramite Peter Beard, Vera e Holger conoscono a Parigi Francis Bacon, in occasione di una sua mostra.
FRANCO RUBARTELLI. Vera lo conobbe nel 1965 a Roma durante le collezioni, su suggerimento della Vreeland. Sono stati insieme, convivendo, cinque anni: “Un italiano attraente ed elegante che cercava di dare un’impressione disinvolta di sé… Ero alla ricerca di un fotografo non convenzionale e avevo la sensazione che lui fosse pronto a osare qualcosa di straordinario… Sempre più spesso i fotografi più noti come Horst, Penn, Clarke e Bert Stern volevano lavorare con me, ma questo ormai non mi appassionava più… Rubartelli mi fotografava così come mi volevo vedere e non nel modo che desideravano gli stilisti… I nostri scatti, anche quelli non commissionati, venivano sempre pubblicati da tutte le riviste del mondo.
Nel ‘66 Vera fu di nuovo a New York, lavorava con Avedon, ma tornò a Roma da Franco, primo uomo con il quale convisse: “Tuttavia spesso era faticoso con lui perché cercava di avermi totalmente e io non riuscivo a sottrarmi. La nostra collaborazione, per me, era paragonabile a una dipendenza”. Giravano il mondo, ma “una volta tornati a Roma vivevamo in una famiglia italiana del tutto normale, continuamente circondati dalla madre di Franco, e io mi sentivo in trappola… Negli ultimi tempi era ossessivo, non voleva che partissi, neanche per andare da mia madre… a un certo punto sentii un blocco, mi vedevo andare in rovina”.
Nel ’68 Vera diceva di Rubartelli: “Nei miei pensieri la separazione aveva avuto già inizio, ma non lo davo a vedere”. Nel frattempo inizia una relazione con il fotografo di ‘Vogue’ Alexis von Waldeck, che finì presto quando lei seppe che lui andava a raccontare in giro i dettagli della loro storia amorosa.
Nel 1971, dopo il fallimento del film fatto insieme la separazione definitiva da Rubartelli. Lui, pieno di debiti, si stabilì in Venezuela. Per più di 20 anni Vera non seppe più nulla, ma in Sudamerica come regista riuscì poi a guadagnare molti soldi.
HOLGER TRULZSCH. Artista. Vera lo aveva conosciuto nel 1969 nella casa parrocchiale della madre, a Peterskirchen: “Ero incantata dalla sua voce, dai suoi occhi e dai suoi modi piacevoli… All’inizio non sapeva chi fossi e, da intellettuale di sinistra aveva comunque alcune riserve nei confronti di una modella… Dall’Italia sono riuscita a convincerlo a venire a Roma… E’ arrivato vestito con una di quelle giacche che si faceva da solo incollando vari pezzi di pelliccia, e con un tamburo sotto il braccio… Sapevo che dovevo cambiare la mia vita e con Holger è cambiata. La mattina facevamo delle lunghissime colazioni e parlavamo… Ero felice. L’incubo di navigare senza una direzione era finito”. Tornata a New York nel marzo 1971, Vera resistette solo alcune settimane, poi tornò da Holger e andarono a vivere a Peterskirchen, vicino alla madre.
Lui dichiara nel 1998: “Vera mi ha dato la meravigliosa possibilità di potermi dedicare di nuovo alla pittura e per giunta sulla pelle della donna che amavo”.
FIGLI. “Avere figli era per me un’idea impossibile… Io stessa ero come un bambino, come avrei potuto crescerne uno? Non riuscivo nemmeno ad avere un rapporto con i bambini”.
ABORTO. Nell’estate del 1971 Vera era una delle nove celebrità tra le 347 donne che hanno ammesso pubblicamente, nelle rivista ‘Stern’, di avere abortito. Tra loro anche Senta Berger e Romy Schneider. Al tempo abortire era un reato passibile di pena.
BODY PAINTING. Vera cominciò ad occuparsene quando stava con Rubartelli: “Inizialmente mi trasformavo in animali, attraverso la pittura del corpo, perché li ritenevo quasi sempre più belli di noi uomini… La Steinbemalung (Pittura delle pietre) nel 1968 è stata poi l’inizio di un mutamento, di un ritirarmi sia dal personaggio Veruschka che da me stessa. E poco dopo è iniziata la collaborazione con l’artista Holger Trulzsch, e con lui sono nati il rigore e la ricerca dell’essenzialità della posa… Abbiamo elaborato una tecnica speciale di pittura per il corpo… Il mio desiderio di mutamento era un’ossessione, un tentativo di trasformarmi in ogni possibile essere vivente… Holger e io ci capivamo proprio in quanto artisti e così ci rifiutavamo di interpretare i nostri lavori. Io lavoravo e comunicavo con il mio corpo perché questa era la cosa più ovvia per me. E’ il mio strumento e ho imparato a gestirlo. Lo tengo costantemente in trasformazione, ma nella vita quotidiana indosso quello che trovo nell’armadio”.
Iniziò a Roma nel’68, Vera era sola e abbattuta: “Sono uscita fuori sul terrazzo della casa che condividevo ancora con Franco e all’improvviso ho avuto l’idea di diventare come le pietre del pavimento del terrazzo. Mi sono stesa in terra e con l’aiuto di uno specchio ho dipinto la struttura delle pietre sul mio viso… Il rifugio nell’arte allora faceva parte della mia strategia di sopravvivenza”. Fotografata da Rubartelli, questa pittura è diventata poi ‘Body Art’. “L’idea di diventare simile allo sfondo, era innata in me. La ‘Testa di pietra situata tra altre pietre’ diventata poi famosa è nata solamente con il film che ho prodotto con Rubartelli”.
Dieci anni dopo, nell’aprile del 1978, Vera lavora a un ciclo di pitture sul corpo con Holger. “Ci siamo sistemati per alcune settimane ad Amburgo in una costruzione industriale dell’Ottocento abbandonata al degrado… E’ nata in alcune settimane una serie di lavori nei quali io con il mio corpo pitturato raggiungevo una sintesi visiva con le forme, le superfici e le strutture del luogo. L’abbiamo chiamata la serie delle ‘Oxydationen’. L’anno dopo i lavori furono esposti con successo ad Amburgo, Museo delle Arti e mestieri. Sullo ‘Zeit’: “La tendenza all’annullamento della persona per materializzarsi in altri soggetti è una caratteristica di tutto quello che ha fatto finora Vera von Lehndorff come attrice e artista. L’oggettivazione del corpo, iniziata allora, portata avanti durante il periodo da modella, viene spinta adesso fino all’estremo confine, verso l’annullamento, nel fondersi con le pietre di un muro, con il metallo di una porta e con il legno degli infissi”. Conseguenza sul suo corpo: una forte infiammazione agli occhi e escoriazioni e macchie sulla pelle per i materiali usati.
Nel 1984 Vera torna un paio di volte a New York, con il pittore Markus Lupertz a cui faceva da interprete e, nel frattempo cercava gallerie dove esporre le sue opere. Era molto difficile. Non voleva essere chiamata Veruschka, ma Vera Lehndorff. Non ci riuscì: “Se si era diventati famosi nella moda, nel settore dell’arte ti si chiudevano le porte. Anche se alla fine è più facile in America che in Europa”. Nello stesso anno posa crocifissa per Julian Schnabel. Alla fine riesce ad avere la prima mostra americana, alla galleria di Bette Stoler (autunno 1985, esposte le ‘Oxydationen’). Vernissage da superstar con Andy Warhol, Gary Indiana, Robert Hughes, critico d’arte del ‘Time magazine’, Susan Sontag, ecc. Nel 1986 la stessa mostra a Houston. Esce anche un libro, ‘Trans-figuration’, con la prefazione di Susan Sontag. E ancora: imitazione della body art in un video dei Rolling Stones (mostrava delle ragazze dipinte come un muro, dal quale emergevano e di fronte al quale cantava Jagger) e su una copertina di ‘Vanity Fair’ con Demi Moore nuda, ma dipinta come se portasse un vestito.
‘ASCHEBILDER’. Progetto iniziato nel 1981, scenari di città in fiamme per il quale Vera brucia ogni oggetto possibile. A Londra, col fotografo Michel Haddi, cospargono di cenere un capannone industriale, dove poi Vera si sdraia cosparsa a sua volta di cenere. Ne nacquero foto famose. A New York lavorava con la cenere dei camini, ma vi lavora più assiduamente dopo, a Peterskirchen.
ANDY WARHOL. Vera lo conobbe a New York e lo incontrò spesso fin dai primi anni Settanta . Era presente nell’’85 all’inaugurazione della sua mostra. “Era molto piacevole e assolutamente infantile, e si presentava sempre così ignaro e innocente, tutto doveva essere sempre bello e grandioso, lui non voleva che nessuno gli ponesse delle domande e nemmeno voleva trovarsi a confronto con niente”.
RICHARD AVEDON. Fra i più grandi fotografi americani di moda. Vera lo aveva incontrato a Parigi nel 1961, con un contatto che le aveva procurato Denise Serrault: “E’ stato solamente un breve incontro, lui non era assolutamente interessato a me. Per i canoni di allora ero troppo longilinea e timida e avevo un viso da bambina. Avedon era semplicemente ancora un gradino troppo in alto per me… Per l’alta moda avrei dovuto essere più piccola, più fine e più magra e tutte le volte c’erano dei problemi con le scarpe”.
Cinque anni dopo a New York lavorano insieme. Realizzano 23 pagine per il numero di marzo 1967 di ‘Vogue America’, che Veruschka considera “l’apice” del suo lavoro, con la novità della ‘posa in movimento’: “Volevamo dare l’impressione che il corpo fosse privo di gravità… Con Dick le sedute fotografiche sembravano sempre una specie di discorso attraverso la macchina fotografica…”. Nel febbraio ’66 partirono per alcune settimane per il Giappone: ‘Vogue’ aveva commissionato, senza badare a spese, di fotografare in un paesaggio di ghiaccio e di neve delle pellicce costose, fatte apposta per Veruschka: “Sono molto felice di fare con Avedon, il più grande fotografo di moda del mondo, un viaggio del genere- scrive alla madre – prima di concentrarmi di più sul cinema... Non so più se sia giorno o notte, in quale paese io sia, in che ora e in che data. Giuro, una grande confusione…”. Nel team c’era anche un lottatore di sumo giapponese, “aveva 17 anni ed era incredibilmente magro, alto quasi due metri… I suoi piedi erano enormi e per di più andava solamente scalzo, anche d’inverno… Durante le riprese stava per ore scalzo nella neve poiché era impossibile trovare scarpe per lui. Non ha mai emesso un suono, era sempre completamente muto”.
“ Lavorare con Avedon è stato senza dubbio il periodo più importante e di più grande ispirazione nella mia vita come modella… Era unico, ma spesso dovevo disdire gli incontri perché Rubartelli si interponeva, era geloso quando lavoravo con un altro fotografo”. Alla fine Vera lasciò la collaborazione con Avedon e si trasferì a Roma con Franco, optando per la recitazione.
PELLICCE. “Agli inizi degli anni 80 ho visto un documentario sull’uccisione degli animali per l’industria delle pellicce e da allora non porto più pellicce e non le porterò mai più”.
LIBIA. Dopo ‘Blow up’, Vera parte per la Libia con Rubartelli. Girano foto nel deserto, lei disegna i suoi vestiti, ispirandosi alle pitture murali egizie e decide le acconciature: “Non ci interessava altro che deserto e luce, Diana Vreeland era entusiasta dei disegni e aveva organizzato tutto… Ogni giorno nel deserto. Per le riprese volevo tenere gli occhi aperti, ma a causa della luce intensa sono diventata temporaneamente cieca. Per quattro giorni ho visto solo nero…”. La Vreeland sulle foto di quel viaggio: “Sono troppo belle per essere vere. E tutto è merito tuo… Hai un unico difetto, Veruschka… I tuoi occhi guardano sempre troppo lontano, questo continuo sguardo alla ricerca di qualcosa è una tipica peculiarità europea”. E lei: “Il successo mi aveva reso cieca, avevo perso il contatto con me stessa ed ero solamente una messa in scena senza la possibilità di potermi ritirare, riposare ed essere creativa… Il vuoto dentro di me stava diventando sempre più grande. Diana Vreeland l’aveva già notato nel mio sguardo”.
‘THE UBERMENSCH’. “E’ già stata notata, ovunque. Seminuda e gettata come una statua fusa a freddo nella neve fresca dell’Alaska, il sole del deserto scottante sul suo corpo snello come un giunco e dipinto come una pelliccia di leopardo, felina come nel film ‘Blow-up’… Ha l’andatura eretta, ma non rigida, anzi mentre si avvicina la sua figura infinita sembra muoversi al rallentatore. Pesa solamente sessanta chili, ma incredibile, in tutta questa lotta nello spazio, sulla silhouette esile di questa creatura si intuiscono un seno notevole e dei veri fianchi”. (‘Life-Magazine’ del 1967, copertina e 11 pagine su Veruschka. Lei ne fu “onorata. Solo che hanno scritto che ero alta 1,87 com e questo non mi è piaciuto”)).
A 28 anni era la modella più famosa del mondo.
1971, Vera in visita a Monaco. “La più alta di tutti, sembra una sottile roccia aguzza tra la folla: la top-model Verschka, contessa von Lehndorff… Sposta il peso e il suo corpo, una torre pendente, vacilla leggermente mentre il suo sguardo azzurro pallido rimane annoiato. Lentamente appare un ginocchio sotto lo spacco che arriva fino all’anca del suo vestito nero. La sua mantellina di giaguaro scivola. Si vede anche l’inizio del sedere”. (Articolo della ‘Munchner Abendzeitung’). Nella stessa occasione a un fotografo che la voleva in posa insieme a Barbara Valentin: “Qui non ho ancora individuato una persona bella… Bello è ciò che si distacca dalla massa. Odio la massa. Da bambina volevo essere come tutti, ma ero troppo alta e troppo magra. Ero brutta. Fino a quando un giorno non mi sono convinta di essere bella, e così lo sono diventata”.
‘PERSONALITY MODELS’. “La modella più richiesta del mondo, com’è stata definita da ‘Life’, è per la maggior parte delle riviste inglesi un uccello addirittura fiabesco. ‘Vivo sempre con la valigia’ dice di se stessa. Sulle foto vediamo Veruschka nelle vesti di leopardo, di uccello o di un altro animale, ma praticamente mai rappresentata come donna… E’ una delle prime rappresentanti di una nuova specie, le Personality Models”. (Brigitte Keenan su ‘Magazin Nova’, 1968).
LEGGENDA. Nei camerini degli studi fotografici di Londra si bisbigliava che, quando oggetti di una modella inglese finivano nel camerino di Veruschka, lei le tirasse dietro alla sventurata collega urlando: “ Ragazze piccole come te io le divoro a colazione”.
ARA GALLANT. L’hair stylist di Veruschka. “Era schiavo delle manie di grandezza. Si spostava solamente in taxi o limousine, doveva dormire in lenzuola di seta, tutto il suo guardaroba era cucito a mano per lui e le sue scarpe, portava solo stivali da cow-boy che venivano fatte su misura. Ara era un grande eccentrico… La sua casa era come una grotta, oscura, piena di specchi e senza finestre… Fumavamo ininterrottamente, non era concepibile Ara senza sigarette”. Gallant si suicidò nel 1990.
GIORGIO DI SANT’ANGELO. Designer, collaboratore di di Veruschka, proveniva dall’antica nobiltà siciliana. “Tra tutte le persone della moda era l’unico al quale ero legata da un’amicizia… Viveva in una casa arredata meravigliosamente in Park Avenue… In nessuna occasione sembrava voler fare sfoggio della sua ricchezza… Giorgio era sempre molto presente, positivo e pieno di energie. Con lui non si era mai di cattivo umore”. Vera fu ospite a casa sua per qualche tempo nel 1988. Nell’’89 Giorgio si ammala di tumore e muore. Vera ne soffre moltissimo.
DEPRESSIONE 3. Fine anni 60, nuova crisi. Vera scrive alla madre: “Volo in giro come un uccello spaventato, cerco la terra, ma ho bisogno del cielo… Anche le mie foto non sono più belle… Non riesco quasi più a sopportare la macchina fotografica posizionata su di me, che pretende qualcosa, che inesorabilmente si aspetta qualcosa e che risponde con un clic, anche quando non riesco a tirare più fuori qualcosa da me. Così come mi ha fatto parlare mi porterà anche a a tacere!... Non mi sento più unica”. Comunica anche la disdetta a ‘Vogue’ di tutte le sfilate per l’estate ’68.
La nuova caporedattrice Grace Mirabella, ha l’incarico di restituire ‘Vogue’ alle donne reali e vuole cambiare l’immagine di Veruschka: “Mi hanno pregato di accorciarmi i capelli e di apparire nell’insieme più compiacente. Sapevano che questo non mi si poteva chiedere… Nel momento in cui hanno messo in dubbio la mia immagine mi è stato chiaro che ero nel posto sbagliato… Rifiutandomi di cambiare secondo le loro idee, me ne sono andata”.
MORTE. “Sono continuamente accompagnata da questa sensazione di morte e sono sempre sconvolta dal grande buio che mi attende e del quale non so niente. Qualsiasi cosa succederà dopo avrà certamente una durata eterna. Cosa mai saranno questi anni sulla terra in confronto all’eternità”. (Lettera alla madre, 1968).
“La morte mi è vicina da giorni, non perché voglio morire, ma perché so che dovrò morire. La mia fugacità mi è estranea, me è comunque lei che mi ricorda, come i fiori appassiti sul tavolo, di andare a passo più veloce”. (Peterskirchen, 11 aprile 1984). Già due tentativi di suicidio alle spalle. “Solamente quando vita e morte sono presenti consapevolmente l’una accanto all’altra, inizia una vita in cui scorre tutto. Bisognerebbe vivere faccia a faccia con la morte. La morte non dovrebbe sorprenderci, dovrebbe essere sempre in noi come la vita, e quando un giorno ci toccherà partire con lei, non andremo con un estraneo”. (Peterskirchen, 19 febbraio 1985).
DEPRESSIONE 4. L’estate del 1973 Vera la trascorse nella casa parrocchiale, spesso sola e inerte. Considerava gli ospiti come degli intrusi. “Ho la sensazione di venire schiacciata da una forza invisibile… Le angosce notturne si sono aggravate sempre di più… Non riesco a sopportare la mediocrità in me” (ott.1973). Dopo un anno a Peterskirchen, Vera e Holger se ne vogliono andare e, alla fine di novembre, si trasferiscono a New York, all’hotel Alden. Qualche giorno dopo Vera scrive a sua madre: “Fumo di nuovo come una ciminiera e per questo ho l’aspetto sciupato… Non so ancora che travestimento mi metterò questa volta per proteggermi. Io e Holger sembriamo due campagnoli smarriti , e infatti lo siamo!!!”.
Tornata a New York Vera riprende a lavorare con Avedon in pubblicità, ma non è più la stessa: “Veruschka è andata, è alla fine”, si diceva. “Lì mi è stato chiaro: devo scomparire, qui così non mi bvuole vedere nessuno”. E torna sola n Germania, a Wiesbaden da un terapeuta. Holger resta a New York. Viene sottoposta alla terapia delle regressione, “scelta poco felice… stavo peggio. Andavo dritta verso il delirio”. Scappa da Wiesbaden, a Francoforte la raggiungono la sorella Catharina, che spaventata da una notte delirante di Vera, chiama la madre che, con Fritz, la riporta a Peterskirchen: “In me c’era l’inferno, mi hanno sistemata nella sala di lettura di mia madre. Ma anche lì vaneggiavo sempre di più. Non trovavo riposo e girovagavo per la casa, anche a notte fonda. Era un’unica catastrofe quella che mi succedeva”. Fu portata in una clinica psichiatrica a Monaco e Holger la raggiunse subito da New York. Dopo otto settimane di ricovero, i medici propongono l’elettroshock, Holger rifiuta il consenso, fa dimettere Vera e decide di portarla in Grecia. “Ho fatto credere che non era più così grave… Già nel lungo viaggio per la Grecia dondolavo di continuo sul mio sedile gemendo tormentata dalle mie visioni da horror”. Arrivano in una bellissima isola, Spetses, in un appartamento di amici. Lei non migliora, disegna il diavolo: ”Ero dimagrita moltissimo e mi tormentava la paura che qualcuno mi venisse a riprendere. Quando vedevo apparire delle navi all’orizzonte pensavo che il momento fosse arrivato”. Holger la tranquillizza e la accudisce amorevolmente, ma invano. Il 12 maggio 1974 prepara il viaggio di ritorno: “Era chiaro che mi attendeva un altro ricovero in una clinica. Già in passato mi avevano diagnosticato una psicosi, profetizzando una permanenza in una clinica per più anni. Pensando a questo mi assaliva una paura così forte che decisi di voler morire… Il pensiero di suicidarmi mi tormentava già da alcune settimane…”. E il giorno prima di partire lo realizzò buttandosi da uno scoglio, davanti agli occhi di Holger. Urta con uno scoglio appuntito, precipita in mare e, a nuoto, raggiunge la riva. Coperta di sangue, a Holger dice di essere scivolata. Poi perde conoscenza. Lui corre dalla polizia che lo accusa di averla buttato dallo scoglio. Gridando, esce, trova un medico tedesco e un pescatore, raggiungono in barca Vera, non la trovano: “Ero salita su un pendio. Lassù, dietro a un masso, stavo inerte e guardavo lontano, oltre il mare… Holgermi ha trovato così, in trance, assente e assorta. Ancora non sentivo il dolore né le ferite… Quando poi Holger mi ha toccato ho cominciato ad urlare. Il dolore era entrato nella mia consapevolezza. L’anca era storta, il mento, il pube e le costole si erano rotti e ovunque c’erano delle ferite”. La sera tardi arrivano ad Atene e, in ospedale c’era la polizia pronta ad arrestare Holger. Lui, ancora urlando e sgomitando riesce a liberarsi e a fare curare Vera la sera stessa. Lei si riprende: “Sentivo la pace dentro di me ed ero grata di essere sopravvissuta… Lo choc aveva cambiato tutto”. Dopo varie settimane di convalescenza ad Atene, Vera ed Holger tornano in Germania. “L’energia che prima sentivo contro di me, adesso si muoveva per me. Era come una rinascita”. Ricominciano anche le offerte di lavoro, per le riprese di spot pubblicitari. “Per la prima volta nella mia vita sono felice di essere viva… Ogni giorno sono contenta di vivere. Non ho più paura di stare insieme alle persone che amo…” (Diario dell’ 1 dicembre 1974).
Da maggio a giugno 1975 Vera fa di nuovo un viaggio a Spetses, per elaborare lo spavento dell’anno passato.
MEDIA CONTRO. Fine 1974, Vera si trasferisce a Parigi con Holger. A gennaio spiacevole partecipazione come ospite d’onore in un talk show tv: “Attorno a me c’erano solo uomini. Uno di loro, un comico senza alcun senso dell’umorismo, si è preso la libertà di definirmi ‘attaccapanni’ e non ho avuto una risposta pronta… Finito lo show nessuno mi rivolgeva la parola”. Holger: “Ci vorranno cinque anni prima che questo fatto venga dimenticato”. A fine luglio 1975 la stampa scandalistica scriveva, per l’ennesima volta, di avere sorpreso Vera con un nuovo amore: “La stampa scandalistica scriveva sempre qualche storia su di me, ma non significava niente, era il solito chiacchiericcio e i soliti pettegolezzi. Si fa di tutto un unico calderone, non importa se si tratta di una contessa nuda, dell’invecchiare, dell’incidente, di qualche play boy o addirittura di mio padre e della Resistenza. Così è per tutti coloro che sono esposti al pubblico…”.
19 febbraio 1976, ‘Stern’ riporta alcune foto della Mimikri-Dress-Art di Vera e Holger e scrive: “Vera, lunga come la miseria, inciampa di continuo, e in verità non è bella per niente. Davvero non lo è. Di fronte a me siede una donna molto alta, dura, pallida e bionda con una grande bocca schiacciata, degli occhi beffardi e molto chiari sotto a ciglia da capra, una sottile cicatrice sul mento, delle dita ingiallite dalla nicotina con le unghia spezzate, una donna con delle gambe rigide e magre in dei jeans bianchi e con un profilo indefinito sotto a un largo pullover”. Lei: “I media tedeschi si divertono a ridicolizzare i connazionali che diventano famosi. Allora lo ‘Stern’ ci pagò molti soldi per avere le foto dei nostri quadri. E quelli ci servivano urgentemente”.
JACK NICHOLSON. In quegli anni Vera conobbe Nicholson e Anjelica Huston, che faceva la modella. A Ottobre 1975 andò a trovarli a Los Angeles: “Mi piacevano molto. Stavamo tutto il giorno a poltrire in casa oppure in piscina, facendo delle lunghe chiacchierate tra donne”.
LOS ANGELES. “La vita in questa città per i ricchi era molto cool! Case belle in montagna o al mare, ovviamente sempre con una piscina e minimo due macchine poiché tutti si spostavano solo con queste. L’inquinamento della città a quei tempi era così alto che molte persone portavano delle maschere per respirare. Le star si facevano reciprocamente visita nelle loro ville, stavano in piscina, si raccontavano le proprie storie, del loro ultimo film o del loro LP. Poteva essere molto divertente. Tutti cercavano di superare gli altri con le storie migliori. Facevano tutto insieme e condividevano il loro film, dischi, ecc, addirittura le loro mogli o mariti. L.A. era ancora più americana di New York e io mi sentivo come a Disneyland.
FRANCOIS WEYERGANS. Scrittore, Vera lo incontrò a Parigi, “era il tipico intellettuale parigino, un po’ alla Jean-Luc Godard… mi sentivo attratta sempre più da lui. Mi studiava con grande intensità rendendomi partecipe delle sue scoperte… era sempre allegro, mai infelice o deprimente… Con lui è iniziata una vita molto vivace. Le giornate passate insieme erano meravigliose. Con Francois ho scoperto Parigi… e ho conosciuto Klossowski, Bejart e il danzatore Jorge Donne… Holger è caduto dalle nuvole quando io improvvisamente ho cominciato a stare insieme a Francois , dal momento che non c’era alcun motivo per separarci. Non avevo neanche intenszione di vivere con Francois. Aveva un figlio e una moglie che lo amava”. Holger se ne andò in Grecia, “perché tutto questo era troppo per lui. E’ stato terribile, ero lacerata perché non volevo perderlo per nessun motivo. Ma Francois era come una farfalla, di continuo si levava in volo per scoprire qualcosa di nuovo e di eccitante, per volare da un fiore all’altro e infine per sparire all’improvviso…” . Fecero insieme il film ‘Couleur chair’, poi lei andò da Holger a Paros, in una casa piccola, isolata e senza elettricità, occupandosi entrambi di body art. Inizia così un periodo di sballotamento nei rapporti fra i due amori. E lei torna triste. Scrive nel 1978: “Non avere una professione, essere nessuno, proprio non va… si diventa un clochard… oppure si impazzisce e si finisce in manicomio o in prigione. Io divento dei muri, delle porte o delle pietre. Divento ciò che evidentemente va incontro alla decadenza… Ma andare, per tutta la vita, ogni giorno, al lavoro, per me sarebbe ancora più assurdo e alla fine insopportabile”.
DISEGNI. Vera dipinse e disegnò: le pietre, una delle sue ispirazioni principali, con una serie di disegni a lapis del 1979: “Le pietre sono dei mondi, immutabili in sé, come se già un po’ più vicini all’eternità, sopravvivessero alla fugacità…” Poi, i fiori: “Ho disegnato un’amarillide rossa… i suoi fiori cambiavano di ora in ora. Ero così sconvolta dalla sua bellezza che in certi momenti mi girava la testa…”.
40 ANNI. “Mi sentivo vecchia… Vivevo sempre provvisoriamente, con una valigia con dentro alcune cose, le pietre, i miei disegni, in un viaggiare continuo tra Bruxelles, Parigi e Peterskirchen”. A Parigi Vera viveva con Francois, due camere senza bagno e con la toilette nel corridoio, lui scrive e fuma, lei disegna, “ogni due ore viene bollito un tè giapponese e svuotato il posacenere”.
BUDDHA. In quegli anni Vera si interessa al buddismo: “Buddha era una persona, non un Dio o un figlio di Dio… Aveva origini aristocratiche ed è diventato di sua volontà un mendicante”. Vera, attratta, andò in ritiro due settimane sulle montagne del sud della Francia: “Tutte le mattine, alle cinque, quando sorgeva il sole, si meditava e poi si facevano degli esercizi di yoga su un prato…”. Francois non apprezzava: “Io ero entusiasta, lui fuori di sé (‘Ti devi decidere, tra Buddha e me’). Sia lui che Vera, in quel periodo avevano altre relazioni, lei con un buddhista, lui con un’americana. Ma lei si deprime, visse con il buddhista per due settimane in un minuscolo appartamento: “… Mangiavamo riso, qualche volta un po’ di verdure, altrimenti stavamo a letto o meditavamo. Uscivamo soltanto per un attimo, per comprare del riso, poi mangiavamo, meditavamo e ci mettevamo di nuovo a letto…”. Poi lo lasciò. A Peterskirchen Vera si era costruita nell’atelier un piccolo altare per praticare il buddismo tibetano, “questo ha contribuito tanto alla mia confusione, mi stavo mettendo alle strette da sola… Ancora una volta stavo precipitando da una montagna a tutta velocità…”.
DEPRESSIONE 5. 1983, un altro ricovero alla clinica psichiatrica Max-Planck di Monaco, ma Vera scappa di nuovo e si rifugia da Francois, nel frattempo trasferitosi in una casa “in un bosco incantato per scrivere, a un’ora da Parigi. Dopo un iniziale piacere per il nostro rivedersi si sentiva però disturbato… Non sapeva come aiutarmi. In quel periodo ho tentato il suicidio per la seconda volta… mi sono buttata nel vuoto da una finestra di casa”. Ricoverata di nuovo, a lungo per trattamento e terapia. Torna da Francois e poi a Peterskirchen .
TEATRO. Vera debutta ne 1983 con la regista Ulrike Ottinger. Mettono in scena ‘Clara S.’ a Stoccarda e Vera interpreta Gabriele D’Annunzio. La sera della prima cade. Ferita, continua la rappresentazione. Fu un successo. L’anno dopo la stessa regista le offre il ruolo di Dorian Gray in un film.
AIDS. Erano gli anni in cui l’Aids seminava panico e morte, soprattutto nell’ambiente di Vera, che perde molti amici: Zoli, il suo agente, fu uno dei primi a morire, poi Haltson, Mapplethorpe, alla cui commemorazione al Whitney Museum Vera era presente, Keith Haring, il danzatore Alvin Ailey, Rock Hudson, Anthony Perkins.
PARIGI. Come New York, a Parigi Vera continuò ad andare per tutta la vita e vi si stabilì anche lunghi periodi. Alla fine del 1989 si trasferisce vivendo una nuova fase depressiva. Abita all’inizio nell’appartamento vuoto dello scrittore Patrick Suskind e poi in una casa vicino a place des Vosges, messale a disposizione da Hanna Schygulla. A Parigi allora vivevano anche Holger con la compagna Dominique e Vera li frequentava assiduamente. Tornata Hanna, Vera trasloca ancora. In quegli anni inizia una psicoterapia profonda, dove ripercorre le sue vicende familiari. Un’occasione importante di riflessione fu la seconda parte – inedita - della lettera di addio del padre che la madre le fece vedere alla fine del 1992, 48 anni dopo la morte del padre: “Fino ad allora conoscevamo solo la versione pubblicata. Riflettere sulla lettera per me è stato molto importante… In questo periodo ho iniziato a comprendere che le fasi della depressione hanno una funzione nella mia vita, mi costringono tutte le volte a liberarmi dalle situazioni nelle quali non vorrei vivere. Da questo punto di vista, più che una malattia sono una medicina”.
GATTI. La passione di Vera, soprattutto negli ultimi anni. A Parigi nel 1993 Holger e la sua donna le portano un piccolo gattino nero, che lei chiamò Afflein. “Aveva seguito i due in strada e voleva assolutamente salire da me. Era profumato… Non si è più staccato da me per dodici anni”. Ad Afflein si aggiunse Tommy, che Vera salvò da una pensione per animali. Si era sparsa la voce che lei li amasse e si ritrovava gattini appena nati fuori dalla porta. A Brooklyn nel ’96 viveva con undici gatti, arrivò ad averne anche 15. Vera li curava anche: “Ogni giorno cucinavo tonnellate di cibo per gatti a attraversavo in bici la città per dar loro da mangiare. In certi periodi è stata la mia occupazione principale. Nel 2005 Vera lascia New York per Berlino e si porta sette gatti.
MICHAEL WASCHKE. Detto Micha. Vera lo conosce nel ’93, su indicazione del suo amico compositore Jacques Schonbeck, che le segnala “un tipo ostinato, vive a Berlino, viene dall’Ovest e studia filosofia. Soffre per pene d’amore e gli piacerebbe venire a Parigi”. Lei se ne innamora, lui aveva 25 anni, Vera 55: “Con Micha la vita è iniziata ancora una volta”. Convivono e d’estate vanno insieme a Peterskirchen: “Un’estate da favola, ai laghi in bicicletta, godendoci le giornate..”, la casa invasa da ragazzi. Nel 1996 ancora insieme e con il gatto si trasferiscono a New York. All’inizio vivono nella casa del compagno di Isabella Rossellini, Gary Oldman. Dall’estate del 1996 sono a Brooklyn, in un loft di 100 metri quadri, in una piccola casa a due piani, nel quartiere Dumbo, “abitato solo da artisti e rock band… Una no man’s land in cui in quegli anni alcuni tassisti rifiutavano addirittura di arrivare… Io e Micha vivevamo come due bambini, che giocavano e che facevano quello che gli veniva in mente… Al piano di sotto viveva Joey, un’artista che creava sculture di ghiaccio… Ho stretto amcizia anche con Ed, un senzatetto. Nel ’98 Vera, con Micha e Joey realizzano il film artistico ‘Buddha Bum’: “Parlava di senzatetto e di Buddha, io ero una clochard e Buddha in una sola persona… Il mio costume era: pelle, capelli, un pezzetto di stoffa, tutto in blu. Ero seduta su un fiore di loto di ghiaccio, che Joey aveva scolpito per me… Micha ha composto le musiche su un pianoforte vecchio che aveva trovato per strada”. Poi la storia d’amore finisce, ma Vera e Micha restano amici, diventa sua amica anche Lilli, la compagna di Micha, che la aiutava nella cura degli animali.
VERUSCHKA SELF-PORTRAITS. L’idea era quella di rappresentare diversi tipi umani di New York. Alla fine ne sono venuti fuori più di una trentina, mendicante, prostituta, extraterrestre, animale, mafioso, intellettuale, attori, anche primo presidente americano di colore. Collaborarono al progetto anche designer e studenti della scuola di moda e di Parigi. Il fotografo era Andreas Hubertus Ilse.
BERLINO. Quando nel 1989 crolla il muro, Vera è a New York, in taxi. Allora non era mai stata nella Ddr. Nel 2005, Vera vuole lasciare New York per tornare in Europa e sceglie Berlino. “Volevo ritornare alla mia storia. Berlino era l’unica città da prendere in considerazione. Mi attirava l’apertura.. dopo la caduta del muro è di nuovo tornata ad essere una metropoli”. A fine maggio con Lilli arriva a Berlino, con sette gatti e un’infinità di scatoloni. “Non la conoscevo bene, l’Est della città mi colpiva particolarmente, Micha veniva spesso con me in quella parte… La storia a Berlino è onnipresente, ti piove addosso ad ogni angolo, anche la storia di mio padre… In realtà ci ho messo più di due anni per arrivare davvero in questa città. Nelle prime due case non avevo nemmeno aperto gli scatoloni. Ma a Berlino, “per la prima volta dipendo solo da me stessa e percepisco questa esperienza come un grande arricchimento”.
STEVEN MEISEL. Il fotografo che ha fatto a Veruschka alcuni memorabili ritratti alla fine degli anni 80. “E’ l’unico da cui mi lascio fotografare volentieri ancora oggi… Ci legava una profonda armonia, Steven l’ha formulata così: ‘Veruschka è curiosa di entrare nel mondo dell’altro e di mettersi in gioco’. Questa fascinazione è reciproca”.
BIENNALE DI VENEZIA. Nella primavera del 2001 Vera è presentata dall’italiano Francesco Vezzoli alla Biennale d’Arte di Venezia come un’intsallazione vivente in un look del 1969: “Vezzoli aveva collocato una panca di un film di Luchino Visconti e lì sedevo in un abito di Valentino degli anni Sessanta… La performance prevedeva che io fingessi di ricamare il mio stesso ritratto. In alcuni momenti mi sdraiavo sulla panca e fingevo di dormire. La cosa più bella era quando i visitatori si avvicinavano constatando sbalorditi che non ero di cera, ma reale”.
11/09/2011. Vera era a Brooklyn quando ci furono gli attentati al World Trade Center: “Ero seduta nella terrazza che apparteneva al loft, quando all’improvviso si è sentito uno scoppio incredibilmente forte. I gatti sono corsi in casa, nascondendosi sotto i mobili… Delle enormi nuvole di fumo bianco venivano da Manhattan verso di noi. Ho acceso la televisione… Poi il telefono non funzionava più. Alla radio e in televisione dicevano di rifornirsi di generi alimentari, allora tutti sono corsi a comprare delle provviste… New York era dominata dalla paura e dall’incertezza. Tutto sembrava cambiato e messo in discussione… Tutti, anche io , avevano paura di possibili bombe nella metropolitana”. Un mese dopo, al MoMa viene mostrato un video della città in fiamme che Vera aveva realizzato nel 1986 a Peterskirchen e, in parallelo vengono mostrate delle foto riprese a Manhattan negli anni Ottanta con Vera sdraiata per strada e ricoperta di cenere. La mostra suscitò scalpore e irritazione nei visitatori ancora sconvolti dalle Twin Towers.
JACOB ROHWER. Il giornalista che ha scritto il libro. Si incontravano regolarmente due volte a settimana, a casa di lei, tra aprile e luglio 2010.
“Vera Lehndorff sembrava come senza tempo, naturale e priva di gravità… E’ difficile afferrare Vera. Nessuno è come lei, nessuno potrà mai essere come lei. Mille volte ha lasciato le sue tracce per poi solo sparire di nuovo. Qualsiasi cosa si veda in lei, lei lo è e non lo è. Solo in un posto possiamo sempre trovarla: nella nostra fantasia”.